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È utile qui dire, che nessun bimbo può essere assolutamente brutto; che nessun bimbo ispira una completa ripugnanza. Se sono malaticci, hanno la dolcezza di una malattia; se sono rachitici, hanno la malinconia attraente di un corpo condannato; se sono precoci, hanno quel sapore strano e acre delle piccole anime, già troppo grandi. Infine potranno avere il naso camuso o gli occhi piccoli o la bocca grande — ma avranno sempre qualche cosa bella: o la guancia rotonda o la delicatezza della pelle o la morbidezza dei capelli, o avranno, nello insieme, tanta grazia soave, tanta freschezza, tanta gioventù che vale come bellezza. Vi sono uomini brutti e vi sono uomini ripugnanti: ma Dio volle che non vi fosse infanzia senza sorriso e senza fascino di amore.
Così, io credo la più facile, la più deliziosa cosa per una madre, vestire il proprio bimbo. Vi deve essere una gioia minuta, ma molto acuta, nel preparare le leggiadre ed eleganti cose che renderanno più bella la propria creatura; credo che debba essere una delle contentezze più intense della maternità, questa cura assidua e immaginosa, di adornare graziosamente questo essere piccoletto e bello.
Quando, per la via, s’incontra una mammina col bimbo, se ella è più elegante del suo bimbo, bisogna diffidare un poco di quella madre. Quando il bimbo addirittura goffo, trascurato, non riparato contro il freddo, allora il senso della maternità è molto debole in quella madre. Quando il bimbo ha un abituccio gramo, simile a quello ricco della madre, vale a dire combinato coi ritagli — allora questa madre ha il cuore deplorabilmente inaridito dalla vanità e guastato da una feroce avarizia. Invece ho conosciuto una madre, ancora giovane, ancora bella, che vestiva sempre la lana, mandando fuori la sua creatura vestita di seta; che non aveva più vanità per sè; che rientrava da ogni passeggiata, riportando un nastro, un cappellino, una mantellina per la sua creatura, che passava le ore a fantasticare qualche cosa di nuovo e di bello, sempre per la sua creatura; che si tormentava, se ne vedeva un’altra meglio vestita; che quando le dicevano: come è graziosa oggi la vostra creatura! impallidiva di gioia, sorrideva e soggiungeva subito:
— Ora, ora, le sto facendo un altro vestitino, più bello ancora, con cui vedrete come sarà carina.
E non dite che questa sia vanità riflessa. O ditelo che sia e rallegratevene. Perchè molti vestitini fatti in casa, molti sottanini di maglia, molte camiciuoie ricamate, molti colletti smerlati, sono il pericolo evitato, sono il peccato sfuggito, sono il dramma scongiurato.
*
* *
La moda è sempre semplice per i bimbi e per le bimbe. Quei corpi piccini sono così puri di linee o così graziosamente grassotti, che non hanno bisogno di tutte le balze, di tutte pieghe, di tutte le arricciature di cui abbiamo bisogno — o fingiamo di avere — noi altre donne. Una bimba di sette anni, che porta la gonna sgheronata, i pouffs sui fianchi e il grosso ciuffo dietro, è sicuramente una stonatura. Intanto se ne vedono spesso, di queste bambole troppo bene vestite: è il modo di renderle ridicole e molto infelici. Se per noi altre persone grandi è una serie di problemi difficoltosi, entrare nelle vesti, poi affibbiarle, poi respirarci, poi camminarci, poi sedersi, poi salire in carrozza — caso gravissimo, quasi sempre con risultato di stringhe rotte e di nastri scuciti — figuratevi quanto possa essere misera una bambina, dentro una di queste armature medievali, che scricchiolano ogni movimento. La tunica liscia, lievemente assettata, abbottonata sul dorso, che cade sopra un gonnellino rotondo, a pieghe larghe e profonde, è sempre l’abito più bello per le fanciullette. Così mentre rimangono libere nei loro movimenti, quella linea semplice, allungata, le veste benissimo.
Per i bimbi nulla di meglio di questa tunica che cade sui calzoncini assettati e abbottonati ai ginocchio: è per loro un orgoglio, la cintura di cuoio giallo, con la fibbia di acciaio, messa molto giù. Vi sono certe maglie di lana nera o azzurro molto cupo, come una tonacella, sul gonnellino di lana bianca, che sono una cosa incantevole a vedersi. E per confessioni infantili che io raccolgo, comodissime, perchè si prestano a qualunque corsa e a qualunque capriola.
Anche per confessioni, i bimbi maschi preferiscono i calzoncini corti, al ginocchio, a quelli lunghi: quelli lunghi impacciano, seccano, si sporcano facilmente. Poi nascondono le calze che sono una vanità infantile, poi nascondono a metà gli stivalini, che sono la più forte vanità infantile. Certo il bimbo tiene assai ai calzoncini, umiliato sempre profondamente dalle gonnelle femminili: ma vuole le calze colorate, stirate sulla gamba, e gli stivalini alti, coi lacci o coi bottoni. Tanto più che questo insieme dà loro una grande sveltezza e li fa apparire più alti. Un vestitino di velluto marrone, con bottoni dorati — o di raso nero coi bottoni di madreperla, a pallottoline, le calze dello stesso colore dell’abito, gli stivalini neri: ecco una figurina seducente.
Le bimbe possono essere vestite di bianco più facilmente e con minori pericoli, perchè sono più pulite. Se ne incontrano per il Corso, tutte in bianco, con le mantelline in felpa bianca, e un berretto di pelliccia bianco: sembrano gattine freddolose, rosee, cogli occhioni bigi. Maschietti e feminucce non possono soffrire quei colletti di tela insaldati, duri come il cartone, che fanno una riga rossa sulla pelle del collo. È una moda inglese: ma serve per quei bimbi inglesi, serii, riflessivi e stecchiti che sono già gentlemen a sette anni. Il colletto deve essere morbido, largo — o deve essere una folta arricciatura di trina, che lasci ogni libertà di azione al collo. Così la cravatta non deve avere un nodo corretto che abbisogni di spilli per reggere, ma deve essere a nodo facile e artistico, a cappi svolazzanti: del resto, un bimbo, col nodo della cravatta che gli è arrivato sulla spalla o sulla nuca, è anche grazioso — come è grazioso vedere le agili ed inquiete dita della madre che glielo rimette al posto, ogni cinque minuti.
Per i bimbi da dieci a dodici anni, una consolazione sono le ghette, specie quelle caffè e latte, con una fila di bottoncini: se le sognano la notte, come mi narrava il mio amico Ninì, in tutta confidenza. Mentre per le bimbe di dieci anni, i guanti sono un desiderio segreto, ma non quelli di pelle, difficili a mettersi, e di cui saltano via così presto i bottoni: sibbene quelli di filo o di seta, che s’infilano presto e sono senza bottoni. In questo modo, quello che essi preferiscono, è quello che va loro meglio. Essi non si curano dei gioielli, ed è certamente un’abitudine barocca quella di metter loro al collo catenine d’oro con medaglioni, di dar loro degli anellini, degli orecchini di brillanti. Quella carne fresca e tenera non ha bisogno di questi ornamenti. Essi non amano i profumi, e basta unicamente che quella pelle sottile sia cosparsa di polvere di riso, senza odore: basta che la biancheria odori di ireos o di lavanda. Tutti gli Champacca, gli Ylang-Ylang, i White-rose che eccitano e deprimono i nervi squisiti di noi altri grandi ammalati, non arriveranno a superare quella bontà di odore giovane, che ha la faccia e il collo dei bimbi.
Quello che essi più odiano è il parrucchiere, che taglia loro i capelli sino alla cute, col pretesto che debbano crescere loro più forti; e infatti, un bimbo con la testa pelata, è brutto quanto infelice. Quello che essi odiano, è la pomata, che impiastriccia e insudicia i capelli. Bisogna che la madre o la sorella grande o la zia zitellona abbiano il senso artistico di quelle onde brune che cadono sulle spalle, di quelle ciocche pioventi sulla fronte, di quelle forti trecce battenti sugli omeri, di quei riccioli che sfuggono a un berretto messo alla sgherra. Un bimbo che esce pettinato dalla sua casa, può essere bello; ma quando ritorna dal Pincio, la sua spettinatura è bellissima. Come semplice riflessione, ho da aggiungere che è odioso tagliare la frangetta sulla fronte delle bambine e far arricciare dal parrucchiere i capelli dei bimbi.
In quanto ai cappelli dei bimbi, possono essere grandissimi o piccolissimi, messi di traverso, buttati indietro, purchè non vi siano sopra nè piume, nè fiori, nè veli — basta un semplice nastro, un fiocco di seta. Purchè siano di feltro, molle, o di panno o di paglia flessibile, in modo da resistere ai colpi; purchè abbiano l’elastico che si passa sotto il mento; purchè non imitino le forme pretensiose dei cappelli materni o paterni: saranno sempre belli.
Per le bambine delicate e infermicce
si fa una eccezione, dando loro quelle cappottine chiuse che riparano dal freddo e mettono il
visino gracile come in una bomboniera. In quanto ai piccoli marinari, alle
piccole scozzesi, ai piccoli bersaglieri, è inutile dire
che è una prova la più completa di goffaggine che possa andare per le vie. Per
un minuto i bimbi se ne contentano, dopo sono impacciati, annoiati, nervosi: è
un grande torto sovraccaricarli, essi che sono la
semplicità — dare una tesi ai loro abiti, mentre chi li porta è la chiarezza —
renderli pensierosi, essi che sono la gioia.
Mentre la bionda mammina placidamente ricamava un orlo di camiciuola e Mario, seduto sul tappeto, intagliava certi soldatini dipinti di rosso e di azzurro sulla carta, entrò improvvisamente il giovane padre, tutto allegro:
— Su, Mario, su fantoccetto mio, fatti vestire da mammina ed usciamo: ti conduco a spasso.
La mammina aveva lievemente aggrottate le sopracciglia e non si era mossa: Mario era balzato in piedi, abbracciando le gambe di papà, strofinandosi contro i calzoni:
— O papuccio mio bello, o piccolo papà caro — ripeteva, ridendo, avvinghiandosi come un serpentello.
— Andiamo, Tecla, vesti Mario: si fa tardi.
— Veramente vuoi condurlo a spasso? — chiese ella, sorpresa, senza alzarsi.
— Figùrati, ho due ore di libertà, un vero miracolo! Questa creatura non esce mai con me.
— Se lo conduci al Pincio, avrà freddo.
— Non lo conduco al Pincio. È vero, burattinello mio, che non te ne importa niente del Pincio?
— Non me ne importa, papino, purché tu mi conduca e la mammina mi metta l’abito di raso.
— Ai Prati di Castello ci farà umido — osservò la madre.
— Non lo conduco ai Prati — non lo vuoi fa uscire, il bimbo? Sei gelosa eh?
— Ma che! — fece lei, dando una spallata. E alzandosi lentamente, con una grande svogliatezza, andando e venendo senza fretta, aprendo tutti i cassetti e tutti gli armadi, senza trovare nulla, la mammina bionda vestì Mario. Il quale ritto, in camicia, sul letto, agitava le gambe aspettando le calze e gli stivalini, scherzando con suo padre, buttandosi giù sul letto, facendosi solleticare, ridendo sempre, baciucchiando il suo papà bello che si abbandonava, ridendo, sul letto, anche lui. Più d’una volta, mentre gli tirava su le calze, gli allacciava gli stivaletti e gli abbottonava il vestitino, la bionda mamma si era chinata sul collo di Mario, come se avesse voluto dire qualche cosa in segreto al bimbo. Ma il papà era sempre lì, fermo ad aspettare, sorridente. La mammina sbagliò tutta la fila di bottoni e dovette ricominciarla. Mario fremeva d’impazienza, dimenandosi: il papà aveva già il cappello in testa e mammina cercava ancora un fazzolettino da dare a Mario.
— Gli dò il mio, Tecla, se gli serve.
— Non mi serve, andiamo, papà piccino.
— Non gli comprare giocattoli — disse sottovoce la mammina al papà.
— Non dubitare, non glieli compro.
E allora la mamma diede un lungo bacio sulla fronte del figlioletto, come se volesse far parlare alle labbra una lingua sconosciuta. Essa uscì sul pianerottolo e guardò il padre ed il figlio che scendevano le scale, saltellando e chiacchierando:
— Senti una cosa.
— Se hai freddo, ti dò il cappottino.
— Non ho freddo. Addio, mamma.
*
* *
Sulla porta del baraccone, dove si entrava a vedere la vasca dei coccodrilli e il gabbione delle tigri, a Mario era venuta meno la curiosità ed il coraggio. Guardava il suo papà con una faccia fra la paura e il desiderio, ma stava fermo, in mezzo all’esedra di Termini, non osando entrare.
— Sono grossi i coccodrilli, papà?
— Sì, pauroso mio.
— Grossi come Nanna, la cuoca?
— Più lunghi e più schiacciati.
— Andiamo via, papà. Raccontami tu i coccodrilli e le trigi. Mi comprerai un giocattolo a via Nazionale, coi quattrini che dovevi spendere nella baracca.
— No, gioia mia, ne hai troppi di giocattoli.
— O papà, che dici! Alessandro, alla scuola, se sapessi quanti ne ha, di belli, di complicati, con le macchinette dentro, per far camminare! Ci ha la ferrovia, con tre vagoncini, e dentro vi sono i viaggiatori e sulla caldaia vi è un macchinista, tutto nero, poveretto! Poi ci ha un giuoco di cavallo, coi saltatori, coi cavallerizzi che girano, girano. Capisci, si dà la corda papà. Avevi tu giocattoli, quando eri piccolo piccolo, come me?
— Pochi, Mario.
— E le impertinenze le facevi?
— Meno di te, biricchino.
— Gli scappellotti te li davano, papà?
— Si, caro.
— E ti facevano male?
— Vedi, papuccio, quando mamma mi dà uno schiaffetto, non mi fa mai male. Io piango forte e strillo, ma non è vero niente. Ora non me ne dà più mamma.
— Sì, papà piccolo: ma voglio più bene a te.
— Non lo devi dire, questo. Perchè vuoi più bene a me?
— Non ti vedo che a pranzo, papa mio! E la mamma, la vedo sempre. Se mi compri un giocattolo, dico che voglio bene lo stesso a tutti due.
— Brutto bugiardone! Non preferisci prendere una granita da Singer?
— Sì, papà; la granita di amarena che è rossa.
Poi quando ebbe lentamente presa la sua granita per farla durare di più, Mario volle comprare le paste per portarle alla mammina che, poveretta, era rimasta in casa e non aveva avuto granita. Volle portare il pacchetto, infilando il dito nel nodo dello spago.
— Papa, quando sarò grande, potrò mangiare una granita ogni giorno?
— Ti faranno male allo stomaco.
— No, no, non mi faranno niente. Papà, io voglio essere corazziere.
— E se rimani piccolo? Tu sei ancora il mio pupazzetto!
— Oh dammi da mangiare, fammi diventare alto e grosso, papà. Se resto piccolo, non mi vogliono per corazziere, papa.
Ma la grande vetrina di Natali lo sedusse. Tacendo, con gli occhi intenti, con la bocca socchiusa, guardava quei giocattoli meravigliosi. La manina stringeva quella del padre, come se volesse comunicargli i tuoi fremiti. E il visino era così pallido di desiderio, gli occhi buoni supplicavano tanto, che il padre non seppe resistere ed entrò con Mario nella bottega per campargli un giocherello.
— Sono contento che tu mi abbia comprato questo paese — mormorava Mario, salendo in carrozza, per tornare a casa. — Quante saranno le case?
— Venti, forse.
— Ed io ti darò venti baci piccoli, e se vi è un lungo campanile, te ne darò uno grosso grosso. Sono più contento, perché questo è un giocattolo con cui posso giuocare a casa. Venerdì mamma m’ha comprato un cerchio di legno e una palla elastica. Che n’ho da fare, in casa, del cerchio e della palla? Guastano i mobili e possono rompere gli specchi.
— Ti servono al Pincio, mummietta mia ragionevole.
— No, no, mi servono a villa Pamphily. Venerdì ci siamo stati, con mamma. Io ero annoiato di stare in carrozza chiusa, con mamma, ma essa m’ha detto: quando siamo lì, scenderemo.
— Non eri mai andato in carrozza chiusa, Mario?
— Mai, papa.
— E lassù hai giuocato col cerchio e con la palla?
— Sì, mentre mamma discorreva con Riccardo.
— Con Riccardo?
— Sì, papà.
— Che faceva Riccardo?
— Passeggiava, papà. Per un pezzo sono stato con loro, ma non mi davano retta e sono corso innanzi, con la palla: poi la palla è andata in un viale di contro e, per cercarla, non ho più trovata la mamma. Se mi perdevo, papa, mi avrebbero mangiato i lupi, in quella foresta.
— Sì... forse. E... la mamma?
— L’ho riacchiappata vicino alla carrozza, che mi aspettava.
— È troppo poco.
— Allora dopo cinque giorni, papà. M’ha sgridato ed io ho pianto. La colpa era del cerchio e della palla e li ho bastonati. Riccardo è salito in carrozza con noi. Allora hanno abbassate le tendine e non vedevamo più la strada. Siamo scesi a Ripetta, papà, ma prima Riccardo ha baciato mamma sul collo. Perchè lo ha fatto, papa?
— . . . . . . . .
— Noi siamo andati via e lui è rimasto in carrozza. Ma perchè lui bacia la mamma sul collo? Lui non è il mio papuccio bello; lui non è Mario, la mummietta bella, per baciare la mamma. Digli che non lo faccia più, papa.
*
* *
La madre aspettava il bimbo sul pianerottolo, tendendo l’orecchio al rumore dei passi.
— Sei solo, Mario?
— Solo. Papa m’ha comprato il paese, mamma, e le paste per te.
Ella tremò tutta, impallidendo. Il bimbo, ritto innanzi a lei, la guardava, con gli occhi lucenti.
— È andato a dire a Riccardo che non ti baci più, mamma.
— Figlio mio! — gridò lei, piombando a terra, con le braccia aperte.