Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Il paese di cuccagna
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5 - IL CARNEVALE DI NAPOLI

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5 - IL CARNEVALE DI NAPOLI

 

Dai primi di gennaio Napoli era stata presa da una smania di lavoro che si diffondeva da una bottega all’altra, da una casa all’altra, di strada in istrada, di quartiere in quartiere, dalla regione nobile a quella popolare, con un movimento continuo, ascendente e discendente.

Dagli stabilimenti, dagli opifici usciva più forte il rumore delle seghe, delle pialle, dei martelli: nelle botteghe dalle porte socchiuse, nelle case si vegliava: le più piccole come le più grandi industrie, pareva che avessero ricevuto quasi un impulso misterioso, un soffio di vitalità novella, nella loro lenta e rassegnata agonia. Nelle fabbriche di guanti la domanda era cresciuta a dismisura, specialmente per i guanti bianchi, e per quelli color tortorella: se ne fornivano le più umili botteghe di generi diversi. Nelle fabbriche dei fiori artificiali che sostengono sempre più vittoriosamente il paragone con la produzione di Francia, si preparavano grandi quantità di rami, di cespi, di gruppi, di fasci di fiori, di piccoli e grandi mazzi, fiori vivaci, di tinte calde, che chiamano l’occhio: quelli più delicati destinati ai capelli e al seno delle signore, quelli più grossolani destinati all’adornamento delle case, delle botteghe, dei cavalli, delle carrozze: le rose, le camelie, le dalie, i garofani erano i più richiesti. Presso tutti i sarti e presso tutte le sarte, il raso, il velluto, la garza, il velo si piegavano in mille fogge, di vestiti, di mantelli, di cappucci, di sciarpe: mentre nelle botteghe da calzolaio le orlatrici passavano dieci ore del giorno a orlare le scarpette di raso rosa, azzurro, bianco, bigio, lilla, e gli stivaletti fantastici ricamati d’oro e quelli orlati di pelliccia.

Il lavoro dei guantai, dei fabbricanti di fiori, delle sarte, dei calzolai, cominciato nella primissima ora della mattina, finito alle undici della sera, non poteva essere eguagliato, che da quello degli stabilimenti così detti di cartonaggio. Ivi il cartone, nelle mani degli uomini e delle donne, si piegava in centomila forme, grandi e piccole, era dipinto, intagliato, tagliuzzato, arricciato finanche; era unito con la paglia, col metallo, con la ricca stoffa di broccato; dalla cartina riccia dove si cela un confetto, e un fulminante, alla grande scatola sontuosa; dalla piccola bomboniera fatta con un pezzetto di cartone e un brandello di raso, al sacchetto ricco ed elegante, foderato d’un altro sacchetto di cartoncino; dal cilindretto fatto con due o tre vecchie carte da giuoco, un po’ di carta bristol e due figurine decalcomania, alla cornucopia di paglia tutta infiorata di nastri, dalle cose bruttine e poverette alle cose belle e ricchissime, il lavoro non cessava mai, mai: tutti questi cartonaggi, grossi e piccoli, erano disposti su grandi tavoloni, smagliavano di colori, attiravano gli occhi e le mani e ogni giorno partivano per le botteghe, dove si andavano a riempire di confetti, di chicche, di dolci, di mandorle torrefatte. Ah il lavoro, il lavoro che vi era, sempre più forte, nelle botteghe dei dolcieri, dagli umili Fragalà del quartiere San Lorenzo ai gloriosi Fragalà di piazza Spirito Santo, e dai gloriosi ma borghesi Fragalà dello Spirito Santo, agli aristocraticamente squisiti dolcieri di piazza San Ferdinando! Anzitutto, la gran fabbricazione dei coriandoli, bianchi e colorati, grossi e piccoli, col coriandolo dentro e l’involucro di gesso spolverificante: averne degli intieri magazzini di deposito, pieni i tini, le tinozze, i canestri, le stuoie riboccanti foggiate a canestri, il tutto messo in salvo dall’umidità che rovina il coriandolo: delle provvisioni che se fossero state di polvere da sparo, sarebbero bastate per debellare un esercito. L’altro grosso lavoro era la gran preparazione per la enorme quantità di sanguinaccio rustico e sanguinaccio dolce, sanguinaccio nel budello bigio e sanguinaccio nel piatto, tutto cosparso di pezzettini gialli di pan di Spagna: il sangue di maiale, cioè, unito al cioccolatte, al pistacchio, alla vainiglia, al cedro, alla cannella e presentato in una forma umile e leggiadra, dove la sua grassa brutalità era scomparsa. Nelle retrobotteghe si pesava cannella, si affettavano cedri, si sbucciavano pistacchi, si cuocevano confetti e confettoni, bianchi e colorati, i forni ardevano, le fornacelle erano roventi, le caldaie bollivano e gorgogliavano; e gli operai in maniche di camicia e berretto, denudati il collo e le braccia, agitanti le grandi mestole, battenti col pestello nel mortaio di marmo, illuminati dalle fiamme dei focolai vividissimi, sembravano bizzarre figure di anime purganti.

Tutti i pubblici esercizi si davano da fare, mettevano avvisi, squadernavano cartelloni sulle mura della città. I barbieri in voga accaparravano altri garzoni; i celebri tre pizzaiuoli napoletani, del vico Freddo a Chiaia, del largo Carità, di PortAlba, avvertivano il pubblico amatore delle pizze, di quella doppia pizza, che si chiama calzone e di quella frittata filante che si chiama filoscio, nonché delle costolette alla pizzaiuola, che essi sarebbero stati aperti sino alla mattina, con vino di Marano e del Monte di Procida: i caffè di Napoli, caffè Grande e caffè d’Europa, mentre coprivano le loro insegne di cristallo con una insegna di grossa tela, facevano grandi ripuliture nei salotti e nei salottini; i teatri annunziavano illuminazioni quadruplicate, mentre già sulle porte delle botteghe di generi diversi, nelle vetrine dei bazars meschini o eleganti, comparivano le mascherine di velluto nero, i nasi di cera, le mostruose teste di cartone grandi tre volte il vero e assai più brutte del vero, le mascherine di fil di ferro per ripararsi il volto dai coriandoli, le mestole per lanciarli, le scalette a zig-zag per porgere ai balconi le bomboniere, e i fiori, e le sciarpe e i nastri, decorazioni fantastiche di balli e vestiti intieri di carta velina. Lungo le vie del quartiere Montecalvario in traverso di Toledo e parallele a Toledo, nelle più oscure botteghe di venditori di pannine, di robivecchi, di venditori di ritagli, sopra dei manichini di legno si agitavano i costumi da maschera per i veglioni popolari, i Mefistofele tinti di rosso e di nero, i Grandi di Spagna di velluto di cotone, gli Arlecchini fatti col panno di vecchi tappeti, le Contadine Sorrentine dai colori vivaci, le tuniche quasi bianche del Pulcinella e sopratutto gli elmi, gli elmi lucidi, con relativa corazza di cartone e spadone di legno: costumi di maschera che si affittavano, dappertutto, per pochissime lire e che mettevano una nota buffa in quei vicoli oscuri, comparendo sin nei balconi dei primi piani, sbucando in fila dalle botteghe umide e buie, ghignando dalle maschere infernali, o mostrando un volto scialbo di raso bianco o azzurro-verdastro.

Dovunque si andava, nei quartieri del popolo come in quelli della nobiltà, si scorgeva un movimento allegro, una lieta fatica, un affaccendarsi rumoroso, una attività mai cessante, un fermento diurno e notturno di tutte le forze, un azione costante, vivace, energica di tutta una serena e laboriosa città che intende a un’opera sola, a cui si col cervello e col cuore, con le mani e coi piedi, adoperando la vibrazione dei suoi nervi, la vivacità del suo sangue, la potenza dei suoi muscoli a questa immensa opera unica. E dovunque, dovunque s’indovinava, o si sapeva, o saltava agli occhi, o si leggeva che cosa era la grande opera: per le feste del prossimo carnevale

Niente altro che il carnevale. La grande città si era data a quell’impetuosa e gioconda fatica, non per l’amore del lavoro, in sé, per quel lavoro che è causa e conseguenza di benessere, che è, in sé, fondamento di bontà e di decoro; la grande città non si era abbandonata a quella fervente attività, per uno scopo immediatamente civile, miglioramento igienico o industriale, esposizione di arte o di commercio, trasformazione di vecchi quartieri o creazione di nuovi: era pel carnevale, soltanto pel carnevale, un carnevale decretato ufficialmente, dal palazzo della Prefettura e da quello del Municipio, carnevale caldeggiato da comitati, commissioni, associazioni, messo su da mille persone, creato e realizzato come una grande istituzione e diffuso nello spirito di tutti i cinquecentomila abitanti, fatto rimbombare sino nelle provincie meridionali, avente degli echi fino a Roma, fino a Firenze, sostituendo a qualunque altra proposta, iniziativa od opera, questa del carnevale, non altro che il carnevale, il carnevale sino all’entusiasmo, il carnevale sino al delirio! Ma come in fondo a tutte le allegre cose del paese di cuccagna, vi è una vena sempre fluente di amarezza, questo carnevale che travolgeva in buffonerie e mascherate tutte le cose e le persone più gravi della città, questo carnevale era una pietosa cosa. Dall’autunno al gennaio l’umido e greve scirocco aveva soffiato nelle vie napoletane, vincendo le energie della gente sana, e acutizzando le morbosità degli infermi: non poca gente straniera era mancata al solito convegno invernale: molti lavori erano stati sospesi e quelli da cominciare non erano cominciati: così molta gente di popolo, dormiva sui gradini delle chiese, sotto il porticato di San Francesco di Paola, sotto la guglia dell’Immacolata in piazza del Gesù. E insieme con lo scirocco, aveva soffiato un gran vento di digiuno: così il carnevale ufficiale, portato su da mille volontà, era destinato, riuscendo, a saziare almeno per dieci giorni una grande quantità di affamati, dalla orlatrice alla fioraia, dal sarto al garzone di negozio, dal venditore ambulante al piccolo commerciante. Venti giorni di carnevale! Cioè dieci giorni di pane e di companatico. L’idea aveva avuto, subito, un grande successo, tutti l’avevano aiutata, anche i meno facoltosi, sapendo di mettere i loro denari a un buon interesse. Carnevale, carnevale, sui balconi e nelle vie, nei portoni e nelle case!…

Così, in quel giorno di giovedì grasso, in cui lo scirocco umido dell’inverno aveva assunto tiepidezze primaverili, la via di Toledo dove da un capo all’altro si riversa il carnevale, nelle sue forme popolari e aristocratiche, aveva assunto il più bizzarro degli aspetti. Tutte le grandi botteghe erano chiuse, poiché i bottegai e le loro signore volevano godersi la giornata, non senza un certo timore per le loro vetrine; tutte le insegne erano coperte di tela o di stuoie e di stuoiette; erano anche coperti i fanali del gas: in quanto alle botteghe più modeste, più piccole, esse avevan tolte le vetrine ed eretto dei palchi di legno, dove sedevano le padrone, con i loro bimbi e le loro amiche, con le loro provvigioni di coriandoli, dovendo combattere quasi faccia a faccia coi pedoni dei marciapiedi, ma pur brandendo coraggiosamente le mestole. Tutti i balconi grandi e piccoli, dei primi piani, erano variamente addobbati, di mussole vivaci, poco costose, messe su con quattro chiodi e con quattro spilli, con quell’amore del colore forte, molto meridionale e un po’ barbaro, con quella intonazione di chiesa parata, qua di azzurro, di rosso, di bianco, di oro, con una quantità di grosse camelie, di grosse rose, di grosse dalie che fermano queste mussole, queste telette, in mille pieghe, dando ai balconi dove la forma di un’alcova, dove quella di uno stanzino da attrice, dove l’aspetto di una nicchia di santi, dove, infine, quello di una baracchetta da fiera. Verso via Santa Brigida cominciavano gli addobbi più vistosi e più spiritosi. Certi signori svizzeri si erano fatti costruire uno chalet sopra un grande balcone e le signore vi portavano il costume ingenuetto, un po’ sciocco, con la grande cuffia, le treccie sulle spalle e la crocetta d’oro al collo; subito dopo, a Santa Brigida, il figlio naturale di un altissimo personaggio aveva adornato i suoi quattro balconi di un gran panneggio di velluto azzurro cupo, coperto di una rete d’argento, il che poteva figurare il firmamento, o il regno della luna, o il regno del mare, ma che infine riempiva di stupore il buon popolo napoletano; un terrazzino, presso il vicolo Conte di Mola, era trasformato in una cucina con fornello, caldaia, casseruole e padelle, e otto o dieci bei giovani dell’aristocrazia vi faceano da cuochi e da guatteri, col grembiale bianco e col bianco berretto; una celebre bellissima donna che aveva trovato nella sua bellezza la fonte di tutte le sue fortune e della sua unica e immensa sciagura, aveva trasformato la sua terrazzina in una casetta giapponese piena di stoffe e di arazzi, dove ella ogni tanto appariva, ravvolta nelle fluenti stoffe molli appena annodate alla cintura, coi capelli rialzati a grossi nodi lucidi, sostenuti dagli spilloni, e le sopracciglia sottili, arcuate in una perenne espressione di meraviglia.

Passando, la gente di popolo sorrideva di ammirazione e diceva, nel suo vago ma unico concetto dell’Oriente: la torca, la torca. E tutti questi balconi addobbati da cima a fondo, nella via, e l’addobbo delle botteghe rimaste aperte cominciavano a produrre come un barbaglio di colori, lietissimo, accendente già l’immaginazione, dando al sangue quel vivo senso di gioia voluttuosa, che producono sul meridionale le cose esteriori. Verso le undici cominciavano a girare i venditori ambulanti, strillando acutamente la loro merce: erano venditori di piccole bomboniere, piene di mediocri confetti, ma fatte di vividi colori, borsette rosse, scatoline verdi e bianche, cornetti lilla e gialli, portati in grandi ceste piatte sopra una mano: erano venditori di fiori artificiali formati a grappoli, a coccarde, o a fasci, e infilati sopra lunghe aste: erano venditori di fiori freschi, camelie bianche e violette odorose, tenuti in grandi ceste sulla testa: venditori di mascherine e di mestole, e di sacchetti di tela per i coriandoli: venditori di certi girasoli di carta gialla e rossa, leggerissima, che a ogni alito di vento giravano, giravano come fiori folleggianti: venditori di coriandoli di bassa qualità, comperati a vil prezzo e destinati a esser venduti caramente nell’ora furiosa e cieca della battaglia.

A mezzogiorno, le contrattazioni di bomboniere, di fiori, di maschere, di girasoli cominciavano: poiché già, su tutt’i balconi, cominciava a spesseggiare la folla, come spesseggiava sui marciapiedi, come ne accorreva, precipitosamente, da tutti i vicoli, da tutte le strade inferiori e superiori. Dai primi piani, finestre e balconi, una siepe vivente e variocolorata di donne ondeggiava; ed era un palpito lungo, una lunga vibrazione di corpi muliebri chiaramente vestiti, di volti muliebri che si piegavano e si rialzavano mollemente come larghe, pallide e rosee corolle di fiori, dove ogni tanto la nota rossa sanguigna di una cupola tesa di ombrellino, di un cappello scarlatto, strideva. Si popolavano anche le finestre e i balconi dei secondi, dei terzi piani, di gente anche più curiosa, mentre ai quarti piani dei bimbi, delle ragazze avevano pensato, qua e , di legare un panierino a un lungo nastro di seta e di calarlo giù, alla pesca, sorridendo di lassù a qualche cortese ignoto che volesse mettere un fiore, un confetto, una picciola bomboniera, nel solitario panierino di quegli esseri che ridevano, lassù, lassù, così vicini al cielo. Aumentava la gente, dovunque: e le contrattazioni coi moltiplicati venditori ambulanti si facevano dalla strada ai balconi, a voce forte, discutendo, offrendo, respingendo, facendo raddoppiare il chiasso della popolazione.

Non si poteano buttar coriandoli prima delle due, era l’ordine espresso della questura; ma già qualche isolata scaramuccia nasceva. All’angolo di via San Sepolcro una nutrice contadina che se ne andava lentamente, facendo ondulare le larghe gonne, era stata bersagliata, faccia a faccia, da certi scolaretti di dieci o dodici anni. Un grave signore, con la tuba e un soprabitone lungo, era stato assalito violentemente, al largo Carità: avea tentato reagire, col bastone, ma era stato fischiato, aveva invocato l’aiuto delle guardie, dignitosamente gridando che era il cav. Domenico Mayer, funzionario dello Stato, ma le guardie lo avevano abbandonato, dicendo che era carnevale e che non provocasse, con quella tuba: il misantropico segretario dell’Intendenza di Finanza, pieno di amarezza, si era ritirato nel vico San Liborio, per salvarsi. A una signora dal cappello a larghe falde, che era rimasta inchiodata a un punto del marciapiede, verso San Giacomo, dal terzo piano, un bimbo buttava quietamente, perennemente, un filetto inesauribile di coriandoli, ed ella ne udiva la pioggia continua sul feltro e sulle piume, senza potersi muovere, senza poter levare il capo, per non ricevere i coriandoli sulla faccia.

Alle due in punto si udì, lontano, lontano, il rimbombo di una cannonata, e vi fu, da un capo all’altro di Toledo, nella via, sui marciapiedi, sui balconi, come un lunghissimo sospiro di sollievo: vi fu, da un capo all’altro di Toledo, nella via, sui marciapiedi, sui balconi, fino agli ultimi piani, come un amplissimo e lunghissimo movimento di fluttuazione.

I quattro balconi del palazzo Rossi, primo piano a destra, su Toledo, erano addobbati di teletta azzurra e bianca, fermata da larghe camelie rosse: e Luisella Fragalà e le sue invitate avevano pensato di farsi dei domino di teletta bianca e azzurra, con certi alti e sbuffanti cappucci, con una grossa coccarda rossa: e tutte le Naddeo, tutte le Durante, tutte le Antonacci, grasse o magre, giovani o vecchie, s’eran fatte da sé in casa il domino che doveva riparare i vestiti dalla polvere dei coriandoli e dare, secondo loro, un aspetto elegante alla balconata. Alcune avevano l’aria di grossi fagotti, altre di lunghi spettri, ma la gran pazzia carnevalesca aveva vinto le donne del mondo borghese: e d’altronde tutti i commerci fiorivano in quei giorni, tanta roba si vendeva e gli uomini ritornavano a casa di così buon umore, mentre tutto l’inverno era stato un pianto, e l’economia si era fatta più rigida, più dura! Come erano felici, tutte quelle donnine placide e laboriose, di questo periodo di carnevale popolare, a cui poteano prender parte, e del loro travestimento azzurro, bianco, con la coccarda rossa che Luisella Fragalà aveva ideato e che quella diavola di Carmela Naddeo aveva subito adottato e fatto adottare! Erano tutte , col mestolo alla mano, parlando già fantasticamente dei carri che dovevano comparire, amplificando, contraddicendosi, strillando, ridendo, rovesciandosi sulla ringhiera, per vedere se dal Museo spuntasse qualche carro. Solo, ogni tanto, una nube velava il volto nobile di Luisella Fragalà, i cui occhi bruni erravano dietro un cattivo pensiero: forse la tormentava il pensiero che le si sarebbero sciupate le tende dei balconi, per i coriandoli: forse avrebbe voluto tener aperta la bottega, anche in quel proficuo giovedì di carnevale, tanto l’amore della vendita l’aveva vinta, istintivamente, quasi che soltanto prevedesse la salvazione da un probabile pericolo: o forse si doleva internamente dell’assenza di Cesare Fragalà, il marito, che era spesso assente, in questi ultimi tempi e anche quel giovedì era scomparso, dalla mattina. Ma queste nuvole erano passeggiere. Luisella Fragalà andava e veniva, da un balcone all’altro, col cappuccio abbassato, cercando invano un posticino per la famiglia Mayer che si era presentata senza essere invitata, e che tutte respingevano silenziosamente, per non lasciar prendere il proprio posto, dicendo fra loro che la madre e la ragazza non avevano il domino e che stonavano, sul balcone. Si posero in terza linea, la madre sempre reumatizzata e imbottita di flanella sino alla punta delle dita, la ragazza co’ suoi grossi occhi sempre opacamente malinconici e le tumide labbra che si gonfiavano di una continua, repressa tristezza, il fratello sempre prodigiosamente affamato.

- Non avremo neanche una bomboniera, - mormoravano volta a volta, per turno, borbottando nella loro perenne rabbia contro l’umanità.

Ma la gran fluttuazione carnevalesca, il cui chiasso aumentava sempre, ravvolse anche questa misantropia; ora il vocìo si faceva immenso fra le carrozze da cui era cominciata la battaglia dei coriandoli, fra i piccoli carri, addobbati alla meglio, adorni di mortella, e pieni di mascherotti femminili e maschili, vestiti di teletta colorata. La casa Parascandolo, all’altro lato del palazzo Rossi, aveva tenuto chiusi i suoi balconi, la signora si considerava in lutto: ma don Gennaro Parascandolo in spolverina di tela russa, in berretto di tela e con la borsa delle bomboniere a tracollo, dopo aver fatto una passeggiata a piedi, per Toledo, chiamato da cento balconi, dove erano i suoi clienti passati, presenti e futuri, era salito al suo circolo, a Santa Brigida e di , fra un gruppo di giovanotti buontemponi e di buontemponi attempati, faceva la vita, anche lui: si diceva così allora. Attorno a lui, scherzando, gli domandavano per quanti carri aveva prestato denaro e se era vero, che per quel carnevale, la sua collezione di cambiali si era aumentata di preziosi autografi principeschi. Ninetto Costa, l’elegante e fortunato agente di cambio, che aveva delle ragioni per carezzarlo, gli diceva, in forma di adulazione, che non un pugno di coriandoli si gettava in quel giorno, di cui egli non avesse interesse nella provenienza o nella dispersione: e don Gennaro Parascandolo rideva paternamente, non negando, rispondendo a quelli che gli chiedevano quattrini, per burla:

- Mi son fatto prestare mille lire, per far carnevale, da un mio amico

Gli altri, intorno, urlavano, fischiavano, ma sempre adulandolo: non si sa mai, gli si poteva capitar nelle mani: e lui emergeva fra tutti, con la sua alta statura e il picciol berretto assai bizzarramente piantato sulla grossa testa, dando forti mestolate di coriandoli contro le carrozze e contro i piccoli carri.

Sciatta, col suo vestito nero, la cui tinta era adesso diventata verdastra e lo scialletto la cui frangia si era tutta sfilacciata, Carmela, la sigaraia, si era appostata all’angolo del vicolo D’Afflitto, guardando le carrozzelle e i carri che passavano, coi suoi occhioni bistrati, con una mossa impaziente della bella bocca fresca, l’unico lineamento, ancora giovanilmente fresco nel volto consumato. Dai balconi, dalla via volavano le mestolate, le manate di coriandoli, che spesso la colpivano nella persona o nella faccia, ma ella faceva solo un picciol moto per pararsi, sorrideva al fastidio, e si ripuliva la faccia con un angolo dello scialle.

Aspettava, , a veder passare il suo eterno fidanzato Raffaele detto Farfariello, che era in carrozza, con quattro altri compagni, con vestiti e cappelli eguali, ché anzi, per aver questo vestito, ella aveva dovuto rivendere certe casseruole di rame, un cassettone e due rami lunghi di fiori artificiali sotto campana, roba tutta che ella conservava per il suo matrimonio. Come le si era straziata l’anima a vendere quella roba, comperata pezzo a pezzo, a furia di stenti!

Ma Raffaele le aveva volute, a forza, quaranta lire - sangue di una lumaca! - perché si disperava di far cattiva figura con i compagni ed ella, che impallidiva quando lo udiva bestemmiare, aveva venduto quegli oggetti, all’impazzata, contenta in fondo, quando gli aveva consegnata la somma, poiché egli aveva sorriso e le aveva promesso di portarla al Campo, lei e sua madre, l’ultima domenica di carnevale, in una osteria, se pigliava un ambo asciutto, il sabato: ella, tutta gloriosa di questa fantastica promessa, aveva rinchiuso nel core la sua amarezza ed era andata, in quel giorno di festa carnevalesca, sciattata come una poveraccia, col treccione nero che si disfaceva sul collo, senza un soldo in tasca, a veder passare il suo bell’innamorato, altieramente in carrozza, fumando un napoletano, col vestito e col cappelletto nuovo sull’orecchio, con l’aria di superba indifferenza che è la caratteristica del guappo, e dell’aspirante guappo. Pazientemente ella aspettava, non pensando che a lui, senza curarsi della sua giornata, poiché alla fabbrica del tabacco avevano fatto vacanza: pazientemente ella sopportava tutto l’urto di quel pomeriggio carnevalesco, a cui non prendeva parte, poiché ella era assorta nella buddistica aspettazione dell’amor suo.

Ma la gente, a piedi, in carrozza, passava, passava attraverso il gran velo dei coriandoli, delle bomboniere, dei fiori che volavano, attraverso la pioggia di mille cartine colorate, piovute dai terzi e dai quarti piani, che, esclusi dalla battaglia dei coriandoli, si divertivano così, solitariamente: e il vocìo diventato clamore ondeggiava sonoramente, saliva al cielo di quella dolce giornata sciroccale. Carmela, stordita dal rumore e dalla fantasmagoria di quel pomeriggio, in cui l’allegrezza napoletana prendeva proporzioni epiche, aguzzava gli occhi, per non perdere di vista le carrozze a due cavalli, che procedevano al passo, tutte bianche di gesso. Ogni tanto, uno dei grandi carri appariva: era la Sirena Partenopea, una immensa donna rosea, dalla criniera bionda, dalle gigantesche forme di cartone colorato, il cui corpo finiva nelle onde azzurre, una Sirena che si trascinava dietro un carro pieno di uomini travestiti da aragoste, da ostriche, da carpioni, da cefali: era un carro che figurava una gran Tartana mercantile, una nave con la sua attrezzatura e i suoi marinai vestiti di teletta a righe bianche e rosse, a righe azzurre e bianche, col berretto rosso, lungo: era un carro che figurava, intorno a un gran ceppo di fiori, otto o dieci Boîtes-à-surprise, donde scattavano dei gentiluomini vestiti di raso; era un carro dove s’eran raccolte tutte le maschere napoletane, il Pulcinella, il Tartaglia, il don Nicola, Columbrina, il buffo Barilotto, il Guappo, la Vecchia, e finanche la più moderna maschera dei giovanotto lezioso e pretenzioso, il don Felice Sciosciammoca. Quando questi carri passavano, lentissimamente, quasi traballando sulle ruote, facendo piover coriandoli, confetti, bomboniere, scoppiavano gli applausi: la Sirena suscitava scherzi e facezie un po’ salate, la Tartana pareva pittoresca, le Boîtes-à-surprise avevano un successo di lusso e di eleganza, le maschere napoletane suscitavano dei gridi di riconoscimento, dei dialoghi rapidi, volanti, in dialetto, delle esclamazioni da tutti i balconi, a cui quelle maschere rispondevano vivacemente: e da un capo all’altro di Toledo era un movimento solo, di ondeggiamento sui balconi, di fluttuazione nella folla della strada, intorno ai carri e alle carrozze.

Carmela guardava, guardava. Vide passare in una carrozza dai cavalli tutti infiorati e scintillanti di ottone nei finimenti, le due sorelle, donna Concetta, quella che imprestava denari con l’interesse e a cui ella stessa doveva trentaquattro lire, da tanto tempo, arrivando ogni tanto a darle un paio di lire, solo per l’interesse, e donna Caterina, la tenitrice di gioco piccolo, presso cui ella aveva giocati tanti biglietti a un soldo, o a due soldi, quando non aveva denari per giuocare al Lotto del Governo, o quando solo quei due soldi le erano restati. Le due sorelle erano in gran gaia, pettinate con un trofeo di capelli, sul culmine della testa, piene di catene d’oro, di collane pesanti, di orecchini di perle, di grossi anelli, e conservavano il loro aspetto guardingo e severo, con certe occhiate oblique, e l’atto un po’ sdegnoso delle labbra chiuse e tumide. Due uomini le accompagnavano, in perfetta tenuta di operai indomenicati, zazzera lucida, cappelletto sull’orecchio, giacchetta nera e sigaro spento all’angolo della bocca: e i quattro personaggi, muti, gravi, si guardavano ogni tanto, con l’aria seriamente compiaciuta di persone soddisfatte, crollando il capo, ogni tanto, per far cadere i coriandoli dai capelli o dalle falde dei cappelli, sorridendo a coloro che li avevano buttati, guardando a destra e a sinistra, con una certa fierezza di popolani arricchiti. Carmela si morsicò le labbra, vedendo passare le due serene e feroci accumulatrici del denaro altrui, ma subito dopo, la sua solita parola le salì dal cuore alle labbra:

- Non importa, non importa

Ma un carro assai originale discendeva dall’alto di Toledo, suscitando una gran risata colossale, a destra e a sinistra, giù e su: era un gran letto borghese, con la coltre imbottita di bambagina, e foderata di cotonina rosso-vivo, come si usa a Napoli: un letto con un baldacchino aperto, dove, sulla parete, erano attaccate le immaginette della Madonna e i santarelli protettori: nel letto, dalle lenzuola bianche rimboccate, stavano coricate due persone, con due enormi teste di cartone, raffiguranti un vecchione col berretto da notte e una vecchiona con la cuffia, due vecchioni leziosi, smorfiosi, che faceano mille cenni con le grosse teste, che tiravano a sé la coltre con quel moto egoistico e freddoloso dei vecchi, che si offrivano del tabacco, facendosi dei saluti col capo, starnutando, dimenandosi, salutando la gente dei balconi, ringraziando alle fitte mestolate di coriandoli che ricevevano, scuotendo le coltri, restando incogniti sotto il mistero del cartone, mettendo in pubblico quella caricatura familiare, quell’angolo di stanza da letto, senza che nessuno trovasse la cosa troppo arrischiata, tanto l’idea di dormire all’aria aperta è naturale ai meridionali, e tanto la vita intima è vita pubblica, nel caldo e bonario paese. Che! tutti ridevano. Rideva finanche la gente nella bottega di don Crescenzo, dopo la piazza della Carità, all’angolo del vico del Nunzio. La bottega di don Crescenzo era veramente il Banco lotto numero 117: una bottega chiusa ordinariamente dal pomeriggio del sabato sino al martedì, e in cui la ressa cominciava dal giovedì, sino all’una pomeridiana del sabato.

Don Crescenzo, il tenitore del Banco lotto, un bell’uomo con la barba castana, vi lavorava con due giovani suoi, che viceversa erano: un vecchietto settantenne, curvo, mezzo cieco, sempre col naso sul registro delle giuocate, che si faceva ripetere tre volte i numeri, per non sbagliare e li scriveva lentamente, lentamente: e uno scialbo tipo di nessuna età, con una faccia dalle linee indecise, una barba dal colore indefinito, uno di quei bizzarri esseri che si trovano a fare da testimoni agli uscieri, da mezzani al Monte di Pietà, da dispensatori di foglietti volanti e da sensali di stanze mobiliate. Don Crescenzo troneggiava sui due giovani. Ma in quel giovedì egli aveva trasformato la sua bottega, elevandovi una tribuna, drappeggiandola di panno bianco e cremisi e invitandovi la sua miglior clientela. Sì, erano tutti , quelli che ogni settimana venivano a deporre il miglior frutto della loro vita, un denaro guadagnato a stento, o strappato alla economia domestica, o trovato a furia di espedienti, prima maliziosi, poi audaci e finalmente vergognosi. Tutti , nel Banco lotto, trasformato in tribuna carnevalesca: il marchese di Formosa, don Carlo Cavalcanti, con la sua aria di gran signore: e il dottor Trifari, rosso di capelli, di faccia, di barba, turgido come se scoppiasse e con lo sguardo infido dei suoi occhi di un azzurro falso; e il professore Colaneri che, in quel giorno, più che mai, manifestava l’indelebile carattere del sacerdote che non ha voluto più saperne della chiesa; e Ninetto Costa che aveva lasciato il Circolo, e don Gennaro Parascandolo, attirato da un desiderio prepotente, invincibile, e altri otto o dieci, un giudice del tribunale, un maggiordomo di casa principesca, un pittore di santi, malaticcio, il barbiere Cozzolino, gran cabalista: perfino, in un cantuccio della bottega, per terra, il lustrino Michele, sciancato, zoppo, gobbo, con le mille rughe della fisonomia di vecchio, pieno di una passione irrefrenabile, e, accanto a lui, Gaetano, il tagliatore di guanti, più smunto, più pallido, con gli occhi ardenti e la scontentezza, l’inquietudine che gli traspariva dal volto, a ogni moto. I clienti di don Crescenzo, nella bottega cara alla loro passione, celebravano il carnevale anch’essi ed essendosi quotati per comperare dei sacchi di coriandoli, ne lanciavano anche loro ai carri, alle carrozze e più ai passanti, dove ogni tanto salutavano una conoscenza. Nessuno si meravigliava di veder gente tanto diversa, un marchese, un agente di cambio, un giudice del tribunale, un medico, un professore e finanche un operaio riuniti . Carnevale, carnevale! La dolce follìa popolare aveva assalito tutti i cervelli, e la tiepida ora, e gli smaglianti colori, e la fantasia dei cento, dei mille veicoli passanti, e il clamore delle centomila persone avevan domato anche quelli che bruciavano di un’altra febbre, un’altra febbre respinta per quell’ora in un cantuccio dell’anima.

Quando passò, a piedi, ridendo e gridando, Cesare Fragalà, in spolverina di tela di Russia, in berretto da viaggio, con due grosse sacche di coriandoli ai fianchi, che vuotava contro i balconi di sua conoscenza e andava riempiendo ad ogni angolo di via, dai venditori ambulanti, scherzando con tutti, grasso, forte, gioviale, con un bisogno di spandere la sua giovialità: quando Cesare passò innanzi alla bottega di don Crescenzo, fu un tumulto di saluti. Già sotto il palazzo Rossi, innanzi ai balconi della sua casa, egli aveva fatto, da basso, mezz’ora di combattimento coriandolesco, con sua moglie e con tutte le amiche di sua moglie: Luisella Fragalà, e Carmela Naddeo, e le Durante, e le Antonacci avevano trovata così originale l’idea di Cesare e così simpatico lui, con quel suo fare, che lo avevano accoppato, a furia di coriandoli: egli aveva dovuto fuggir via, ridendo, abbassando il capo, calcandosi il berretto sulle orecchie. Tumulto di saluti dunque, dalla bottega di don Crescenzo e chiamate, perché andasse anche lui: non era forse anche un cliente, lui, sempre nella speranza di avere le ottantamila lire, in contanti, per aprire bottega a San Ferdinando? Ma Cesare era troppo contento di andare in giro, solo solo, ridendo e strillando con tutti, schiaffeggiato dai coriandoli, rosso, ansante di salute e di allegrezza. Andava, fra i carri, fra le carrozze, portato dalla folla: andava fra un parossismo, che l’ora rendeva più acuto. Oramai i più tranquilli commettevano delle follie e coloro che stavano sui carri, sulle prime semplicemente allegri, adesso parevano tanti indemoniati. In una carrozza era passato Raffaele, detto Farfariello, l’eterno fidanzato dell’appassionata Carmela: egli e i compagni suoi, per farsi veder meglio, avevano pensato di sedersi sul soffietto della carrozza, e salutavano la folla, agitando dei fazzoletti di seta bianca, in punta alle mazze, come bandiere. Ahimè, egli non la vide, la ragazza che lo aspettava da tante ore, all’angolo del vico D’Afflitto, ed ella che aveva gridato, agitato le braccia, agitato una pezzuola bianca, restò stordita, mormorando fra sé, per consolarsi:

- Non importa, non importa

Ma ancora restò , inchiodata, in quel crescendo di frenesia carnevalesca. Sotto il balcone dove era la bella donnina vestita da giapponese, una folla più fitta si assiepava: e allora costei, eccitata, aveva cominciato a far cadere una pioggia di confetti, a manate, a scatole, quasi ne avesse un deposito in casa, prendendoli dalle mani della cameriera che glieli porgeva. Un urlìo di monelli, di popolani entusiasmati saliva al cielo, mentre ella da sopra, seria, seria, ma con una fiamma rossa sui pomelli, buttava giù, disperatamente, confetti, dolci, piccole bomboniere. Sul suo balcone parato di velluto azzurro con la rete di argento, il figlio dell’altissimo personaggio aveva combinato lo scherzo di attaccare una bottiglia di champagne, o un pasticcio di caccia o una grossa bomboniera a una lunga canna e di abbassarli a livello delle mani tese dalla folla, sollevandoli, facendoli danzare, fra gli urli di desiderio della gente di sotto, e le mani alte, e le bocche aperte, fino a che un grande schiamazzo di trionfo, annunziava che un fortunato aveva strappata la bottiglia o la bomboniera o il pasticcio della nova cuccagna: la canna era ritirata e i giovanotti, che prendevano un gusto matto a quello scherzo, vi attaccavano qualche altra cosa da mangiare o da bere, una bottiglia di vino rosso, una forma di cacio ravvolta in una carta d’argento, un sacchetto di confetti, e il giuoco ricominciava, fra un tumulto inaudito, con la circolazione sospesa. Quelli dei carri, oramai, rifornite le provvisioni, mentre la sera si avvicinava, col passo sempre più rallentato, ballavano e cantavano e buttavano roba, dimenandosi come anime dannate.

Fu in questo punto acutissimo della giornata che un nuovo carro sbucò da un vicolo di Toledo, fantastico, bizzarro, giunto in ritardo e trascinato dai cavalli a rilento. Rappresentava l’officina chimico-filosofica, dove lo sconfortato vecchio Faust bestemmia malinconicamente e gelidamente su tutte le cose umane: una camera bruna, con due scansie di libracci, con un fornello e una storta da alchimista, con un Alcoranus Mahumedis, aperto sopra un leggìo di legno scolpito: sullo strano carro un vecchio curvo, con un zimarra di velluto nero e una lunga barba bianco-giallastra, camminava tremolando e gittando alla folla dei balconi e della strada delle bomboniere a foggia di libri, di storte, di alambicchi, di fornelli, dove qua e si vedeva l’immagine di Mephisto, ma che erano riempite di buonissimi confetti. Allora una punta di fantastico si mescolò alla frenesia del carnevale e il carro del mago parve un’apparizione più sovrannaturale che reale. Il vecchio che le donne dai balconi, ridendo, chiamavano il diavolo, crollava il capo canuto coperto da una berretta nera e lanciava giù roba, magicamente cavandola dal sottosuolo del carro. E ogni tanto, fra il clamore del popolo, una voce sopracuta dirigendosi al decrepito mago, gridava:

- I numeri, i numeri, i numeri!

E quando, giunto a San Ferdinando, il carro di Faust voltò per rifare la strada fatta, sin sopra Toledo, fu vista una cosa curiosissima, indescrivibile. Cavandoli da un alambicco di rame, insieme alle bomboniere, il vecchio mago buttava alla folla e ai balconi, dei fogliolini lunghi e stretti, di carta gialla, su cui la gente cominciò a buttarsi furiosamente: e un grido precedeva, accompagnava, seguiva il carro di Faust:

- Gli storni, gli storni, gli storni!

Per realizzare una generosità nova, fastosa, bizzarra, e cara al popolo, il vecchio buttava dei polizzini di lotto da due e tre numeri, già giuocati, per il prossimo sabato, giuocati a due soldi l’uno: un biglietto che è detto storno e di cui egli magnificamente gittava al popolo delle centinaia, ridendo nella sua folta barba bianca, scordandosi che era vecchio, per rizzare il capo con una gaiezza feroce.

Oh che lungo grido, dovunque, nella via, per le finestre, per le logge, per i balconi, sino al cielo che si facea bianco nel tramonto: che lunghissimo grido di desiderio e di entusiasmo, di tutta una popolazione, che alzava le mani e le braccia, come se dovesse abbracciare la terra promessa, che si gittava a terra, si calpestava, per strappare furiosamente un polizzino del lotto, dove era una ipotetica promessa di dieci lire o di duecento lire di vincita! Oh che furore giocondo di uomini, di donne, di fanciulli, poveri e ricchi, bisognosi e agiati, che impeto invincibile che rispettava, per una sacra paura, il carro del mago, ma che gli faceva un trionfo, una gloria di acclamazioni, da un capo all’altro della via Toledo, quando egli aveva buttato alla folla diecimila polizzini, quando già egli era scomparso, senza che niuno sapesse dire come e dove.

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Antonio Amati incontrò per le scale la cameriera Margherita che rientrava anch’essa, un po’ stracca. E bruscamente, mentre forse non avrebbe voluto parlarle, le domandò:

- Come sta la vostra signora?

- Meglio, - disse a bassa voce la vecchia domestica, - perché Vostra Eccellenza non è più venuta a vederla?

- Io ho molto da fare, - borbottò il dottore, senza suonare però alla sua porta.

- È vero: ma Vostra Eccellenza è così buona.

- Poi, non vi era bisogno di me… - soggiunse lui, esitando.

- Eh, chi sa! - ribattè anche più sottovoce, e in tono misterioso Margherita. - Perché non entra adesso Vostra Eccellenza?

- Verrò, -. disse lui, chinando il capo, come se cedesse a una volontà superiore.

Ella introdusse una chiave nella serratura e aprì, precedendo, nel silenzio della casa, sino al salone, il dottore: ed egli, che pure era avvezzo a dominare immediatamente le proprie impressioni, sentì il freddo il silenzio, il vuoto di quel camerone. E si trovò innanzi la fanciulla, vestita di nero, che gli sorrideva vagamente, tendendogli la mano. Una manina lunga e fredda, che egli trattenne un minuto fra le sue, con la confidenza più del medico che dell’amico.

- Siete guarita? - parlò lui, a bassa voce, subendo l’intimidazione dell’ambiente.

- Non completamente, - diss’ella, con la sua voce pura e stanca. - Ebbi ancora un deliquio, una notte. Ma breve assai: credo, almeno.

- Non vi soccorsero? - disse lui, con un rammarico profondo.

- No, non se ne accorse nessuno: era notte, in camera mia… Non importa, - soggiunse poi, con un lieve sorriso.

- Perché non siete andata in campagna?

- Mio padre odia la campagna… - mormorò ella - e io non lo lascerei qui, solo.

- Ma perché non siete uscita: oggi è carnevale, perché non siete andata a vedere? Volete morire di malinconia?

- Mi avevano invitata, giù, dalla signora Fragalà: ma la conosco appena. Credo che bisognasse mascherarsi: mio padre non ama queste cose, ha ragione

Parlava con la sua bella voce dolce che una stanchezza spezzava, e Amati che era stato tutto il giorno a lavorare, all’ospedale e al letto degli ammalati, mentre tutti godevano il carnevale, riposava nell’armonia di quella voce e nella quiete stanca e languente di quella delicata giovinezza. Erano soli, seduti uno di fronte all’altro, in un gran silenzio, intorno: si guardavano appena, ma si parlavano come due anime che lungamente avessero vissuto insieme, nella gioia e nel dolore.

- Dove eravate, poc’anzi? - domandò Antonio Amati, bruscamente.

- Nella cappella, - rispose Bianca Maria, senza offendersi della domanda.

- Pregate molto?

- Non abbastanza, - disse ella, levando gli occhi al cielo.

- Perché pregate molto?

- Bisogna…

- Voi non fate peccati… - mormorò il miscredente, tentando di scherzare.

- Non si sa - disse lei, gravemente. - E bisogna pregare per tutti quelli che non pregano.

E così dicendo, lo guardò fuggevolmente. Egli chinò il capo.

- Passate troppe ore al freddo, in chiesa. Ciò vi nuocerà, signorina.

- Non credo: e poi, che importa?

- Non dite questo, - interruppe lui, subito.

- Poche cose mi possono far male, - soggiunse lei, con una intonazione che egli intese e che non volle approfondire.

- Andiamo, andiamo a vedere il carnevale dalla signora Fragalà, al primo piano, che ha invitato anche me, - e si levò, con un atto energico, a portarla via.

- Restiamo qui, - ribattè Bianca dolcemente - qui vi è pace almeno. Non vi pare che sia buona anche questa calma, questo silenzio?

- È vero, è vero, - confessò Amati, sedendosi di nuovo, soggiogato.

- Mio padre è uscito coi suoi amici, - continuò lei, quietamente - per vedere il carnevale. Nel palazzo tutti sono fuori ai balconi, che dànno a Toledo, o fuori di casa: e qui, lo vedete, non giunge alcun rumore.

Si guardarono così, puramente. Quella strana ora di deliquio in cui egli l’aveva salvata e in cui ella aveva inteso di esser salvata da lui, aveva stabilito fra loro come una vita anteriore. Quello che ella sentiva era un umile bisogno di protezione, di assistenza, di consiglio: quello che lui sentiva, era un tenerissimo sentimento di pietà. E non potette frenare una domanda che gli ronzava nell’anima.

- E vero che volete farvi monaca? - egli chiese, con voce un po’ soffocata.

- Vorrei, - diss’ella, semplicemente.

- Perché?

- Per questo, - soggiunse, con la gran risposta dei cuori femminili.

- Perché dovreste farvi monaca? Nessuna si fa più monaca. Perché dovreste voi farvi?

- Perché se vi è una sola persona al mondo che dovrebbe entrare in convento, io son quella; perché io non ho né desiderii, né speranze, né nulla innanzi a me; e perché quando si è così, vedete, attraverso questo vuoto, questo deserto, questa desolazione, prima della morte, bisogna mettere almeno la preghiera.

Non dite questo, - supplicò lui, come se per la prima volta il soffio della fatalità avesse alitato sulla sua energia, distruggendola.

 

 



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