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(Monologo con «Pertichino»).
Verso il soffitto, nella stanza chiusa e calda, si dileguavano gli ultimi, profumati vapori del moka e cedevano il posto alle nuvolette azzurrognole e leggiere di due sigari avana. Era giunto quell'indefinibile momento di riposo e di calma beata che segue un buon pranzo, fatto in buona compagnia: quel dolce momento in cui si prova il benefico bisogno dl sbottonare un occhiello del panciotto e magari tutti quelli dell'anima; poi, coi gomiti appoggiati famigliarmente sulla tavola, l'occhio fisso nel trasparente giallore del cognac, cominciare una di quelle conversazioni lente, scucite, cascanti da tutte le parti, e che finiscono per rialzarsi vivaci, gaie, briose.
— Dunque? — chiese Giovanni al suo ospite.
— Dunque.... — ripetette costui e si distrasse da capo.
— Ti sei divertito nel tuo viaggio?
— Molto — e sorrise vagamente.
— Sai che non sembra? Da qualche tempo, alle altre piaghe sociali, come sarebbero le mogli nervose, le amanti fedeli, gli avvocati politici e i poetini elzeviriani, noi dobbiamo aggiungere quella lagrimosissima dei reduci dai viaggi circolari. Una foga irresistibile, una smania di narrare, di descrivere di illustrare; piovono i bozzetti, gli schizzi, i ricordi, le impressioni e il diluvio è più crudele di quello universale. Ma tu, caro Enrico, sei nato a rovescio, ritorni da un viaggio di cinque mesi: va benissimo. Tu compi la più nobile e la più dignitosa azione che possa fare un amico, cioè m'inviti a pranzo; io predispongo alla compiacenza il mio stomaco e le mie orecchie. Il sacro rito del pranzo è terminato: invece eccoti lì, ingrullito, muto, distratto, con lo spirito chi sa dove. Una volta per sempre, ti sei divertito nel tuo viaggio?
— Molto, ripetette Enrico, sorridendo di quella filippica. Ho viaggiato un po' a sbalzi, descrivendo curve fantastiche, tornando indietro, spezzando una linea dieci volte, voltando a destra quando dovevo andare a sinistra, rimanendo due ore in una grande città e cinque giorni in un villaggio. A Roma, vedi, ci sono rimasto tre soli giorni...
— Bah!
— Come ti narro. Roma è stonata come un violino di cantastorie: i monumenti antichi, roba rispettabile, non vanno di accordo con le case nuove, roba utile. La vita romana antica è morta, sepolta e per isforzo d'immaginazione non la fai risuscitare: la vita nuova comincia appena, è in embrione, un fermento infantile di città moderna, un balbettìo di civiltà. Ti par di essere in un albergo, in un caravenserraglio, in un luogo di passaggio, di transizione, dove non si possa abitare lungamente, dove nulla è tuo, nulla ti si confà, nulla ti piace. Roma è stata una gran bella città, sarà una grande capitale, ma per ora sta in crescenza: è un'eredità che godranno i nostri cari nipotini. In fondo, ne vieni fuori con un mal di nervi acutissimo. Bologna non te lo fa passare di sicuro. È grave, bianca e nera: un silenzio riflessivo, una quiete scientifica, un'università allargata sino alle sue porte, un ambiente di estetica, di filosofia e di critica che ti atrofizza; molte larghe piazze solitarie, molti portici destinati ai filosofi peripatetici che non possiedono ombrello: ogni buon borghese che passa ti sembra un erudito immerso in meditazioni profonde. Vuoi credere che in un'ora sono passate sul Pavaglione solo tre donne?
— Quindi a Firenze, l'Atene moderna...
— Sì, a Firenze. Arte, fiori, donne, sorrisi, ciel sereno, profumi, colori smaglianti: una festa continua. Ti pare di essere tornato alle gaie giornate dei trecento, alle maggiolate, alle canzonette di amore, quell'amore tanto terreno e tanto divino: nei vesperi rosei cantati dal Carducci, quando sull'orizzonte si profila l'ardito pensiero di Michelangelo, quando l'olezzo delle rose ti monta alla testa, quando voci di fanciulle ridono e cantano in lontananza; ti senti ridiventare greco, latino, medioevale, cavaliero di torneo, condottiero di ventura, novellatore di amore, ghibellino, petrarchesco e sogni Monna Lisa, la Fiammetta, lo splendido risorgimento! Ma se ti guardi bene, ti ritrovi vestito col tuo onesto e prosaico tout-de-même bigio, coperto il capo con lo staio; sulle antiche mura distende i suoi manifesti l'operetta francese; uscendo dalle Gallerie degli Uffici, incappi nelle economiche oleografie e nelle statuine di chincaglieria. Questo contrasto t'irrita e ti offende, il dualismo si stabilisce nel tuo spirito vacillante, non sai più a che appigliarti, se al mondo di adesso o a quello di allora e combatti ogni giorno una lotta interna che ti affatica. Una voce parla in te della grandezza e della serenità dell'arte ed un'altra ti risponde elogiandoti la grandezza della civiltà: la Venere Medicea si pone rivale del telefono — ed allora tu scappi via cercando un paese che sia perfettamente antico; il che è impossibile, o uno che sia perfettamente moderno...
— Difilato. Là prendi un bagno salutare di modernità, stai in mezzo alla tua epoca, in mezzo ad uomini come te, ti aggiri in circoli ove comprendi e sei compreso: vita tua, giorno per giorno, ora per ora. Amori, odii, giornali, letteratura, tramways, industria, miseria, ricchezza, vizio, tre suicidî al giorno. Gente cordialissima, donne simpatiche, troppo alte, ben vestite, di un appetito fenomenale. Il duomo è una meraviglia eterna — il Secolo, dicono, tiri ottantamila copie al giorno — molti libri, troppi libri — molti letterati, troppi poeti — se si facesse la statistica del pensiero, una graziosa statistica, Milano dovrebbe avere il primato. Vi si discute molto, di tutto, disgraziatamente anche di politica. Il freddo famoso dell'inverno milanese è diventato una calunnia; aspettavo la neve, volevo vedere la neve, camminarvi sopra, circondarmi di neve, sentirmi il naso gelato, le orecchie gelate, il cuore gelato. Neppure per sogno. Ho pensato con una malinconica sfiducia alle consunte tradizioni meteorologiche che chiamano rigido il clima milanese e dolce quello napoletano; non si può credere più a nulla in questo mondo. La neve non veniva o veniva nel più stretto incognito; decisi di andarla a trovare e partii per Torino.
— Non te lo immagini niente affatto. Delle vie larghe quattro volte le nostre, dove l'aria circola libera e forte per gonfiare quei petti vigorosi; orizzonti ampissimi e lontani dove possa affisarsi sicuro il loro sguardo d'aquila; dappertutto una pulizia che è l'ideale inafferrabile della nostra Napoli: insomma una città solida, quadrata, onesta fin nelle pietre. Caro mio, vi faceva un freddo che avrebbe fatto starnutire cinquecento migliaia di contribuenti meridionali ed invece non ti vedevi d'attorno che ciere rosee ed allegre da sollevarti lo spirito ammollito; e sempre occupati a qualche cosa, quei piemontesi. Ci è il rumore e l'odore del lavoro, uno scoppio energico di attività, un brontolio burbero e benefico di operosità che viene dalle viscere della terra, sale lungo le case, riempie l'aria, ronza nelle orecchie degli uomini; là bisogna attendere ad un lavoro, sia anche inutile, è l'ambiente vivido e sereno che vi ti obbliga. Chi sa? in quell'atmosfera vi deve essere del ferro o dell'argento vivo; se a qualche chimico venisse in mente di farne la decomposizione, vedresti le meraviglie. Ma noi altri uomini morbidi e dolci del mezzogiorno, abituati a fantasticare più che a pensare e pensare più che ad operare, noi che portiamo nel capo un mondo di progetti bellissimi che non ritroveranno mai la prima parola di attuazione, noi uomini perfettamente esterni come sentimento ed interni come opera, ci stanchiamo di quella vita. È la nostra natura greco-africana che s'inebbria di chiasso inutile, di aria e di cielo; si finisce per essere stanchi del lavoro altrui. Forse esso ci intimidisce e ci mortifica. Noi ammiriamo con l'anima quella fermezza, quella indomita volontà, tentiamo d'imitarla per poco, ma il temperamento ci vince: noi ci sentiamo rotti ed affaticati. Allora vi è un solo rimedio...
— E quale?
— Il segreto di Pulcinella, il riposo. Venezia, dove si tace, dove si sonnecchia, dove si dorme, il mare non è mare, la gondola è una culla, il gondoliere ti canticchia la ninna-nanna, i profili dei vecchi palagi sono bigi e dolci, il volo dei colombi è lento e stanco; si passano i giorni in dormiveglia, sognando di pranzare, sognando di dormire, sognando di vivere. Mai un urto, mai uno scoppio; mai una tempesta, mai un uragano, mai un risveglio: la consegna è di sognare. Le facoltà ci annullano a poco a poco, i nervi si calmano, la testa si quieta, non hai più desiderii, non hai più bisogni, passa una sola giornata e ti pare di aver vissuto sempre, sempre in quella contemplazione; nulla sai più di passato, l'idea del presente ti sfugge, quella dell'avvenire non si presenta: tutto è sogno, un sogno non interrotto. Dans Venise la rouge, pas un bateau qui bouge, pas un falot, mi pare che dica De Musset; puoi supporre di trovarti in un paese delle fate, dove vanno le anime a riposarsi dalle pene dell'esistenza. Ma una sera l'incendio del tramonto è più vivo e ti scuote, un gaio accento del tuo paese ti fa risvegliare, la memoria ti ritorna, l'incanto dolcissimo si rompe; da essere passivo tu diventi essere attivo e pensi e giudichi che quella calma, quella beatitudine, quella ebetudine, quell'eterno cullamento, quella eterna canzone, quella contraffazione di mare, quel mormorio incessante, siano l'apparato di una tomba; allora hai freddo, sei colpito dal brivido di coloro che rimasero molto tempo sotto il raggio lunare. Sole, sole, sole, vita, movimento! Te ne ritorni a Napoli.
Qui vi fu un silenzio. Giovanni guardava Enrico con un sorriso così ironico ed insistente, che costui se ne turbò.
— Ebbene — chiese — che ne dici delle mie impressioni?
— Chiedo a me stesso la ragione della tua nostalgia.
— Nostalgia?
— Sicuro. Questo non trovarsi bene in nessun luogo, questa ricerca affannosa di nuovi paesi, i quali neppure arrivano a soddisfarti, questa logica spietata ed illogica, che ti fa ritrovare ogni minimo difetto nei paesi che hai visitati ed ingrandisce a proporzioni esagerate questi difetti e ti rende bislacco e ti riduce incontentabile: questa, caro mio, è nostalgia. Di che? Ecco la difficoltà.
— È vero, forse hai ragione. Ogni volta che mettevo il piede in una nuova città, vi era in me una voce interna, sottile, piccina che esclamava: Non è qui, non è qui! Ma dove, ma dove?... Sai, ho pensato spesso all'ideale della mia vita futura, a quell'ideale della mia vita futura, a quell'ideale di cui ti ho parlato tante volte: vivere in campagna, nella pianura, dove i campi succedono ai campi senza interruzione ed il sole li inonda di raggi, la villa isolata, tutta bianca, con le persiane ingenuamente verdi, l'orto, il giardino e poi i campi di nuovo, dove tra il grano maturo si pavoneggiano gli svelti rosolacci e sorridono gli azzurri occhi della pervinca; e lontano lontano una linea di azzurro che è forse il mare, forse il cielo, forse un'idea — e non saper nulla della città, se non per innocua lettura — e diventare agricoltore, pastore, gentiluomo di campagna, imbrunirsi al sole, guardare l'uragano dalla finestra mentre nel camino canta l'abete, abbruciando gaiamente. Dimmi, è forse questa la mia nostalgia?
— Olivia è sempre nella sua villa in Puglia? — chiese Giovanni sorridendo.
— Sì — rispose l'altro ed abbassò il capo, mentre le labbra gli tremavano lievemente ed il volto impallidiva.