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III.
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Il nome di dragomanno dovrebbe significare strettamente, interprete: ma dall’Egitto a tutta Sorìa, il suo senso si sviluppa, si allarga, e dragomanno finisce per esprimere la qualità dell’interprete e del cicerone, della guida e della scorta, dell’amico e del servo. Sì, anche dell’amico! Tre giorni soltanto io ho vissuto, dalle nove del mattino, alle sette di sera, con Ahmed, il turco con un occhio solo e con la faccia arguta, che fu il mio dragomanno di Alessandria; ma il suo gergo italo-marsigliese-arabo, mi sta sempre fisso nella memoria, e i suoi lunghi, pazienti silenzi, nelle otto o dieci passeggiate, che io ostinatamente volli fare, lungo il Nilo, e il discendere cento volte dalla carrozza, e il tenere i fiori, gli occhiali, l’ombrello, la mantellina, ogni volta, e l’acutezza della sua intuizione, in ogni mio ordine, che non comprendeva, ma indovinava, e certe finezze di osservazioni, mentre mi descriveva Ramleh, la villeggiatura del Kedivè, e tutto questo servire, finalmente, premuroso, taciturno e ossequioso, di automa, ma di automa intelligente. Non mi domandò, forse, Ahmed, quando mi venne ad accompagnare sull’Apollo del Lloyd austriaco, per Jaffa, non mi chiese di condurlo, con me, in Soria?
— E là sapresti fare il dragomanno? — gli chiesi.
— Oh, no! — disse lui, con la schiettezza mussulmana. — Mi tieni come servo.
Gli dovetti a lungo spiegare che non potevo, che non era possibile; ma egli crollava il capo: e non si convinse, e se ne andò, così, muto, nella barchetta. Dopo aver portato la mia mano alla sua fronte e al suo cuore, in atto di ossequio, se ne andò, con la malinconia pensosa e rassegnata dei turchi. E Hassan, il vecchio Hassan, il mio dragomanno del Cairo? Un vero turco di Turchia non mica un egiziano, un turco col turbante bianco e ricco di pieghe, intorno al fez, un turco, con la gran tunica tenuta ferma ai fianchi dalla fascia di seta, un turco dalle larghe braghesse: vecchio, molto vecchio, un po’ lento nel camminare, con la voce chioccia, ma con un nobilissimo aspetto turco, tanto che io mi vergognavo di farlo sedere presso il cocchiere, sulla carrozza, e per poco non lo misi alla mia sinistra, nell’elegante victoria di piazza, del Cairo. Hassan veniva a prendermi alle cinque del mattino, poichè già cominciava a far caldo, e le gite era meglio compirle col fresco: e da quell’ora si legava alla mia persona, come un’ombra. Bussava ai vetri della mia finestra, a pianterreno, nell’Hôtel du Nil, e si metteva ad aspettare, in giardino; quando io appariva, la sua grinzosa faccia di vecchio turco mi indirizzava un benevolo sorriso ed egli si avviava innanzi a me, con un bastoncino di ebano, per farmi largo, e montava in serpa, scambiando qualche rara parola col cocchiere, voltandosi indietro, ogni tanto, pur darmi delle spiegazioni. Io non lo comprendevo punto, il suo francese: esso era perfino peggiore di quello di Ahmed, in Alessandria. Ogni tanto, una parola ritornava: Il piramillo. Più tardi molto più tardi, compresi che parlava delle Piramidi. Pure, con Hassan, ci dicemmo tutto e c’intendemmo perfettamente. Chi sa come! È certo che, in cinque o sei giorni, Hassan può vantarsi di aver compiuto un corso di dialetto napoletano: e io un corso di gergo dragomannico, così complesso e complicato che, ormai, io comprenderò qualunque dragomanno mi accompagni nella vita. Che uomo, Hassan! Grave, aristocratico, col semplice tocco della sua mazzetta di ebano, egli scartava, dal mio passaggio, uomini ed animali: con due parole, contentava un cocchiere impertinente, con una parola un venditore di curiosità arabe che litigava sul prezzo di un cuscino di velluto, o di una cintura ricamata di oro. Io lo ammiravo, specialmente quando entravamo nelle moschee, insieme. Con una intonazione profonda, egli augurava l’eleik salam ai custodi dei tempio, ai mendichi della porta, che gli rispondevano Salam eleik gravemente; egli voleva che io abbondassi in piccole piastre da cinque soldi, con costoro, perchè, diceva, eran gente venale; egli mi sceglieva i calzari migliori sulle scarpe ed entrava austeramente in moschea, salutando il grande Maometto. Se io chiedevo delle spiegazioni, me ne dava; se no, taceva. Era correttissimo e serio: ma, ogni tanto, un lume di allegrezza gli apriva la fisonomia. Aveva tre figli, il vecchio turco: e me ne spiegò la beltà, il valore, il talento. Se faceva il dragomanno, a quella età, era per essi. Essi non dovevano esser dragomanni dovevano metter bottega, nel bazar turco, e arricchire, se Maometto voleva ciò.
— E che ne pensa Maometto? — gli domandavo, molto seriamente.
— Maometto, buono — e abbassava il capo, con un moto di soddisfazione.
Anche io gli raccontai dei miei quattro figlietti — ero così lontana da loro, e non sapevo con chi parlarne, e un dragomanno non è anche un amico? — e Hassan mi ascoltava, in silenzio, composto, sorridendomi ogni tanto. Ma non era mica un vecchio padre rammollito, lui; era ancora robusto! Rammento ancora la mattinata famosa, in cui andammo insieme a questo piramillo, cioè alle Piramidi di Ghizeh. Tutta la via, egli non fece se non mettermi in guardia contro la voracità dei beduini, custodi delle piramidi, trattandoli da ladri, da malfattori, da cani: e quando fummo sulla soglia del deserto, sotto le Piramidi, quando i bellissimi, leggiadri, poetici briganti, banditi e malfattori beduini, ci ebbero circuito e assalito, e io, ammirandoli troppo, ridendo dei loro atroci furti, mi lasciai ampiamente rubare, bisognò vedere la collera di Hassan, e le male parole turche che scagliò contro i maliziosi ed estetici rapinatori, e come voleva batterli, infine, lui, vecchio, solo, tutti quegli agili e forti scalatori di piramidi! Egli finì col riderne con me, nel ritorno, ma ancora lontano, mostrava il pugno al gruppo dei beduini, e alla grande sfinge che si levava dalla sabbia gialla. Egli diceva: Le sfunx. Credeva di parlare francese come a Parigi, Hassan! L’ultimo giorno, alla stazione, egli cavò dalla tasca un gingillo egiziano e mi disse, o credette dirmi, ma volle certamente dirmi:
— Portalo a quel tuo figlio, che ami di più.
Ah, scellerato, furbo e buon vecchio turco, come egli aveva compreso, anche quello che io non gli aveva detto!
Ma chi potrà mai obliarti, o mio dragomanno di Soria, compagno e amico fedele, povero Issa? Quaranta giorni, passati insieme, contano: ma non conterebbero forse, se tu, ottimo e sconosciuto Issa Cobrously, perla dei dragomanni, tu non avessi in te riunite le qualità più simpatiche, per legarti alla memoria di un viaggiatore! Anzitutto, bisogna intendere, per ispiegarsi la mia entusiastica tenerezza per Issa, che il dragomanno può essere una persona trascurabile, in Egitto, ma, in Palestina, un elemento di prima necessità. Non vi è viaggiatore di intelligenza, di coraggio, pieno di quattrini, che possa fare a meno, in Terra Santa, del dragomanno: e se, dentro Gerusalemme, egli non è se non un cicerone, appena si esce dalle porte di Solima, per brevi viaggi come a Betlemme, a San Giovanni nelle montagne, o per più lunghi, al Giordano, o per lunghi assai, in Galilea, il dragomanno assume la sua alta importanza. Anzi, prima della compagnia Cook, il dragomanno era un signore ed era una potenza: egli aveva cavalcature, palanchini, tende, letti, attrezzi da cucina e servizi da tavola, in modo che si contrattava con lui un cottimo di tanti giorni, per tante persone ed egli vi conduceva, vi forniva di tutto, vi dava il pranzo, il tetto, la scorta… tutto infine.
Quello che l’immortale e onnipotente Thomas Cook ha assunto, su vasta scala, a prezzo maggiore, con più lusso, ma con più rigidità, i dragomanni lo facevano, ognuno, per tanti viaggiatori, per meno, con più semplicità, con più familiarità. Era meglio, prima! Ora, la loro impresa è quasi rovinata, perchè tutti gli inglesi, i touristes viaggiano con Cook e questi patti coi dragomanni non esistono più; i dragomanni sono ridiventati delle guide e dei ciceroni. Ancora, qua o là, resistono: ma Cook vince! E il buon Issa, nel suo bel tempo, ne aveva guadagnato dei napoleoni e delle sterline! Quest’uomo non aveva cinquantacinque anni e ne aveva quaranta di viaggi, come dragomanno: egli era stato otto volte in tutta l’Asia, due volte in Africa con Gordon pascià, ventisette volte a Damasco, venti volte a Bagdad, e aveva girato tutta l’Arabia, da quella Petrea alla Moabitica, dalla Samaria alla Galilea, da Ascalona a Beyrouth, da Rosetta all’antica Fenicia, non so quante volte. Sembrava assai più vecchio; era piccolo, magro, asciutto: a furia di cavalcare, le gambe si erano incurvate, sul viso bruno, scarno, rugoso, aveva dei mustacchi pepe e sale: e un vivo lume d’intelligenza negli occhi. Del resto, Issa Cobrously era cristiano di Gerusalemme, e parlava perfettamente l’italiano, il francese, l’inglese; i viaggi lunghi, in tanti paesi diversi, con persone di varie nazioni, e quasi tutte intelligenti e colte, avevano sviluppato il suo ingegno gli avevano dato un fondo di osservazioni di fatti, di aneddoti piacevolissimi, negli eterni tratti di strada da fare insieme a cavallo, o in palanchino. Povero buon Issa! Sul principio, un po’ intimidita dalla sua competenza seguii tutti suoi consigli, ciecamente; ed erano i migliori, i più pratici, per viaggiar bene, non affaticarsi e non ispendere molto: ma, a poco a poco, cominciai a fare la prepotente ed egli si acconciò a tutti i capricci di una viaggiatrice alquanto bizzarra, che aveva sempre voglia di scrivere, quando si doveva mangiare, voleva sempre dormire quando si doveva partire, e voleva sempre andar via, quando le bestie e gli uomini riposavano. Ogni tanto, lo chiamavo e, fingendo di chiedergli un parere, gli comunicavo una di queste stravaganze: egli mi guardava, interdetto; io insistevo; e, dopo un minuto, egli diceva.
— Va bene, non ci pensate; io rangio questo
Quando egli aveva detto di rangiare una cosa, cascava il mondo la rangiava. Mi rammento la sua devozione, il suo coraggio, la sua bontà mi furono palesi nel viaggio di Gerico. Eravamo cinque: io, il beduino di scorta, il mulattiere, il garzone del mulattiere. Lungo, faticoso, noioso e pericoloso viaggio, di cui se mi furono alleggeriti la lunghezza, la noia e la fatica, e non mi accorsi dei pericoli, lo debbo ad Issa, al mio buon Gesù, perché Issa questo vuol dire, in arabo. A cavallo, durante la prima tappa di sei ore, egli rasentò sempre il mio palanchino, avendo scelto le ore più fresche e meno perigliose per quel tragitto; a Gerico, arrivati alle sette di sera, in quella misteriosa e paurosa casa, che due curiose e strane donne russe affittano, egli mi collocò nella stanza, mi accese il lume, e, senza riposarsi un momento, andò a cucinare, per me, nella cucina dei due fantasmi muliebri russi. Cucinò benissimo, il brodo col riso, dell’arrosto, del pollo con burro: e aveva portato delle frutta secche e dei biscotti inglesi; e mi fece il the, subito dopo pranzo, dopo avermi servito a tavola.
— Tu non mangi?
— Io non ho mai fame, in questo terribile paese — mi disse.
Difatti Gerico, a quattrocento metri sotto il livello del mare, ha una depressione atmosferica soffocante. Io aveva delle vertigini, ogni tanto, Poi, in quella casa tutta di legno, dove non sapevo chi abitasse e dove udivo i più strani scricchiolii, in quella stanza a terreno, di cui tutte le porte mi davano sospetto, con quella soffocazione, fui presa, per la prima ed unica volta, da una paura atroce, la paura romantica e triviale insieme, la paura dei Misteri di Udolfo di Anna Radcliffe, con l’idea volgare di essere assassinata, così, a Gerico, da non so chi. Mi alzai, uscii nel giardino, e vidi la stanza da pranzo e la cucina, ancora illuminate: Issa lavava gli utensili e faceva il caffè per l’indomani. Gli dissi che avevo paura ed egli, senza tentare di rassicurarmi con le parole, appena ebbe finito, invece di buttarsi sovra il divano della stanza da pranzo, si venne a gittare, in terra, dietro la mia porta chiusa, come un cane, come un cane fedele! In tutti quei tre giorni, egli mi servì così prevenendo tutti i miei desideri, Lasciandomi ai miei lunghi silenzi, raccontandomi le istorie più attraenti, quando lo chiamavo. Ma il colmo della sua devozione, fu nella notte del nostro ritorno a Gerusalemme. Eravamo tornati, a mezzodì del terzo giorno, dal Mar Morto e dal Giordano, a Gerico, avevamo pranzato alle due pomeridiane e dovevamo restare a Gerico sino alle quattro dopo mezzanotte, per fare riposare le bestie e gli uomini. D’altronde, non si poteva partire se non a quell’ora, dato che la luna sorgeva a mezzanotte e che il primo pezzo, oltre Gerico, è il più frequentato dai ladri. Tutti cinque eravamo armati, anche il ragazzo del mulattiere, anch’io: armato sino ai denti, il beduino di scorta. Ma se capitavano venti ladri? Non si poteva partire se non alle quattro di notte, per arrivare alle undici in Gerusalemme, dopo sette ore di strada. Fu appunto che, alle cinque pomeridiane, dopo che ebbi dormito, letto, fumato, seccandomi perfettamente a Gerico, avendo troppo caldo, avendo le vertigini, che chiamai Issa e gli dichiarai che volevo andarmene.
Ah, sulle prime fu stupefatto, e disse di no, di no! Io volevo andarmene: mi ostinai. Egli mi dichiarò che le bestie non erano in condizioni di riprendere la via, che gli arabi dormivano, e io dissi, che dando ancora da mangiare ai cavalli e ai muli, e dando dei danari agli arabi, si potevano vincere queste difficoltà. Egli mi soggiunse che, partendo alle sei, ci si vedeva, è vero, ma che alle nove, è notte perfetta e che ci saremmo trovati, allora, nel punto più pericoloso della via!
— Per nulla — gli dissi io, che, in quel giorno, ero dotata di un valore e di una indifferenza, a tutta prova. — E tu, hai paura?
— No — disse subito — ma debbo badare a voi, signora. Pensate alla mia responsabilità.
— Non importa, dirai che son voluta partire io. Se resto a Gerico, un’altra notte, mi vien male. Spero che non mi vorrai lasciar morta, qui.
Difatti, soffrivo. Se ne accorse. Sulle sue gambe arcuate, un po’ curvo, il buon Issa se ne andò a persuadere il beduino, i mulattieri e anche i cavalli, io credo. Ma ci volle molto tempo: e le offerte più brillanti. Il beduino e i mulattieri protestavano, sulla mal sicurezza della via; sulla stanchezza loro; e, infine, si venne a questa transazione: saremmo partiti alle sei e mezzo: dopo tre ore e mezzo di cammino, a metà strada al khan, ci saremmo fermati un paio di ore, aspettando che la luna si levasse, per proseguire sino a Gerusalemme. Bisognò accettare. Altrimenti, quelli non si muovevano. Pur di andarmene, avrei fatto qualunque sacrifizio. Partimmo. Sino alle otto, ci si vedeva ancora: ma a un tratto, cominciammo ad andare nell’ombra, come tanti fantasmi; Issa non solo rasentava il palanchino, ma teneva una mano sul finestrino, mentre io contemplava il paesaggio d’ombra, silenziosamente, tutta al rapimento di quel fantastico viaggio. Mi domandava:
— Signora, volete qualche cosa?
— No, Issa.
— Siete stanca?
— No, sto benissimo.
Proseguivamo, nel nero, non vedendo più nulla, udendo solo la nenia del garzone del mulattiere. Ogni tanto, un’ombra più nera parea sorgesse innanzi a me: era il beduino, a cavallo, che tornava indietro, per non allontanarsi dalla carovana: e sempre quell’andare molle e ondeggiante, nella notte, nel silenzio, nel fresco. A un tratto, una fermata brusca: eravamo giunti al kan, cioè a quella tale tettoia da cavalli e da mulattieri. Gli uomini dal kan uscirono di là e si misero a parlottare vivamente con Issa, in arabo, mentre deponevano in terra il palanchino. Gli animali e i mulattieri entrarono nel khan: noi due, Issa ed io, restammo fuori, poichè non vi era ricovero per noi. Invero, io rimasi seduta nel palanchino, che era a terra: ed egli si sedette sulla bisaccia dei tappeti o, dal finestrino, mi parlava.
— Che dicevano quegli uomini, Issa?
— Niente.
— Dimmelo.
— Lasciate stare, sono sciocchezze.
— Voglio saperlo.
— Ebbene, dicevano che siamo stati pazzi, voi ed io, a fare questo viaggio, così: ieri notte, vi è stato un assalto, nella stessa ora.
— E tu, che ha risposto?
— Che ho obbedito a voi: e che voi non avete paura.
— E se veramente ci accadeva qualche cosa, Issa? — gli dissi.
— Prima di tutto, mi dovevano mazzare; ora, io mi faccio mazzare difficilmente.
— Pure... sei venuto.
— Avete comandato: ho ubbidito.
Poi, parlammo d’altro, innanzi a quel khan, dove tutti si erano addormentati, oramai, con la facilità orientale. Egli mi parlava male di Maometto: era il suo odio, Maometto. Non già che Issa fosse un bigotto, un cristiano furibondo, ma sosteneva che Maometto era imbroglione, che era tignoso, che era un ladro e un vizioso, e che tutti i turchi sono come lui. Sovra tutto, quello che gli pareva mirabile in Gesù, oltre la virtù, era di essere figliuolo di Maria, di una vergine, di una creatura angelica, divina: mentre che la madre di Maometto, secondo Issa, era una poco di buono, come suo figlio, del resto. Nella notte, pian piano, egli si arrabbiava contro il mulattiere di Medina, che si era permesso di fondare una religione, con quel po’ po’ di tigna che si ritrovava ed essendo figlio di nessuno
— Ma tu gliele dici ai turchi queste cose, Issa?
— Certo, io dico: quanto siete asini, voi e quel vostro Maometto, ladro e capo di ladri!
— Ed essi, che dicono?
— Ridono, qualche volta: o mi vogliono battere...
— E poi?
— Ci battiamo un poco.
— Per Maometto?
— Brutto intrigante!
Ma quante istorie, nelle lunghe tappe, dei paesi visti e che io, certo, non vedrò mai, quanti profili di viaggiatori, quanti racconti di casi strani, ho io udito, ingannando la noia della strada! Egli taceva, per darmi da bere, per accendermi un fiammifero, per stringere la sella al cavallo; si allontanava, per sorvegliare la via; partiva, per far preparare tutto, all’albergo; tornava, quando tutto era pronto; non aveva mai sonno, mai fame, mai stanchezza. in Gerusalemme, in Betlemme, era prezioso, dappertutto, nelle chiese, nelle botteghe; dovunque la voracità turca ed ebrea si alternavano. Era pio, Issa, giustamente; mi lasciava pregare in pace, tornava, vedeva che pregavo ancora, se ne andava senza disturbarmi. Aveva una moglie e due figliuoli: una figlietta gli era morta, e formava ancora il suo cruccio, dopo tre anni dalla disgrazia. Amava molto sua moglie: ma quanto amava la sua professione di dragomanno, come avrebbe voluto ripartire sempre, ogni giorno, per lunghi viaggi, sino a che le sue gambe diventassero un cerchio e le sue spalle un punto interrogativo! Quanti viaggi mi propose, descrivendomene le bellezze, le avventure, massime il viaggio in Asia Minore, oltre Damasco, sino a Bagdad, la città delle Mille e una notte, la città dei Califfi! Io incantata, dicevo di sì, ed egli ci credeva, il buon Issa, senza sapere che sia d’inamovibile un italiano del mezzogiorno e più un’italiana, senza sapere che quel povero piccolo viaggio in Palestina rappresentava uno sforzo sublime per me! Era un fanatico del movimento, Issa Cobrously, e del mangiare all’aria aperta e del dormire sotto la tenda, e dell’andare, andare lontano, sempre in cerca di nuovi orizzonti: egli aveva, nell’anima semplice, la poesia degli esploratori, dei ricercatori di regioni sconosciute. La sua adorazione per Gordon pascià, il mistico generale inglese, non aveva confine: come tutti quelli che avevano molto amato il grande Gordon, egli non poteva credere che fosse morto, egli sperava di rivederlo, un giorno: tutta la storia di quella morte era, forse, una falsità! Povero buon Issa, non so quando, all’albergo di Gerusalemme gli dissero che io scrivevo, che avevo fatto dei libri: e ciò mi spiacque, in fondo, giacchè mi cominciò a domandare di tutto questo, e mi parlò di un’altra scrittrice inglese che egli aveva accompagnata, in viaggio; e la poesia del mio incognito svanì. Io tentai di convincerlo che scrivevo, così, per capriccio: che i libri si stampavano alla mia insaputa: che non ci guadagnavo una lira; e che nessuno li leggeva.
Egli mi guardava e sorrideva. Poi, mi pregò di scrivere anche qualche cosa contro Cook, il suo grande nemico, il carnefice di tutti i dragomanni di Palestina, colui che ha loro rubato il mestiere e il pane, colui che da trenta o quaranta franchi al giorno, li ha ridotti a prendere da dieci a quindici lire, oltre il cibo: mentre i viaggiatori pagano molto più a Cook, e Cook ha venti milioni! Egli lo detestava quanto Maometto, sir Thomas Cook, e s’indignava contro la regina d’Inghilterra che lo aveva fatto baronetto, un birbone di quella forza. Glielo promisi, e scriverò contro Cook, malgrado che ciò sia ingiusto, perché Issa era troppo un buon dragomanno: scriverò un giorno e gli manderò il giornale a Gerusalemme. Così fedele sino al minuto della partenza! Mi veniva dietro, piano piano, dopo aver chiuso le valige, dopo avermi ricordato tutto, contato il danaro, fatto i telegrammi, impostato le lettere, dato le mance a tutti: e mi ricordava di ritornare, di andare con lui a Bagdad, di mandargli mio marito, i miei amici, di dar loro il suo indirizzo, giacchè egli voleva fare il dragomanno, sempre, viaggiare sino alla più tarda vecchiaia, innamorato dell’aria libera, del sole, delle notti stellate, delle tortore azzurre di Soria, e persino degli sciacalli, desideroso di lavorare per sé e per la sua famiglia. E non venale, perchè non voleva la mancia che gli diedi, non lauta, ma offerta affettuosamente, a chi aveva salvaguardato la mia vita, la mia salute, aveva vegliato sul mio benessere, sul mio buon umore, mi aveva fatto da servitore, da guida, da soldato e da narratore. Prese il danaro, poi ma era commosso. Ed anche io! Pensavo che a Gerusalemme non si va che una sola volta, nella vita; che giammai più avrei visto nè il Sepolcro, nè Nazareth: che non sarei mai e poi mai andata a Bagdad, dove regnò Haroun-al-Rascid; e che il buon cane fedele non l’avrei mai più riveduto. Issa Cobrously! Egli no, non pensava questo: abituato alle grandi locomozioni degli stranieri, credeva fermamente che io sarei andata a comperare, con lui, delle turchesi a Damasco e delle perle a Golconda; e mi disse: A rivederci. Nel mio cuore, io gli dissi: Addio. E nel fissare qui il suo ricordo, faccio il poco che può fare un cronista di fatti umani e di uomini: Rammento una figura di bontà e di fedeltà, una figura non scevra di poesia, un cuore semplice e valoroso, le sole cose degne di essere onorate negli scritti di un cronista.