Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Nel paese di Gesù
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L’ULTIMO GIORNO

IV. Il commiato

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IV.

 

Il commiato

 

 

La sera innanzi avevo salutato affettuosamente e ringraziato il simpatico e intelligente console italiano, a Gerusalemme, cavalier Mina e la sua cortese signora, che mi avean prodigate tutte le amabilità più cordiali, durante il mio soggiorno in Palestina. Me ne andavo via, l’indomani: alle undici della mattina, dovevo scendere per ferrovia a Jaffa e ivi imbarcarmi per Costantinopoli: il viaggio di Terra Santa era finito, dovevo andare. Ma perchè non volevo che venissero a darmi l’ultima stretta di mano e il buon viaggio, alla stazione, l’indomani? Così, per questo, non dovean venire, non volevo separarmi da nessuno, nella fretta brutale e pur monotona di una partenza per ferrovia: gli addii sono così distratti, e pur tristi, e turbati dalle cento cure volgari di chi è afferrato da un treno, lui e le sue valige. Dopo, nella medesima serata, andai a salutare, nel loro bell’ospizio di Casa-Nova, i miei buoni francescani, i miei cari fratelli in San Francesco, che mi erano stati di tanto grande e costante soccorso morale, in quel viaggio che avevo compiuto, solissima e donna, lontanissima dalla patria e dalla famiglia. I francescani sono sempre sereni, sempre lieti, in ogni congiuntura della vita e, vedendo che ero pallida e taciturna, dividendomi da quel diletto ambiente di fede, di pietà e di tenerezza, mi dissero tante cose incoraggianti, mi colmarono di tanti doni religiosi, scapolari, piccole reliquie, rosarii, medaglie, mi diedero convegno in Italia, per quelli che vi sarebbero ritornati, sempre allegramente. Qualcuno, più vecchio, crollò il capo, benedicendomi per la vita e per la morte: egli sentiva che mai più, alla sua età, avrebbe lasciato la Palestina: e sentiva che io non vi sarei ritornata mai più. Sorridevano gli altri e mi parlavano di cose ridenti, vedendo che non arrivavano a vincere le mia grande tristezza, mi davano consigli per l’altro viaggio — l’altro viaggio? — che io, necessariamente, avrei dovuto fare, per veder meglio, più a lungo, il paese di Gesù e mi rimproveravano ancora, teneramente, teneramente, di non esser andata ad abitare da loro, nel loro ospizio, bensì all’albergo inglese, pieno d’inglesi, noiosamente inglese in ogni minuto della sua vita, ed esigevano, sì, esigevano che io li avessi avvertiti, prima, del mio secondo arrivo, e che fossi andata a alloggiare da loro, fra gli altri pellegrini, solo da loro. Vagamente, tristemente, promisi loro, sì, tutto quello che mi chiedevano: io ebbi l’aria di esser perfettamente sincera e decisa, nella mia promessa ampia; essi ebbero l’aria di credermi, perfettamente. Solo il più vecchio, dopo che tutti avean finito di parlare, e il patto del ritorno parea stretto, senza che nulla potesse infrangerlo, mi disse, sommessamente:

— Se io son vivo, mandatemi il vostro libro, quando l’avrete scritto.

Io tacqui, annuendo. E voltai la testa in , perchè egli non vedesse il mio turbamento. Nella sera di estate, preceduta da un cavass che portava una lanterna, perchè le vie di Gerusalemme sono tutte buie, completamente, io me ne tornai al New Grand Hôtel, sola: e trovai, come al mio arrivo, come nella mia permanenza degli inglesi che vi prendevano il the, con crostini al burro.

 

Vuole il pio costume, che la prima e l’ultima cosa da venerare, giungendo e partendo da Gerusalemme, sia il Santo Sepolcro. Un po’ nervosa, l’indomani mattina, un po’ trepidante, mi recai per l’ultima volta alla chiesa che contiene la tomba più augusta e più cara del mondo. La giornata era bella, chiarissima, con grande movimento nelle vie di Gerusalemme, con un senso di lietezza che si diffondeva dalla luce bionda del sole, per le case turche, ebree, cristiane, per i brevi giardini e per le ruine. Sull’arco ogivale delle due enormi finestre, sulla facciata della Chiesa, ancora, come sei settimane prima, garrivano gli innocenti uccelletti, che vi hanno nidificato e che niuno disturba. Nel tempio, il solito andirivieni di sacerdoti d’ogni setta cristiana, di monaci della chiesa latina, di credenti, di curiosi, di mendicanti. E, subitamente, divenni distratta e fredda. Invano, cercai di assorbire interamente tutta la mia coscienza, in quella ultima orazione, con la fronte appoggiata sul marmo del Santo Sepolcro; invano tentai di slanciare il mio cuore, in un estremo impeto di entusiasmo religioso. Nulla! Pensavo ad altre cose minute, meschine, volgari, del mio viaggio; pensavo ai miei bauli, ai miei telegrammi, alle mance che dovevo dare; pensavo a Costantinopoli, all’albergo dove sarei scesa, colà, a lettere di casa mia che, certo, mi aspettavano, ma, tutto questo, con uno spirito gretto, senza interesse, senza emozione, insensibile, gelida. Restai qualche tempo, così, aspettando un po’ di interesse triste, un po’ di commozione, l’ombra di un rimpianto, la grazia, la grazia! Nulla. Altre volte, tale intorpidimento dello spirito e del cuore mi aveva colpito e conoscevo quest’orribile fenomeno dell’aridità o dell’indifferenza; spesso, l’anima si gela, s’irrigidisce così, s’inebetisce così, dopo i lunghi periodi di vivacità, di calore, di sensibilità, di commozione. Avevo molto vibrato, nella fantasia e nell’anima, in quel paese di Gesù: avevo consumato forze grandissime spirituali: avevo avuto fremiti supremi di fede, di tenerezza, di misticismo e, forse, tutto era compiuto in me, come impressione, come sentimento, forse io non potevo avere più nessun impulso di affetto religioso, nessun impeto di tristezza. Ebbi un istante di ribellione, contro la mia apatia, contro il mio stupido letargo: poi mi rassegnai. Mi alzai e lasciai la tomba di Gesù: lasciai la chiesa del Santo Sepolcro, come se uscissi da un ufficio telegrafico di un qualunque paese, donde avessi spedito un telegramma di nessun interesse. Rifeci la strada verso l’albergo col passo calmo di un touriste che se ne va via, soddisfatto di essere a tempo per chiudere sacchi, sacchetti e bauli, pagare il suo conto, dare la mancia ai servi, e lasciare al portiere dell’albergo il suo nuovo indirizzo, per far proseguire. Difatti, queste comuni operazioni di tourisme occuparono la mia mente e le mie mani, nelle stanze del mio albergo, mentre il mio dragomanno e il cameriere mi aiutavano a finire tutto, precisamente. Nessun intoppo. Tutto andava perfettamente. Non avevo dimenticato nulla, tutto era pronto, io era pronta, ognuno era pronto, i facchini per i bagagli, il buon Issa per salire in serpa, sulla vettura che mi aspettava, pronta anche essa, poco lontano, fuori il grande arco di pietra di Bal-el-Khalil: pronti, tutti. E, a un tratto, io ebbi una scossa, uno di quegli avvertimenti bizzarri, interiori, indistinti, imprecisi, ma profondi: avevo dimenticato qualche cosa. Mentalmente, feci una ispezione nella mia stanza, in tutti i mobili, in tutti i cassetti: numerai i grandi e piccoli bagagli: frugai nelle mie tasche, nella borsetta da viaggio: tutto era in regola. Ma la impressione persisteva: si faceva più forte. Io avevo dimenticato qualche cosa.

Cercai nella mia memoria, e avessi fatto tutto, vistato il passaporto, telegrafato a Napoli, telegrafato a Costantinopoli, impostate le lettere, avvertito l’ufficio del Lloyd a Jaffa, per il posto sul battello. Tutto, tutto era stato fatto con una rara precisione. Ma più vivida, in me, sorse la voce che mi suggeriva: hai dimenticato, hai dimenticato, ricordati, ricordati! Lentamente, tormentata, discesi per le scale dell’albergo, fra i saluti usuali di padroni, di segretari, di servi, di portinai ancora sulla soglia, prima di avviarmi verso la carrozza che doveva condurmi alla stazione, prima di dare le spalle a Gerusalemme, mi fermai pensando. Che cosa, dunque, avevo dimenticato? Avevo io salutato tutti? Tutti? E la verità mi balenò nell’anima, abbagliante. Io avevo dimenticato di salutare Nostro Signore.

 

Ah che quando, ritornata, di nuovo, frettolosamente, convulsamente, sola, alla chiesa del Santo Sepolcro, alla tomba di Gesù Cristo, pochissimi minuti prima della partenza, spinta da un bisogno irresistibile di addio, io mi prostrai e stesi le braccia, su quel marmo, io fui presa da una disperazione lacerante, straziante. Mai più, mai più io sarei ritornata, nel breve corso dei miei giorni, a Gerusalemme; mai più mi sarei accostata a Gesù, nella sua vita, nella sua passione, nella sua morte, così, come allora; mai più avrei toccato, col mio viso ardente, con le mie labbra ardenti, quella fredda pietra che ha coperto la sua salma; mai più avrei bagnato delle mie lacrime il suo sepolcro. Mai più, mai più la vita mia, legata a tanti doveri e a tanti affetti, mi avrebbe ricondotta laggiù, in piissimo pellegrinaggio. Non si va in Gerusalemme, se non una sola volta. Mai più avrei valicato, nel ritorno, le sue porte fatali e mai più il mio cuore si sarebbe franto, così. Era finito. Finito. Provavo l’immenso, invincibile dolore della fine. Come sul cadavere di mia madre, su cui mi ero gittata, sola, nella più terribile e deserta sera della mia esistenza, io singhiozzavo, inconsolabilmente, sul sepolcro di Gesù. Non vedevo, non sapevo più nulla: tranne che tutto era finito, che, da quel giorno, da quell’ora, io mi separavo per sempre da Sionne. Dovevo andare: tutto era finito. Tre volte, piangendo, tornai indietro, nella sacra stanzetta e ne baciai, come il figlio bacia il cadavere di sua madre, sì, di sua madre, non solo la tomba, ma le pareti, ma la soglia: tre volte mi prostrai, piangendo, dovunque Egli era passato, dal Golgotha alla tomba. Chi mi guardava, sorpreso? Chi si commoveva, al mio dolore, in quell’ora di separazione? Non so. Non vidi. Non vedevo nulla. Forse, nessuno mi guardò e mi udì. Forse chi mi guardò o mi udì, conosceva questo scoppio di angoscia, in quel minuto supremo di divisione. Forse, altri hanno pianto con me. Non so. Non vidi. Non ricordo. Abbracciai le colonne e baciai i gradini di ogni altare, come se mi separassi da qualche cosa umana, per sempre, Mi voltai, dalla soglia, e salutai, piangendo, come si saluta il cadavere che sparisce, e pensai che io, sì, sarei morta e la gran chiesa resterebbe sempre viva, che la grande tomba, viva, vigilerebbe sull’anima e sui cuori dei cristiani, che io sarei morta, senza mai più rivedere Gerusalemme, il sepolcro del Signore. Chi seppe la via che percorsi, a piedi, chiusa nel dolore, lacrimando, a capo basso? Chi si ricorda per dove passai, che cosa feci, quali furono i miei atti, uscendo dalle porte di Sionne, facendomi trascinare alla stazione? Andavo, mi conducevano, muta in un velo di dolore e di lacrime solitarie, da nessuno asciugate, che nessuno, che niente avrebbe potuto asciugare! La vettura conduceva un dolore, profondato nell’anima ed effuso nei soffocati singulti, nelle lacrime che incessantemente scorrevano sul volto bruciante, che nulla poteva reprimere, inaridire. Conduceva un dolore, ecco tutto.

 

 

Un dolore profondo, sgorgante dall’anima spasimante, vide il vagone della piccola ferrovia che doveva strapparmi, velocemente, per sempre, da Gerusalemme. Guardavo, guardavo, dal finestrino, con occhi fissi e desolati, Sionne, alta sui suoi colli, come si guarda il viso di chi non si vedrà mai più: e bene avevo pensato, pregando che niuno mi avesse accompagnato alla stazione, in quella mattina.. Io non avrei potuto separarmi liberamente, nella libertà del mio dolore, dalla città dell’anima. Attorno a me, degli inglesi, vedendomi, dallo sportello, guardare così intensamente e piangere, dissero, fra loro, che io dovevo essere malata o pazza: mi rammentai, più tardi, il suono di quelle parole, non le compresi, allora, subito. Guardavo. Impregnavo la mia vista e il mio cuore dell’ultima visione di Gerusalemme: cercavo di portarne meco ogni linea, ogni colore, ogni particolare, per poterla evocare, sempre, nella lontananza, nell’esilio. Guardavo. Nulla sapevo di nulla. Il grande fracasso della stazione mi giungeva indistinto. le facce, intorno, mi parevano di fantasmi: mentre il sole scintillava e l’aria era brillante e l’ambiente era incantevole. Tutto io volevo trasportare, nei miei sensi, nella mia immaginazione, nell’anima mia, di quegli aspetti e di quell’ora. Il fischio stridente attraversò l’aria e il treno si mosse. Tutto era finito: Gerusalemme spariva, innanzi ai miei occhi avidi, desolati, che sempre cercavano vederla, mentre il treno affrettava i suoi giri di ruota. Tutto era finito. Potevo vivere, patire, gioire morire, niente di tutto quello, io avrei riveduto e provato. Così, nello spasimo lacerante, quando il cuore si rompe in due, separandosi, mentre la torre di Davide si dileguava nella distanza, io feci un giuramento e feci un voto. Giurai, che, per Gesù, per la sua fede e per il suo paese, benedetto e consacrato dalla sua vita, o dalla sua morte, avrei scritto un libro, non il più artistico dei miei libri, ma il più umano: non il più bello, ma il più sincero: giurai che lo avrei scritto con umiltà e con speranza, da cristiana, per umili e speranzosi cristiani.

E ho tenuto il giuramento e sciolgo, oggi, il voto. Io depongo questo libro ai piedi della Croce, ad Essa tendendo le braccia, per me, per i miei figli, mormorando per me, per essi, le parole degli antichi cristiani: Ave, spes unica.


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