Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Il paese di cuccagna
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10 - MAGGIO E IL MIRACOLO DI SAN GENNARO

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10 - MAGGIO E IL MIRACOLO DI SAN GENNARO

 

Il dolce aprile aveva fatto sbocciare tutti i fiori dei giardini, degli orti, delle terrazze e dei balconi napoletani: dovunque vi era un po’ di terra, riscaldata dal sole, irrorata dalle brine, era spuntato un fiore. Fiori semplici, fiori grezzi, fiori di popolo, tutta una flora umile, senza raffinatezze, senza squisitezze composite di tinte e di profumi: ma vivace, ma calda, ma sgorgante dalla terra, con violenza di vegetazione, ma folta di petali carnosi. Aprile aveva fatto sbocciare le grosse rose odorosissime, larghe, che avevano il vivido colore palpitante di sangue: e i garofani, amore delle popolane, i garofani bianchi, rossi, screziati, scritti come li chiamano poeticamente, quasi quelle screziature fossero mistiche parole: e le viole semplici e doppie, bianche, gialle, rosse, amore delle ragazze borghesi che le coltivano sui balconi settentrionali e umidi di via Foria: e la malvarosa, dalle frondi verdi profumate, dal piccioletto fiore roseo: ma sopratutto, dovunque, ancora le rose e i garofani, le magnifiche rose vellutate, quasi procaci, e i garofani così ricchi e grassi che facevano scoppiare l’involucro verde.

Nelle piazze umide e scure dei quartieri bassi, da Santa Maria la Nova a piazzetta di Porto, da piazza San Giovanni Maggiore a piazza Santi Apostoli, in tutti quei rioni fra popolari e claustrali, fra borghesi e archeologici, andavano girando i venditori ambulanti di rose: certi venditori curiosi, dalla grande canestra piena di rose recise e di rose in pianticelle, il cui terriccio delle radici è avvolto in una foglia di cavolo, dalla lunga voce così patetica, che arriva al cuore di tutte le fanciulle sentimentali. Il venditore di rose arrivava in una delle piazzette, sempre bagnate, sempre sporche di un’acqua nera, posava per terra la sua canestra di rose e cantava, cantava, con la voce melanconica, a distesa: Sono belle le rose, sono belle le rose; e dalle botteghe, dai portoni, dai balconi, spuntavano le teste delle donne, attirate dalla lunga cantata, mesta ma piena di una profonda, quasi sofferente voluttà. E chiunque aveva quattro soldi, tre soldi, un solo soldo, comperava quelle rose, in pianticelle per adornare la terrazzina, il balcone, o le rose recise per metterle innanzi alla immagine della Madonna e dopo, quando appassivano, per isfogliarle nei cassettoni della biancheria. Il venditore di rose, venduta una parte della sua mercanzia, levava su la canestra, sul capo, e allontanandosi, riprendeva, alla lontana, il suo ritornello triste e voluttuoso, dove si decantava la beltà delle rose.

E in quel giorno caldo di calendimaggio, portavano una rosa in mano, tutte le belle sartine che erano uscite per far commissioni, e che avevano trovato, per caso, l’innamorato, alla cantonata; portavano un garofano rosso sulla camiciuola di mussola bianca, tutte le popolane che si aggiravano nelle strette vie intorno a Forcella; portavano rose i bimbi che erano usciti dalle scuole e che si attardavano per le strade, e avevano dei fiori finanche le serve, sul paniere di paglia della spesa, o sul fagottino della carne e della pasta, avvolto in un tovagliuolo bianco. Certo, la sentimentalità poetica non era la sola sorgente che spargeva tutti questi fiori, dovunque, alle cantonate delle vie, nelle mani delle donne e dei fanciulli, sulle ceste dei panni di bucato delle lavandaie, sui sacchi di farina del farinaio, accanto alle frutta, accanto ai pomidoro, nelle botteghe del gran friggitore, al Purgatorio ad Arco, e in quella del gran robivecchi all’Anticaglia: era l’abbondanza delle rose e dei garofani, che si avevano per un soldo, che si avevano per un sorriso, per una parola e che parevano una cosa preziosa, a tutta quella minuta gente, amante del colore e inebbriantesi facilmente del più lieve profumo. Calendimaggio! In quel pomeriggio, molte case brune e tristi di via Trinità Maggiore, di Forcella, di via Tribunali, di via San Sebastiano, di San Pietro a Maiella, oltre ai fiori che ne adornavano le terrazze e i balconi, avevano messo fuori delle ringhiere dei drappi di colori vivi, coltri di damasco rosso, di quel rosso cremisi antico, coltri di broccato giallo, proprio la tinta vivacissima del botton d’oro, tappeti di raso azzurro gallonati d’oro e d’argento, strisce di stoffe variopinte, conservate da anni e anni nelle casse.

La gente che abita quei palazzoni alti, neri, malinconici, che hanno il sole solamente sul terrazzo, è una gente aristocratica, di una vecchia aristocrazia clericale assai devota, assai pia, che sente l’influenza di tutte le grandi chiese antiche, intorno, il Gesù Nuovo, Santa Chiara, San Domenico Maggiore, San Giovanni Maggiore, la Pietra Santa, le Sacramentiste, i Gerolomini, Sansevero, Donnaregina, e finalmente l’influenza del vecchio Duomo la grande vecchia cattedrale, così antica che dicono fosse un tempio del Sole, quando Napoli era pagana, anzi nei primi tempi del suo paganesimo. La gente di quelle alte e oscure case, è anche una borghesia ricca, antica e severa, che ha serbato i costumi e le tradizioni pietose degli avi borghesi e che ha tendenze monastiche, nella sua rigidità. Questa gente, in quel giorno lieto di calendimaggio, aveva cavato fuori dalle casse, dove riposavano fra i pezzetti di canfora, i drappi di seta, comperati dalla grande seteria che Ferdinando di Borbone aveva stabilito nel villaggio di Terra di Lavoro, in quel San Leucio così ridente, così lieto nelle sue fabbriche, comperati in occasione di nozze, di battesimi, per adornare le cappelle private, gli oratorî di quella buona e severa gente aristocratica e borghese, gente pietosa, che ha la fede ereditata col sangue, e che nasce, vive e muore senza dubitare mai un minuto, mettendo tutta la forza repressa della fantasia in quel grande sogno mistico che va dai terrori dell’inferno alle supreme estasi del paradiso, che ha orrore del purgatorio quasi ne sentisse le fiamme vive sulla carne, e che sognando, sognando, arriva sino all’ultimo minuto, chiudendo gli occhi in una invincibile speranza.

Accanto alle rose di maggio, accanto ai cespi folti di garofani rossi che germogliavano sui balconi, malgrado l’assenza del sole, questa pia gente aveva, in quel calendimaggio, messa la gala dei suoi broccati, dei suoi damaschi, delle sue sete marezzate. Calendimaggio! Il buio delle vie della vecchia Napoli, era tutto rallegrato da quella ricchezza popolana di fiori freschi odoranti, di cui qualche petalo sfogliato cadeva, sulle bigie pietre di lava vesuviana: e poiché vi erano tanti fiori, dappertutto, pareva che vi fosse anche il sole; e il sole s’indovinava lassù, lassù, dove finivano le due file strette degli alti palazzi, nella striscia limpida di un cielo mollemente azzurro, il grande azzurro tenue della primavera. Pareva che vi fosse, giù, in quei budelli che sono via Tribunali e via Forcella, il biondo sole, poiché tanti panni colorati, tanti vividi drappi ondeggiavano dai balconi, dalle finestre, dalle terrazze. Massime in piazza San Domenico Maggiore, i palazzi De’Sangro e Saluzzo, antichissimi, erano adorni di broccati magnifici; e finanche il palazzo Sansevero che si nasconde nel vicoletto nero di Sansevero, con un supportico tetro, era tutto smagliante di antiche stoffe. I fiori freschi, nelle botteghe, sui balconcini delle povere case che si alternano, nella vecchia Napoli, coi palazzi magnatizii, sulle terrazzine sospese in aria, fra cielo e terra, i fiori portati dalle donne, dai bimbi, dai lavoratori umili, dagli operai, finanche dai pezzenti, i fiori freschi, erano la festa che faceva il popolo al protettore di Napoli: come lo spiegamento dei drappi serici, dei damaschi intessuti con l’oro e con l’argento, degli arazzi nobileschi, era la festa che faceva la vecchia nobiltà napoletana e la gran borghesia napoletana, al gran protettore di Napoli.

Calendimaggio è bello, in Napoli, per il soffio carezzoso dell’aria, per le vivide strisce di cielo azzurro, che finiscono per dar gaiezza alle strade più tetre e più cupe: è bello calendimaggio, per le rose che germogliano da tutte le parti, che pare sgorghino finanche dalle mani delle donne e dei fanciulli, per tutti i semplici fiori dei giardini e degli orti: è in calendimaggio, che le reliquie di san Gennaro son portate dal Duomo, dove sono preziosamente deposte nei sotterranei che portano il nome di Succorpo e Tesoro di San Gennaro, alla chiesa di Santa Chiara, perché il santo si degni, pregato dalla popolazione, di fare il miracolo della ebollizione del sangue.

La testa del vescovo di Pozzuoli, tagliata dalla scure del carnefice, è messa in una maschera di oro antico: porta la mitria vescovile, di oro, tutta ricca di gemme preziosissime, scintillante di mille fuochi. L’altra reliquia, è il sangue coagulato, contenuto in un’ampollina di cristallo finissimo: nel sangue coagulato vi è ferma, di traverso, una pagliuzza, visibilissima nel grumo nerastro e freddo, raccolto dalla pia gente che assistette al martirio del vescovo e conservato pietosamente; è nel giorno quattro di maggio, nel calendimaggio fiorito e odoroso, che queste reliquie vanno portate in trionfale processione, dalla Cattedrale alla chiesa di Santa Chiara.

Ora, quell’anno 188…, pareva che più rigoglioso fosse nato nel cuore del popolo il fiore della fede, che più vivida sgorgasse la devozione per il patrono della città: poiché dalle due pomeridiane la folla accorreva, accorreva alla vecchia Napoli, assiepandone le vie strette, assiepandone le viuzze e i vicoletti, e gli angiporti. San Gennaro è profondamente popolare a Napoli, più assai, centomila volte di più che il vero primo vescovo di Napoli, sant’Aspreno. Ma chi si rammenta sant’Aspreno? Egli è uno degli obliati del martirologio, che ha anche i suoi naufraghi nel gran mare dell’oblio: la piccola chiesa di Sant’Aspreno, in una viuzza del quartiere Porto, è sotterranea, e vi si accede per trenta scalini, sotto il livello del suolo: è una piccolissima chiesa, solo un oratorio, grezzo, buio, umido, pauroso, in cui si venera il bastone di sant’Aspreno, il baculo del pastore, del primo pastore napoletano. Ma chi ci va, da sant’Aspreno? Pochi devoti e qualche appassionato di cose archeologiche. San Gennaro, prima di tutti gli altri santi, più di sant’Anna, la vecchia potente, più di san Giuseppe, il patrono della buona morte, subito dopo la Madonna Immacolata e l’Eterno Padre che si venera nella chiesa di Santa Chiara, san Gennaro ha per sé la devozione di tutti gli umili cuori napoletani. Anzitutto egli era napoletano, nato in quel negro e male odorante quartiere del Molo Piccolo, dove ancor vivono, pare, i suoi discendenti, che si gloriano di un tale antenato: era di gente popolana: la sua discendenza consiste in alcune vecchie donne, operaie, che dividono il loro tempo fra il lavoro e la preghiera, facendo la vita spirituale, tentando di raggiungere, nella perfezione della pietà, almeno, il loro grande avo, napoletano e popolano, il glorioso san Gennaro, il vescovo che subì il martirio. Gli tagliarono la testa, gli infedeli a Pozzuoli sopra una gran pietra di marmo, che si conserva ancora e su cui si vede una larga chiazza e tre rivoli di sangue, sino giù; la testa recisa, buttata in mare nuotò da Pozzuoli a Napoli, cosparso il volto dell’orribile pallore della morte. Né da quel giorno in poi, che la testa del santo fu raccolta e serbata, e il sangue coagulato messo in un’ampollina, il santo non ha mai cessato di proteggere Napoli. Nel sobborgo marittimo della città, sul ponte della Maddalena, dove dovrebbe passare il picciolo fiume Sebeto, in un tabernacolo di pietra, sorge la statua del santo patrono, in marmo, guarda il Vesuvio presso, e sta con due dita levate, in atto di comando. Il patrono ha impedito, con quell’atto, alla lava di entrare in Napoli, nelle tremende eruzioni vesuviane: giammai la lava oserà varcare quel limite: san Gennaro con le dita alzate, dice: non andrai più oltre. E dai tempi antichissimi, due volte l’anno, nel dolce settembre, in cui ricorre il suo onomastico, e nel fiorito calendimaggio, san Gennaro fa il miracolo della ebollizione del suo sangue, innanzi al popolo. Mentre qui, a Napoli, il sangue dell’ampollina si mette a bollire, agitando la pagliuzza che stava immobile nel grumo secco e freddo, il sangue si mette a fluire, fresco e vivido, sulla pietra di marmo di Pozzuoli, e chi ha gli occhi puri e veggenti della fede, stando sulla riva, vede venir nuotando, miracolosamente, una testa livida recisa, da Pozzuoli a Napoli. Ogni anno, il miracolo si ripete due volte: e quando ritarda dall’ora consueta, è mal segno, l’annata sarà trista: se non dovesse farlo, il miracolo… ma il patrono non sa abbandonare la sua fedele città. Nelle eruzioni, nelle epidemie, nei terremoti, sempre la sua mano si è levata a temperare, a vincere il flagello; e ogni persona di popolo, oltre la gran leggenda miracolosa, ha la sua leggenda particolare da narrarvi. Il gran santo era napoletano, popolano, e povero: non vi è stato re, non vi è stato principe, non vi è stato gran signore che dopo aver visitato san Gennaro nella sua cappella, non abbia aggiunto un dono vistoso alle ricchezze che il patrono possiede; e il popolo napoletano, per vantare il santo, va dicendo con orgoglio e con tenerezza: pure Vittorio, pure Vittorio! Il che significa che anche il gran re ha portato il suo dono al patrono. Altre volte, vi erano i cavalieri di San Gennaro; e il Tesoro del santo era custodito con grande pompa gerarchica, con consegna di chiavi, solennemente. Ora non vi sono più i cavalieri, o, meglio, l’ordine è abolito: e l’antica pompa patrizia è un po’scemata. Che importa? Il santo è più che mai forte, potente, miracoloso, messo nel cuore del popolo, come in un inviolabile tabernacolo.

Più rigoglioso, in quell’anno, sorgeva l’affetto del popolo per san Gennaro, come se un novello impeto di fede avesse ingagliardito le buone anime popolane: a una certa ora, la circolazione delle carrozze fu impedita, per Forcella e per i Tribunali: e tutti coloro che in quel giorno partivano da Napoli o vi arrivavano, per andare dalla stazione alla città, o dalla città alla stazione, dovevano fare un lungo giro, per la via Marina, o per la via di Foria. Al passeggiero distratto che domandava la ragione dell’interminabile cammino, il cocchiere rispondeva: San Gennaro, e si toccava il cappello con la frusta, per salutare il patrono. E cercava di affrettare il passo del suo cavallo, non per zelo, ma per andarsene anche lui, il cocchiere, dopo aver messa la carrozzella in un portone, o dopo essersi fermato con essa, in un cantone di via, a veder passare il glorioso Sangue di San Gennaro. E se tutte le vie piccole erano fitte di gente, se tutti i balconi sontuosi e i balconcini poverelli delle grandi case patrizie e delle misere case che sorgevano loro accanto, erano gremiti di persone, nell’ampia via del Duomo lo spettacolo della folla era imponente. La grande strada che unisce la collina al mare, con una discesa troppo ripida, da via Foria alla Marina, e che è stato il primo taglio chirurgico attraverso la vecchia Napoli, taglio energico mal fatto, un po’brutale, un po’ridicolo come architettura, ma certamente salutare, la gran via del Duomo che è la Toledo dell’antica Napoli, aveva la maestà delle grandi giornate napoletane, in cui la fiumana di popolo fa paura anche ai fieri misuratori della folla. Vi era gente sino ai Gerolomini e sino al Pendino, in sotto e in sopra, e nei due portici che sono a destra e a sinistra del Duomo, e sull’ampia scalinata, e sui lampioni del gas, e infine sulla impalcatura che da anni copre la facciata della cattedrale, per le rifazioni, vi era gente, stretta, pigiata, soffocando all’aria aperta, gente attaccata a un fusto di ferro, a un trave, reggendosi in bilico, miracolosamente, sopra una tavola di legno malferma.

Ogni tanto, una madre, tra la folla, levava in aria un bimbo per farlo respirare più liberamente, e il bimbo agitava le gambine e le braccia, giocondamente, per quello slancio, nell’aria dolce di calendimaggio. Invano gli scaccini del Duomo tentavano di far largo, perché la processione già era formata nella chiesa: la folla, un momento respinta, tornava alla carica, con una spinta così forte, che andava a battere contro la facciata della chiesa. A un tratto da sotto l’arco nero della grande porta spalancata, dove qualche cero, in fondo brillava, si udì un salmodiare grave grave, e la testa della processione apparve, fra il gran silenzio e la immobilità della folla. Lentissimamente, con un moto quasi impercettibile, procedevano in avanti gli ordini religiosi napoletani. Monaci bianchi, e neri, e marrone, monaci scalzi o con gli zoccoli, col cappuccio o con lo zucchetto, che cantavano le laudi del Divo Gennaro, con gli occhi vaganti, coi cerei inclinati, la cui tenue fiammella non si vedeva, divorata dalla grande luce pomeridiana e che un monelletto scortava, per raccogliere in una carta le grosse goccie di cera che cadevano dai cerei: domenicani, benedettini, francescani, verginisti, missionari, gesuiti, monaci e preti, in due file trascorrenti, portati fra la folla, non guardandola, fissando un punto lontano dell’orizzonte, fissando la terra: e tutte le bocche erano schiuse al canto, alla salmodia latina, schiuse con una linea severa, grave, come il canto che ne usciva e ondeggiava, con severa intonazione, sulla testa della folla: e involontariamente, mentre gli ordini religiosi scendevano con un moto impercettibile verso Forcella, nella folla, i devoti che conoscevano le preghiere latine dedicate al Divo Gennaro, si univano al canto grave delle corporazioni religiose, e un’altra larga parte della folla, eccitata dall’aria, dalla luce, dal canto altrui, schiudeva la bocca a intonare anch’essa una salmodia senza parole, in preda a un principio di mistica tenerezza, e dal basso di via del Duomo, la processione e la folla, che si avanzavano insieme, erano un seguito di bocche aperte, mille bocche, duemila bocche che cantavano gravemente e il cui gran rumore si perdeva nell’ampio cielo. Ma quelli che procedevano verso Forcella, non lasciavano via Duomo libera, poiché il loro posto era preso da nuovi accorrenti, che spingevano avanti gli altri, e a un tratto, passata la sfilata dei parroci della città, passati i canonici dell’antica chiesa di San Giovanni Maggiore, vi fu come un lieto tumulto fra il popolo, un movimento immenso di attenzione e di soddisfazione. Era la lentissima sfilata dei santi che fanno compagnia e onore a San Gennaro, nella sua cappella: quarantasei santi di argento, la statua intiera, o il busto, o la metà del corpo. Questi santi erano posati sopra certe barelle, portate da quattro facchini, sulle spalle; e fra la gente, i facchini scomparivano, tanto che parea il santo andasse miracolosamente da solo, sopra le teste delle persone, tutto scintillante. Lentissimamente, dico, poiché la folla era così folta, così soffocante che, ogni tanto, queste statue si fermavano, immobilizzate, mentre la gente le guardava con gli occhi inteneriti; ed anche lentissimamente, perché la devozione dei napoletani si vuol pascolare a lungo, nella vista dei suoi speciali protettori, che tutto l’anno sono chiusi nel Tesoro e solo, in quel giorno, escono a benedire la povera gente.

A ogni santo che appariva sotto la vôlta nera della gran porta e penetrava fra la gente, per andarsene anch’esso, verso Forcella, alla chiesa di Santa Chiara, era uno scoppio di clamore, fra la gente. Il primo era l’altro patrono di Napoli, quello che viene subito dopo san Gennaro, nella protezione della città, sant’Antonio, eremita, che porta un bastone con un campanello risuonante, in cima, e accanto gli si vede la testina d’argento dell’animale che egli amò. Quel campanello ondeggiava, a ogni ondeggiamento del santo, sulla testa delle persone e squillava, squillava, allegramente, mettendo una gaiezza fra la gente che gridava:

- Sant’Antuono, Sant’Antuono!

Commossa, quasi singhiozzante, Carmela la sigaraia si raccomandava a sant’Antonio; anche lui, il santo, si era innamorato di una brutta bestia, come lei, che amava quel cuore ingrato di Raffaele detto FarfarieIlo, e respinta fin dentro la bottega dell’ufficio telegrafico di via Duomo, ella con la faccia stravolta dove erano impresse, sempre più, le durezze e le privazioni della sua vita, ella guardava la scintillante faccia d’argento del santo che aveva resistito a tutte le tentazioni, e lo scongiurava di toglierle quell’amore dal cuore, di toglierle la tentazione dell’amore, che in lei raddoppiava i morsi della miseria.

- Sant’Antuono, sant’Antuono, - gridava la folla, al santo che si allontanava.

- Sant’Antuono, liberatemi, - singhiozzava Carmela, nella strada, senza accorgersi di quel grido o di quel singhiozzo che tutti i vicini udivano.

Ma in Napoli, in chiesa o nelle vie, si prega ad alta voce. Adesso era comparso, snello, alto, in una posa sfolgorante di vittoria, con la corazza fulgida che ne stringe il corpo giovanile, con l’elmo sulla testa bella e lieta di trionfo, con il piede che schiaccia il dragone, con la lancia impugnata a ucciderlo, era apparso l’arcangelo Michele, il guerriero invitto, l’arcangelo Michele che appariva circonfuso di una luce mistica e guerresca, da eroe e da santo. E nel vederlo apparire, così leggiadro e spirante trionfo, con il diavolo che gli si torce inanemente sotto il piede, l’entusiasmo dei devoti si complicò di una forma artistica: san Michele fu chiamato da migliaia di voci.

Addossato a una colonna del porticato, a destra del Duomo, il marchese di Formosa aveva cavato il cappello e salutato profondamente l’apparire del folgorante arcangelo Michele, a cui era devoto, tanto nel suo carattere violento e avido di lotta, gli piaceva quel miscuglio di cherubino e di eroe: e mentre il bello e splendido santo si avanzava, si avanzava, calpestando il dragone, eternamente vittorioso, il vecchio marchese pregava fra sé, fervidamente, appassionatamente, perché gli fosse dato di vincere il dragone che gli si avventava ogni contro, sotto la forma della miseria, dell’onta e della morte; pregava il grande Michele, il debellatore del diavolo, di prestargli la sua santa lancia per uccidere il mostro che minacciava di vincerlo. San Michele scendeva anche lui, per via del Duomo, dalla collina al mare, ed era così bello, così fiammeggiante di gloria nella luce pomeridiana, che le tre sillabe del suo nome si ripeteano, continuamente, da su in giù, come il fuoco che divora la lunghezza di una miccia:

- Michele, Michele, Michele!

Ma una gran diversione la fece san Rocco, il salvatore degli appestati, il protettore del popolo contro tutte le epidemie: san Rocco è vestito da pellegrino, porta il mantello con la cappa, il bordone, e sollevando la sua tonaca, mostra un ginocchio nudo, dove è scolpita una piaga, immagine della peste: e dietro di lui viene un cane fedele, così fedele, che per indicare due indivisibili si dice, nel popolo: santo Rocco e il cane. E quest’amicizia così forte, e la figura un po’curiosa del santarello, col suo mantelletto e il suo canino dietro, tutta questa storia familiare, provocò una certa ilarità tenera, che si comunicò da una persona all’altra, tra la folla: santo Rocco pareva un buon amico di tutta quella gente, un caro amico indulgente con cui fosse permesso scherzare poiché egli è incapace di andare in collera:

- Hai freddo al ginocchio, santo ?

- , , canuccio!

- Prestami questo soprabito, santo !

Ma i veri devoti, scandolezzati, imponevano silenzio. Era comparsa, vacillante sulle teste dei facchini che la portavano, la bellissima santa che fu peccatrice, Maria Maddalena penitente, coi bei capelli, che le piovevano sul collo e gli occhi irrorati di lacrime metallizzate; dietro di lei, per un bizzarro ravvicinamento, veniva la statua dell’altra santa che era stata una peccatrice, Maria Egiziaca, divorata, consunta da una passione non meno ardente della passione di Maddalena: una specie di sorda convulsione agitò tutti quelli che vedevano passare in mezzo a loro le due statue: una sorda convulsione, che non ebbe scoppio. Sull’amplissimo ultimo scalino della gradinata, sotto l’impalcatura di legno che copre la facciata del Duomo, Maddalena, la infelice sorella di Carmela la sigaraia, Maddalena con la gonna di lanetta azzurra, la baschina di seta grigia e con un nastro rosso al collo, coi capelli stirati sul vertice del capo, con le guance cariche di rossetto, senz’udire le parole insinuanti, insolenti, di coloro che la circondavano, si rialzava sulle spalle lo sciallo di crespo nero, ricamato di rosa e di violetto, e pregava, pregava le due sante, peccatrici come lei, ma sante, che nel nome di san Gennaro benedetto le facessero la grazia di levarla da quella infame esistenza, e avrebbe offerto loro, a Maria Maddalena e a Maria Egiziaca, un cuore di argento massiccio. Ma una grande fluttuazione vi fu, fra le donne che erano nella folla, sui balconi, nei portoni, sulle terrazze. Dopo san Giuseppe e dopo sant’Andrea Avellino, ambedue protettori della buona morte e quindi carissimi agli immaginosi napoletani che hanno la più grande paura della morte; dopo sant’Alfonso de’Liguori, che viene dolcemente e familiarmente chiamato cuolIo storto, perché ha la testa inclinata sopra una spalla; dopo san Vincenzo Ferreri che porta la fiamma dello Spirito Santo sulla testa e ha il libro della Legge aperto fra le mani; dopo che tutti questi santi popolarissimi erano passati fra le esclamazioni, i gridi, i sorrisi, le tenere invettive, un bel santo, così lucido, che pareva allora allora uscito dalle mani del cesellatore con la faccia rotonda e bonaria, con le mani schiuse e abbassate quasi a lasciar piovere grazie, era comparso, uscendo dal Duomo. Era san Pasquale Baylon, il santo protettore delle ragazze, quello cui esse fanno la novena per trovar marito, san Pasquale che manda il marito alle fanciulle, un santo accomodante, giocondo: e tutte le zitelle ne conoscono l’effigie, tutte lo riconobbero, quando egli apparve. E da un balcone dove era un’insegna di sarta, madama Juliano, dove stavano Antonietta, la bionda sartina con la sua amica Nannina, dalle mani della bionda Antonietta cadde, lentamente roteando, una rosa sul braccio di san Pasquale e tutte sentendo l’omaggio, il desiderio, in quell’atto, dai balconi, dalla via, una gran quantità di rose e di garofani furono lanciati a san Pasquale.

-… come voi, tal quale, o beato san Pasquale, - pregavano le ragazze, alludendo al marito.

Ora la processione si affrettava un poco; i santi passavano più presto, poiché l’impazienza della folla innanzi alla Cattedrale e per tutta la via del Duomo era diventata enorme. Correvano grandi brividi fra la gente: tutto quello sfolgorio di aureole di argento, di facce di argento, di mani di argento, tutto quel passaggio singolare sulle teste delle persone, e quell’allontanarsi laggiù, verso Forcella, e le continue nuove apparizioni argentee, nel grande vano nero della porta della cattedrale, avevano creata una emozione nervosa anche negli spettatori tranquilli. Cesarino Fragalà e l’assistito Pasqualino De Feo si erano fermati. anch’essi. sulla soglia di un caffeuccio, aspettando di veder passare la processione; e il mite pasticciere, che fuggiva oramai ogni giorno, quando poteva, la sua bottega di dolci per seguire il misterioso e scarno assistito, aveva una faccia dove, all’antica giocondità giovanile e alla sicurezza della vita, si mescolava non so quale pallore morboso: una grave cura ne induriva le linee, ogni tanto. L’assistito, che ogni settimana pompava denari da tutto il gruppo dei cabalisti e da altri ancora, continuamente, aveva sempre quei suoi vestiti lerci e stracciati, quella sua biancheria non inamidata, sfrangiata al colletto e ai polsini, quelle sue cravatte aggrovigliate come un lucignolo, quella faccia gialla di febbricitante mal rimesso in salute, dove un sangue color mattone, indebolito, corrotto, veniva a mettere delle striature, simili ai filamenti malaugurati dello scirro. L’assistito si portava dietro, ormai, continuamente, Cesarino Fragalà, che si sforzava, col suo semplice cervello di commerciante, a tener dietro alle fantastiche elucubrazioni di don Pasqualino, non intendendole, arrovellandosi, prendendosela con sé stesso, per la sua mancanza di lucidità, per la sua mancanza di visione, accusando il proprio temperamento, troppo vivace, troppo sano, troppo grossolano, di non poter capire le malaticce spirituali raffinatezze di colui che aveva la fortuna di essere visitato e assistito dagli spiriti. Ora, don Pasqualino, assai chiaramente e a tutt’i suoi devoti, aveva detto che una gran fortuna sarebbe capitata loro, in quel sabato di maggio, consacrato al Prezioso Sangue di san Gennaro. Avidamente avevano intesa la parola, i giuocatori: da tante settimane, da tanto tempo, non avevano guadagnato un centesimo, i cabalisti! Salvo Ninetto Costa, l’agente di cambio che aveva fatto un grosso guadagno, con certi numeri datigli da un garzone vinaio, che era venuto a portargli una fattura da saldare, salvo l’avvocato Marzano che aveva preso un ambo di cinquanta lire, datogli dal ciabattino, nessun altro aveva guadagnato niente, malgrado il frate Illuminato, malgrado l’assistito, malgrado gli spiriti buoni e cattivi, malgrado tutte le preghiere e tutte le cabale.

Adesso, don Pasqualino che aveva succhiato molte ma molte centinaia di lire, in quell’inverno e in quella primavera, aveva detto che san Gennaro certamente avrebbe fatto una grazia, in quel primo sabato di maggio, e tutti i cabalisti ci avean creduto ed erano sparsi qua e , tra la folla, per la via del Duomo, essendosi dati convegno pel vespero, a Santa Chiara. Ma Cesarino Fragalà, che più s’ingolfava nel vortice del giuoco e più si aggrappava all’assistito, avendo giuocato molto anche in quel sabato, non lo voleva lasciar più. Sottovoce, fra la gente, appena qualche santo compariva, l’assistito volgeva gli occhi al cielo e pregava fervorosamente: accanto a lui, distrattamente, Cesarino Fragalà si segnava. E tendeva l’orecchio, con ansiosa attenzione, alle parole che l’assistito pronunciava, quando un santo appariva. Ora passava santa Candida Brancaccio, una delle prime martiri cristiane napoletane, una giovanetta che guardava il cielo e che teneva nella mano destra una freccia lunga, la freccia dell’amor divino. Una voce gridò, fra la gente, prendendo la freccia per una penna:

- Scrivi una lettera, per me, all’Eterno Padre, santa Candida!

- Santa Candida scrive per voi, - soggiunse subito l’assistito, voltandosi a Cesarino Fragalà.

- Così speriamo, così speriamo, - mormorò costui umilmente.

Ma un clamore salutò san Biagio, un altro vescovo napoletano, che, nella statua, è effigiato in atto di benedire il popolo. Per due o tre anni la difterite, l’angina avevano terrorizzato il cuore delle madri napoletane, massimamente il cuore delle donne del popolo: e san Biagio è appunto il patrono dei mali di gola. Quando egli apparve, il santo d’argento, nella via, fra il clamore, vi fu un sollevamento di bimbi sulle braccia delle madri, dei padri, un tendere i piccoli figli a san Biagio, perché il santo vescovo li benedicesse e li liberasse dall’orribile flagello, che butta alla morte tanti bimbi innocenti.

- San Biase, san Biase! - strillavano le madri, tenendo in alto i figli, convulse, singhiozzanti.

Anche Annarella, la sorella di Carmela la sigaraia e di Maddalena l’infelice, aveva levato su i due figliuoli che le restavano: il più piccolo, dopo aver lungamente languito, era morto. Ah non l’avrebbe più aspettata sulla porta del suo basso, seduto sullo scalino, mangiando un pezzo di pane, il povero piccolo Peppiniello, che pazientemente attendeva il ritorno di sua madre dal servizio, la povera creatura innocente! Non più, non più: Peppiniello era morto. Era morto di miseria, in un basso umido e puzzolente, mangiando male e scarsamente, dormendo coperto dai suoi vestitucci, attaccato a sua madre, per aver caldo: morto, morto, il piccolo fiore di sua madre, di miseria, morto per quella terribile bonafficiata, per quel terribile Lotto che perdeva Gaetano, il tagliatore di guanti, sino a fargli rubare il pane dei figli. Ah mai più si sarebbe consolata, Annarella, di quella morte! I due figliuoli che le restavano erano saggi, e buoni, e forti, ma non erano il suo piccolo fiore biondo e tenue; essi l’avevano trascinata a veder san Gennaro, e quando la misera ebbe visto in aria tanti piccoli, levò anche i suoi, piangendo, singhiozzando, pensando che il suo caro fiore non era stato salvato né da san Biase, né da san Gennaro, né da tutti i santi insieme del paradiso. Ma come l’ora si avanzava, l’emozione della gente cresceva, cresceva: ognuno era in preda a una commozione che si rinforzava dal minuto che trascorreva, che si raddoppiava dalla emozione del vicino. Agli occhi esaltati delle fanciulle, delle madri, dei poveri, degli infelici, degli sventurati colpevoli, di tutti quei bisognosi di soccorso, di soccorso morale e materiale, quella apparizione di santi diventava fantastica: li vedean passare in una visione luminosa, dove l’argento dell’aureola, del volto, della persona, dava riflessi abbaglianti, dove il nome finiva per sparire e rimaneva tutta la lunga processione di quelle beate immagini. La folla, oramai, confusa, stordita, fremente di mistica impazienza, non riconosceva più il gruppo degli antichissimi santi del primo tempo di Napoli, sant’Aspreno, san Severo, sant’Eusebio, sant’Agrippino e sant’Attanasio, santi vecchissimi, un po’oscuri, un po’ignoti: rumoreggiò come tuono, quando apparvero le statue dei cinque Franceschi che vegliano intorno a san Gennaro, nel Succorpo: san Francesco di Assisi, di Paola, di Geronimo, Caracciolo, Borgia; urlò nuovamente quando apparve sant’Anna, la madre della Madonna, a cui, dice il popolo, nessuna grazia è negata, mai: nessuno si occupò molto di san Domenico, l’inventore del rosario, poiché nessuno nella confusione di quell’ora pomeridiana, riconobbe il fiero monaco spagnuolo, salvo il fosco impiegato dell’Intendenza, don Domenico Mayer, che era stato respinto contro una muraglia dalla folla, e che teneva il cappello a cilindro abbassato sugli occhi, le braccia conserte in atto fiero e tetro sul soprabitone nero, e una dolorosa smorfia di scetticismo gli piegava le labbra. I santi passavano, passavano, sboccando dalla gran volta nera del Duomo, avviandosi verso Forcella, un po’ più presto, adesso, e la folla si agitava a destra e a sinistra, quasi volesse liberarsi dall’incubo di quella attesa. La processione dei santi era per finire, durando da quasi un ora per la lentezza dell’incesso, finiva con san Gaetano Thiene, con l’angelico san Filippo Neri, con i santi dottori Tommaso e Agostino, finiva con santa Irene, con santa Maria Maddalena de’ Pazzi, con la grande santa Teresa, in estasi, tutta ardore, tutta passione, la magnifica santa di Avila, che morì in una combustione di amor divino. Quando i santi cessarono la loro sfilata e i primi canonici della cattedrale comparvero, vi fu un immenso movimento nella gente che aspettava. Tutti tendevano il capo per veder meglio, per non perdere una linea dello spettacolo religioso, e l’attenzione era anche indomabile commozione. Finirono anche i canonici, e finalmente, sotto il grande pallio di broccato gallonato, frangiato di oro, pallido, con il volto raggiante di una espressione profonda di pietà, con le labbra che mormoravano una preghiera, apparve il Pastore della chiesa napoletana. Otto gentiluomini tenevano alti i bastoni del pallio: otto chierichetti, intorno, agitavano i turiboli fumanti d’incenso: e l’arcivescovo, che era un principe della Chiesa, un cardinale, camminava solo sotto il baldacchino, lentamente, con gli occhi fissi sulle proprie mani congiunte: e da tutte le genti che affollavano le vie, i portici, i balconi, le finestre e le terrazze, da tutte le donne che pregavano, da tutti i bambini che balbettavano il nome di san Gennaro, non al pallio, non ai paramenti d’oro, non alla mitria gemmata, si guardava: ma si guardava alle ceree mani congiunte dell’arcivescovo, si guardava teneramente, entusiasticamente, piangendo, gridando, chiedendo grazia, chiedendo pietà, magnetizzando ciò che l’arcivescovo stringeva fra le mani, tremanti di sacro rispetto. , , tutti gli sguardi, tutti i sospiri, tutte le invocazioni. Il cardinale arcivescovo di Napoli teneva fra le mani le ampolline, dove era conservato il Prezioso Sangue.

 

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Nella grande e bella chiesa di Santa Chiara, tutta bianca di stucco e carica di dorature, simile a un amplissimo salone regale, la folla aspettava il miracolo di san Gennaro.

Non era ancora notte, ma migliaia di ceri, sull’altar maggiore, nelle cappelle, e specialmente agli altari della Madonna e dell’Eterno Padre, illuminavano la vasta chiesa, ricca ed elegante. Sull’altar maggiore, sopra la bianca finissima tovaglia, in un piatto d’oro, era esposta la testa di san Gennaro, con la mitria vescovile gemmata, con la faccia rivestita d’oro: e più in mezzo erano le due ampolline del Prezioso Sangue coagulato, esposto alla venerazione dei fedeli.

Intorno intorno all’altar maggiore, dentro la balaustra di legno antico scolpito che separa l’altar maggiore e un grande spazio dal resto della chiesa, erano le quarantasei statue di argento, che fanno la guardia di onore alle reliquie di san Gennaro: e innanzi all’altar maggiore il cardinale arcivescovo, insieme coi canonici, officianti il santo patrono di Napoli perché volesse fare il miracolo: dentro la balaustra, accanto all’altar maggiore, un solitario, e favorito, e fortunato gruppo di vecchi e di vecchie, tutti vestiti di nero, con fazzoletti e cravatte bianche al collo, gli uomini a capo scoperto, le donne col velo nero sui capelli, il gruppo osservato, commentato, invidiato da tutti gli altri devoti, il gruppo dei parenti di san Gennaro, il gruppo che solo aveva il diritto di salire sull’altar maggiore, di vedere il miracolo a mezzo metro di distanza.

Poi l’immensa folla: nella grande unica navata di Santa Chiara e in tutte le cappelle laterali, fin fuori le due grandi porte, fin sugli scalini, fin nel chiostro di Santa Chiara, donde gli ultimi arrivati si rizzavano sulla punta dei piedi, presi dal bagliore di quelle migliaia di cerei, cercando di vedere qualche cosa, tormentandosi invano per spingersi un passo innanzi, mentre non vi era posto più per nessuno. E tutti agitati, inquieti, dal cardinale arcivescovo che orava, inginocchiato innanzi all’altare, all’ultima, umile femminetta del volgo, tutti attendevano che il divo Gennaro compisse il miracolo. Fervorosamente, col capo abbassato sulla sedia che aveva dinanzi, con la ingenua pietà del suo cuore giovanile, Bianca Maria Cavalcanti pregava, in quell’appressamento del miracoloso istante: pregava san Gennaro nel nome del suo Prezioso Sangue, di dar la pace al cuor di suo padre, di dar la fede al cuore di Antonio Amati: e candidamente, nella grande, saggia, profonda bontà dell’anima sua, nulla chiedeva per sé, bastandole che il cuore turbato, ammalato, straziato di suo padre avesse la tranquillità, bastandole che nel forte e fermo cuore di Antonio Amati, accanto all’amore umano, entrasse la più alta tenerezza dell’amore divino. Ecco, fra poco si sarebbe compito uno dei più grandi miracoli della religione: non poteva san Gennaro fare il miracolo in quei cuori, che essa adorava con tutte le sue forze? Bianca Maria, con le guance insolitamente accese di un sottil foco, di un sottil rossore, pregava con una forza contenuta di mistico entusiasmo, con una passione nova che era entrata a far divampare la sua gelida vita.

Sull’altar maggiore, con la faccia volta al cielo, e traspirante una immensa fede, con la voce tremante di una commozione invincibile, il cardinale arcivescovo aveva detto le preghiere latine, dedicate al divo protettore di Napoli: e tutta la folla aveva risposto un lungo e tonante amen; amen avevano risposto le monache patrizie di Santa Chiara, nascoste dietro le inaccessibili graticciate del grande coro e dei coretti.

Dopo gli oremus, vi furono due o tre minuti di profondo silenzio, e il soffio precursore delle grandi cose parve fosse passato su quel popolo orante. Il gruppo dei parenti di san Gennaro, sull’altar maggiore, intuonò il Credo, in italiano, con grande impeto, e tutta la chiesa continuò il Credo; - finito il Credo, due minuti di aspettativa, molto inquieti, per vedere se cominciava il miracolo. Ma fu ripreso subito un secondo, un terzo Credo, con tale vigorìa d’intonazione, come se tutto il popolo proclamasse di credere, giurasse di credere sulla propria coscienza, dandosi alla fede, nello spirito e nelle fibre, con un grande fragore; inginocchiato, col volto fra le mani, il cardinale arcivescovo orava ancora, in silenzio. Dietro a lui, impetuosamente, a brevissimi intervalli, intuonati dai parenti di san Gennaro, ripetuti da tutta la folla, i Credo continuavano, e qua e , fra il rombo generale, spiccava qualche nota profondamente grave di cuor desolato, spiccava qualche nota acutissima di fibre tormentateIo credo, gridava la popolazione, con uno schianto di voce in cui parea si rompessero mille speranze, mille voti, mille preghiere. Ah! anche Luisella Fragalà, seduta in un angolo della chiesa, accanto alla malinconica signora Parascandolo, credeva profondamente: tanto che nella piccola convulsione, che cresceva nei suoi nervi di creatura pietosa e religiosa, le lagrime già le scorrevano su le guance, in silenzio: e nella oscura previsione di una sventura che ella sentiva avanzarsi, avanzarsi, senza vederla, senza distinguerla, ma sentendola implacabile nel suo viaggio, ella chiedeva a san Gennaro la forza che egli ebbe nel suo atroce martirio, per sopportare il misterioso cataclisma che le sovrastava. Anche la signora Parascandolo pronunciava il Credo, insieme col popolo, con voce fioca: ma nelle pause quasi paurose per la trepidazione del miracolo imminente, la povera signora, orfana di tutti i suoi figli, chiedeva a san Gennaro, perché le ottenesse una grazia, perché la togliesse dalla terra d’esilio, donde tutti i suoi figliuoli erano fuggiti, lasciandola sola, brancicante nell’ombra e nel freddo. E la felice madre della rosea e bruna Agnesina come la madre infelicissima, egualmente trafitte, una dal passato, l’altra dall’avvenire, ambedue domandavano, con le lacrime negli occhi, la forza per vincere, la forza per morire.

Ma l’ansia del popolo pregante cominciò al quindicesimo Credo; le parole della fede suonavano squillanti, come una sfida gittata alla incredulità, ma portavano il tremore di non so quale ignota paura: la pausa fra un Credo e l’altro si prolungava, gittando il popolo in un accasciamento d’attesa, che pareva ne troncasse i nervi: la ripresa era fatta entusiasticamente, quasi il gran sentimento rinascesse formidabile, come tutti i sentimenti delle folle. Le più furiose di passione mistica erano le vecchie dell’altar maggiore: ma dietro di loro, una vampa correva da un cuore all’altro, portando l’incendio divoratore anche nei molli, indolenti temperamenti, anche fra gli scettici che fremevano, quasi una rivelazione ancora oscura li avesse colpiti e si venisse chiarendo ai loro occhi. Al ventunesimo Credo, il silenzio dell’aspettazione ebbe qualche cosa di angoscioso. Tutti gli occhi andavano dalla testa del santo, giacente nel vassoio di oro, alle ampolline di cristallo trasparentissimo, dove si vedeva il grumo nerastro e duro del sangue. La testa scintillava nella sua mitria gemmata, nella sua maschera gialla d’oro, dai riflessi metallici, un po’ lividi: il sangue era cagliato, una pietra che le preghiere non arrivavano a spezzare, e al ventiduesimo Credo, intuonato con uno scoppio di collera, qualche grido si udì, di chiamata, di invocazione, disperatamente:

- San Gennaro, san Gennaro, san Gennaro

Le febbrili preghiere recitate dal gran popolo orante nella chiesa di Santa Chiara, le preghiere che umilmente, nervosamente, convulsamente, invocavano il miracolo dal santo patrono di Napoli, erano pronunciate con grande fervore da due donne inginocchiate tra la folla, appoggiate coi gomiti alle sedie di paglia, col volto fra le mani, con tutto un abbandono dell’anima e della persona alla grazia che chiedevano. Donna Caterina la tenitrice di lotto clandestino e donna Concetta la strozzina, si erano votate in comune a san Gennaro, per un anello vescovile di oro massiccio, con una grossa pietra di topazio, se faceva loro la grazia di risolvere il loro cruccio: o cambiar il cuore dei due fidanzati, Ciccillo e Alfonso Jannaccone, rendendoli indulgenti alle speculazioni delle due sorelle, o cambiar il cuore delle due sorelle, distaccandolo dall’amor del denaro. Un anello, un anello, un anellone magnifico al miracoloso santo, se faceva quello spirituale miracolo: così pregavano, a bassa voce, ambedue, con lo stesso fervore, col capo abbassato, ripetendo monotonamente la loro offerta, levando ogni tanto i supplici occhi inondati di lacrime, sull’altar maggiore, dove il gran mistero era imminente. Ma il popolo era già dominato dalla paura di quel ritardo: provava il gran terrore che proprio in quell’anno, dopo due secoli e mezzo, il santo, sdegnato forse dei peccati della popolazione, si rifiutasse a fare quel miracolo, che è la pruova della sua benevolenza. E il Credo, ripreso dopo pause più lunghe, più profonde e quindi più emozionanti di silenzio, aveva qualche cosa di pauroso, di collerico quasi, sgorgava come un impulso disperato: ma soprattutto le voci delle vecchie sull’altar maggiore si facevano irose, spaventate, tremanti di dolore e di terrore - e in un silenzio, a un tratto, una di esse disse, con voce dove tremava una familiarità devota, uno scherzo umile e un’impazienza invincibile:

- Vecchio dispettoso, ci vuoi far aspettare, eh!

- San Gennaro, san Gennaro, san Gennaro! - urlò il popolo, eccitato bizzarramente.

Laggiù, verso il fondo della chiesa, presso la muraglia dove dolcifica la vista coi suoi scialbi colori quella smorta e soave Madonna, che dicono sia di Giotto, la figura di don Pasqualino l’assistito era tutta una preghiera: stava ritto, ma aveva la testa e le spalle piegate, in un atto di profondo ossequio, e quando, ogni tanto, stanco o ispirato, levava la faccia, guardando il cielo dorato e pitturato della chiesa, il bianco dell’occhio pareva stragrande, smisurato, e ogni colore era svanito sulle guance, dove un livido pallore andava crescendo. Attorno a lui, per un magnetico potere di attrazione, tutti coloro che credevano in lui e nelle sue visioni, si erano venuti raccogliendo: tutti turbati in volto, tutti in preda a una disperazione repressa che pure scoppiava sulle diverse fisonomie: tutti giunti in fondo a un abisso di dolore, poiché anche quel sabato aveva portato loro una delusione immensa, due ore prima, con l’estrazione dei numeri: tutti curvati sotto un rimorso mordente, sentendosi ognuno colpevole verso gli altri e verso sé stesso: il marchese di Formosa, curva, quasi decrepita la bella e nobile persona, sentendo l’onta della sua vita senza decoro, dove tutto periva, anche sua figlia, in un agonia di infermità e di miseria; Cesare Fragalà, la cui situazione commerciale sempre più si complicava, sentendo egli la freddezza dei suoi amici negozianti, dei suoi corrispondenti, sentendo la malinconia palese di sua moglie e le sue segrete apprensioni, e sperando sempre, e sempre invano, di accomodar tutto, con una grossa vincita; Ninetto Costa, pallido e sorridente, con gli occhi cerchiati dalle veglie e dalle preoccupazioni, pensando, ogni tanto, alla sua catastrofe, scegliendo, ogni tanto, mentalmente, fra la fuga disonorante e il colpo di rivoltella che non assolve, ma che pacifica; il barone Lamarra, grosso, grasso, floscio, maledicente i suoi sogni ambiziosi di pezzente risalito, fremente all’idea di quella cambiale, firmata da lui e da sua moglie; l’avv. Marzano, il cui dolce sorriso pareva quello di un ebete, e che ogni settimana aumentava le sue privazioni per poter giuocare, avendo cessato di fumare, di prender tabacco, di bere vino, avendo impegnato la sua cartella di pensione, essendo malamente complicato in equivoci affari; Colaneri e Trifari, il professore e il dottore, che non trovavano più studenti, e il primo specialmente, sentendo intorno a sé il sospetto, il discredito, temendo ogni mattina, quando entrava in iscuola, di esser cacciato via da un ordine superiore, di essere accoppato dagli studenti: tutti, tutti, in preda a quella desolazione del sabato sera, l’ora negra, l’ora terribile in cui solo la coscienza parlava, alta, dura, inflessibile. Eppure erano in chiesa, e i più indifferenti, i più increduli mormoravano qualche parola di preghiera: eppure erano ancora attorno all’assistito e lo guardavano ardentemente a pregare, e si capiva in quell’attrazione che ancora li aveva vinti, in quegli sguardi bruciati, che, passata la dolorosa cogitazione di quel momento, di quell’ora, la passione attendeva per riprenderseli. Ah, ma quell’ora, quell’ora, in quella grande folla che esalava nella preghiera tutta la sua infelicità, era tremenda per essi, colpevoli, come la fatale notte di Getsemani fu tremenda al Grande Innocente. Disperati, tutti, fissavano l’altar maggiore dove ardevano i cerei e si riflettevano sulla metallica faccia del santo.

- San Gennaro, san Gennaro, - urlava la gente, a ogni Credo che finiva.

E lo sgomento che il miracolo non accadesse soffiava su quelle teste, scoppiava in quelle voci. Le parenti di san Gennaro erano convulse di dolore e di collera; si era giunti al trentacinquesimo Credo, l’ora passava, con una lentezza di minaccia: ed esse, sentendosi nel medesimo tempo offese dal ritardo del loro santo antenato, e disperate della sua collera, lo interpellavano così:

- San Gennaro, faccia d’oro, non ci fare aspettare più!

- Sei in collera, eh? Che ti abbiamo fatto?

- Vecchio rabbioso, fa il miracolo al popolo tuo!

Ed era inesprimibile il sentimento d’ira, di tenerezza, di devozione, di agitazione, che spirava in queste ingiurie, in queste pietose invocazioni. Dice la leggenda che san Gennaro ama molto di farsi pregare e non si sdegna delle parole che le sue parenti e il popolo gli dirigono, e l’emozione del popolo era tanta che, al trentottesimo Credo, i versetti della preghiera furono detti disperatamente, come se ogni parola fosse strappata da uno strazio supremo e in fondo scoppiarono le grida:

- Faccia verde!

- Faccia gialluta!

- Santo malamente!

- Fa il miracolo, fa il miracolo.

Il trentottesimo Credo fu clamore: lo dicevano tutti, da un capo all’altro della chiesa, il cardinale, i preti, le vecchie parenti, uomini, donne bimbi, tutti, tutti, presi da un grande furore mistico. E a un tratto, nella pausa di immenso silenzio che susseguì alla preghiera, l’arcivescovo si voltò al popolo: la faccia del sacerdote, irradiata di una luce quasi divina, pareva trasfigurata: e la bianca mano, levata in alto mostrava al popolo l’ampollina: il Prezioso Sangue, nel sottilissimo involucro di cristallo, bolliva. Quale urlo! Ne parvero scosse le fondamenta dell’antica chiesa; ebbe echi così forti e lunghi, che sgomentarono i viandanti delle strade circonvicine; e parve che le sonore campane del campanile vibrassero sole; e il gran pianto, il gran singhiozzo di tutto il popolo inginocchiato, buttato a terra, singultante con la bocca sul freddo marmo, levante le braccia, dibattendosi sotto la grande visione del Sangue che bolliva, non ebbe termine.

Come morte, giacevano prostrate sull’altar maggiore le vecchie parenti; una sola possente forza aveva piegato tutta la folla; era tutto un lamento, tutto un sussulto tutta una preghiera; ognuno in quel minuto lunghissimo diceva ad alta voce, fra le lacrime calde e il tremor della voce, la sua parola di dolore. Sull’altar maggiore l’arcivescovo e il clero, tutti in piedi, a voce spiegata, superante la gran voce dell’organo, cantavano il Te Deum.

 

 



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