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Il dottor Antonio Amati era profondamente innamorato di Bianca Maria Cavalcanti. Quel rude cuore che era diventato ferreo nella lotta con la scienza, con gli uomini, con le cose, quel ferreo cuore che aveva dovuto ribevere tutte le sue lacrime, e assistere senza emozione alle lacrime di tutte le miserie, quel ferreo cuore che nella gran semplicità racchiudeva anche la gran freddezza, quel ferreo cuore che di fronte al sentimento aveva la verginità, la purezza infantile, si era schiuso lentamente, quasi timidamente all’amore. Dapprima…, che era stato dapprima? L’abitudine di veder apparire la candida e malinconica fanciulla, ogni giorno, dietro i cristalli del suo balcone, l’abitudine che è la grande generatrice degli affetti, che li crea, li consolida, li rende invincibili: non altro era stato, dapprima, quell’apparizione dolce e tenue fra le penombre tristi del cortile, in quell’ambiente che spirava mestizia. E dopo l’abitudine, la pietà: che è una sorgente viva di tenerezza, sorgente che talora si nasconde sotto la terra, sparisce, pare perduta, e più tardi, più lontano, sgorga vivace, fluente, inesauribile.
Nelle ore che durò il lungo svenimento di Bianca Maria, fra il parlatorio delle Sacramentiste e il nudo appartamento del palazzo Rossi, quella faccia trasparente, quelle palpebre chiuse dalle ombre violette, quelle labbra smorte, di un tenero roseo di rosa languente, gli dettero due o tre volte il sussulto della morte, ed egli pensò, spesso rivide, spesso, innanzi alla sua fantasia, quella persona giovanile, immersa nel torpore che pareva la morte, la rivide come morta. La pietà rampollava dal suo cuore, ricordando sempre l’espressione di dolore che attraversava il volto della fanciulla, ogni tanto, come se un segreto terribile, come se un tormento fisico o morale, le attraversasse l’anima e le fibre; la pietà lo conduceva a voler salvare quella giovanetta dal suo cruccio. E il giorno in cui, nella fervida mente del grande medico, balenò il disegno di strappare dalla morte, dalla infermità, dalla infelicità, la candida creatura, quando il suo istinto di salvatore lo avvertì che la lotta cominciava, quando sentì suonare l’appello alla sua divinazione della vita, alla sua energia, al suo coraggio, quando tutte le sue forze furono evocate da una voce possente per la salvazione di Bianca Maria, egli intese che la parola era detta e che non solo lo scienziato, non solo l’uomo volevano la salute e la felicità di quella fanciulla, ma che l’innamorato tremava all’idea di perderla e il lieve tocco di quella sottile mano, ora gelida come se non vivesse, ora calda come se abbruciasse di febbre, gli mandava al cervello le fiamme della passione.
La parola era detta, con la ingenua tenerezza di un fanciullo e con la severa risoluzione di un uomo, ondeggiando dalle purissime linee dell’idillio alle violente prospettive drammatiche: egli era innamorato. Perché no? Un sol giorno, un sol minuto aveva cercato di vincersi, assalito da quel naturale egoismo di chi ha combattuto e trionfato, solitariamente: ma assuefatto ad assumere sino all’estremo tutte le responsabilità della vita, aveva ceduto all’amore. Perché no? Non aveva amato giammai, poiché le fugaci attrazioni del femminile, poiché i brevi capricci non lasciano traccia dentro il cuore: figliuoli dell’immaginazione, dalla vita violenta e rapidissima, riappaiono, talvolta, come un sogno, ma hanno tutto l’indeciso, l’indefinito dei sogni: e nulla ne sa il cuore. Innamorato, il dottor Antonio Amati, il grande solitario, dal forte cervello e dal ferreo cuore; innamorato colui che aveva preso la sua reputazione e la sua fortuna di assalto, e che fino a trentotto anni non aveva voluto conoscere altre gioie che quelle della salvazione degli uomini, altri conforti che quelli dell’ambizione appagata; innamorato così completamente che tutto gli pareva oramai scolorato, che niuna cosa aveva ormai più sapore, dove Bianca Maria non apparisse, non facesse udire la sua voce fioca e velata da una emozione.
Innamorato. Perché no? Nelle esistenze più umili, più meschine, più oscure, viene l’ora calda, l’ora luminosa, l’ora i cui confini sono così vasti che racchiudono tutto il tempo: e nelle esistenze trionfali ma esterne, nelle esistenze dove la gran pompa delle cose umane si spiega, viene l’ora calda e profonda, l’ora intima e intensa, in cui tutto si raccoglie nel cuore, e l’anima vibra per la forza interiore della passione. Innamorato con intensità, con tanto maggiore impeto, quanto più scarsa, più rada, negli anni trascorsi, era stata la sua manifestazione sentimentale: un cuore, quello di Antonio Amati, dove si raccoglievano tutte le amicizie smarrite o non avute mai, tutte le tenerezze per parenti, per persone simpatiche, tutte le ammirazioni poetiche del femminile represse, mai manifestate, talvolta vinte al solo loro apparire, quasi sempre subito obliate, tutti i mille affetti, piccioli e grandi, in cui si sgretola il cuore umano. Egli era innamorato, sapendolo, volendolo, assaporandolo in tutta la sua dolcezza, questo frutto tardivo della sua anima; e trovava, in questa tarda passione, tutti i mille caratteri, tutte le mille impressioni degli amori, degli affetti che non aveva mai provati. La rinunzia era cessata. Il dottor Antonio Amati era innamorato, consciamente.
Bianca Maria era inconscia, nell’amore. Era una creatura che aveva la semplicità e la rettitudine delle persone che hanno vissuto solingamente, senza lotte, molto pensando, molto pregando, e in cui l’anima si è affinata nelle contemplazioni taciturne, non nei rudi e tristi attriti della turbolenta esistenza. Dalla madre che aveva vissuto una vita dolente, ella aveva una squisita ma silenziosa sensibilità: dal padre ella aveva preso la lealtà ostinata e larga, la fierezza senza superbia, la generosità che non si misura e che gode solo nel dare, senza calcoli, senza aspettative interessate: e su questo una fede innata, profonda, che pareva avesse radici nelle fibre, che era l’alimento di tutta la vita spirituale della fanciulla, come vivono di purissimo olio le lampade accese innanzi alle sacre immagini, e di lontano attirano, con la debole ma continua luce, le preghiere dei credenti. Ella era inconscia, amando. Chi le avrebbe detto nulla? Da sette o otto anni sua madre si era spenta, in una fatale malattia di languore crescente, senza dolori, senza spasimi, ma portando, dentro il cuore, il dolore spasimante, atroce, per quel marito quasi folle che dava colpi con l’accetta della sua pazzia sul povero, gramo albero di casa Cavalcanti, buttandone i rami sopra un rogo vorace, per quella povera sua figliuola che restava sulla terra, abbandonata alla compagnia di quel padre pazzo, andando incontro alla miseria e forse al disonore.
Ah, Bianca Maria rammentava, rammentava il volto di sua madre, morente così, fatta terrea da un pensiero roditore, inconsolabile, di dover morire così presto: e da questo ricordo indelebile, una gravità restava ancora e rendeva austera quella sua giovinezza e l’allontanava da tutti i desideri, da tutte le aspirazioni, da tutte le civetterie di quella età. Che sapeva ella dell’amore? Nulla.
Viveva tristemente, privata di tutte le dolcezze, accanto a un padre che ella rispettava e di cui la fatale passione la sgomentava, sentendo intorno a sé una oscura ma imminente minaccia, sentendo già i vergognosi morsi della povertà, sentendo tutte le necessarie, dolorose transazioni col decoro, con la dignità, sentendo in sé un pericolo ignoto, come il germe della morte: e un uomo saggio, forte, buono, al sicuro da tutti i pericoli, al sicuro da tutte le miserie, fatto per vincere ogni ostacolo, fatto per dare soccorso, apportatore di conforto, la cui presenza, la cui voce, le cui parole erano una sicurezza, una speranza, un saldo appoggio, con un nome lontano da ogni follia, vincitore di ogni morbo, puro di ogni macchia, quest’uomo le stendeva la mano per salvarla, - ebbene, ella prendeva quella mano, ciò era naturale, ella non sapeva e non poteva fare altro che prendere quella mano, e amare quell’uomo. Inconsciamente: amandolo, perché doveva amarlo; perché così doveva essere. Ed ella provava per la sua età, per il suo temperamento, per l’ambiente in cui viveva, per tutta la sua esistenza, quella forma ingenua e candida dell’amore, che è della creatura debole, battuta dalle tempeste, la quale si rassicura, si quieta nella protezione della forza.
Quando Bianca Maria si trovava sola, nel tetro appartamento dove i rari mobili assumevano un aria anche più vecchia e più miserabile, con quei due vecchi servi sempre malinconicamente affaccendati a un lavoro per nascondere la povertà, per dissimularla sotto le false apparenze di una decente agiatezza, ella aveva freddo nell’anima, le pareva di esser antica e povera e abbandonata come la casa, come i mobili, destinata a languire nella privazione di tutto: quando suo padre appariva, sempre turbato, sempre pronto agli impeti di un carattere violento, sconvolto da una passione indomabile, credulo in tutti i vani sogni della fantasia, cedente a un pauroso misticismo, evocante intorno a sé tutto un terrificante mondo di fantasmi, ella smarriva subito la quiete, il cervello le si turbava, e i bizzarri fenomeni spirituali le si comunicavano fatalmente, ella non sapeva sottrarsi a quell’incubo, a quelle visioni, si sentiva così debole, così indifesa contro gli attacchi di quella pazzia cabalistica, che tremava, nello squilibrio dei suoi nervi, nella febbre che dalle vene veniva a tumultuare nel cervello.
E sempre, sempre, quando era sola, o quando suo padre era con lei, ella si vedeva assai misera, assai misera, senza sostegno, senza guida, sballottata dal vento impetuoso, assorbita da un vortice turbinoso. Ma bastava che Antonio Amati mostrasse la sua virile figura, dove la forza aveva il carattere di genialità, bastava che egli le facesse udire la sua voce ferma, dalle intonazioni un po’ rudi, che si faceva dolce solamente dirigendosi a lei, bastava che la sua mano toccasse la mano di lei, perché ella sentisse, come per un influsso magnetico, un calore, una vivacità giovanile trascorrerle per le fibre, bastava sì, che la sua mano toccasse la mano di lei, perché ella si sentisse guidata, protetta, procedente sulla via della vita e della felicità. Con un soffio si dileguavano tutte le nere nubi, ella vedeva il cielo azzurro; la febbre si temperava, spariva, e sparivano con essa le tetre fantasie e gli spaventi che fanno allividire le labbra: ella si tranquillizzava, quasi la ravvolgesse nel suo circolo di difesa e di dolcezza una benedizione divina. Le sembrava, quando egli era là, di ritornare bambina: era Amati il più saldo, il più sicuro, il più forte. Così lo amava ingenuamente, inconsciamente: e questa forma di amore comportava una grande umiltà, una grande tenerezza, qualche cosa di assai candido e di assai fervido, per cui ella riviveva.
E nella loro sostanziale diversità i due amori s’intendevano, si fondevano, si completavano. Quell’armonia spirituale che rappresenta le più belle, ma anche le più rare e le più brevi giornate dell’anima, era cominciata dal primo giorno in cui lei, dal suo triste balcone, e lui, dalla severa stanza da studio che vedeva tanti strazii, si erano guardati. Dovunque i due pensieri, i due sentimenti, le due persone si erano incontrate, quell’armonia si era fatta più grande. Quando ella levava semplicemente i grandi occhi pensosi a lui, cercando affetto e protezione, egli sentiva trabalzare il suo cuore, nel desiderio del sacrificio. S’intendevano, senza parole, mirabilmente.
Egli era venuto dalla terra, da un piccolo borgo perduto in una vasta provincia, con scarse comunicazioni con la città: aveva fatto il suo nome, la sua fortuna, lottando con la vita e con la morte, con la indifferenza degli uomini e con il loro odio, acquistando nella lotta una idea formidabile della propria energia, credendo solamente in sé stesso: aveva un sangue plebeo e una gran mente: nessuna raffinatezza che venga dall’educazione, dall’ambiente, e la vittoria delle sue idealità. - Quanto diverso da lei! Era ella una fanciulla di gran sangue, mobilissima, squisita per istinto, per educazione, per ambiente: avvezza a vivere di pensiero e di preghiera: senza ombra di volontà, per resistere al rovinoso fato della sua famiglia: senz’energia contro la passione paterna, senz’energia per salvare sé stessa e il nome, vivente fra le crescenti privazioni, fra i crescenti disagi, avendo cominciato troppo presto le dolorose tappe della via crucis e vedendosi innanzi un avvenire di sconforto - quanto diversi e lontani, quei due!
Pure s’intendevano, per l’arcana legge dell’amore che questo vuole, che mescola tutto, sentimenti, sensazioni, tradizioni, origini, che mette il nobile dove è il plebeo, che pone una forza accanto a una debolezza, che lega invincibilmente due persone, appunto per la loro diversità. A lei non pareva di derogare, amando l’oscuro contadino meridionale, che era diventato un gran medico: a lui non pareva di discendere, di fronte a quella famiglia in decadenza, impoverita di sangue, di denaro, di coraggio. Di lontano erano partite le due anime, che si dovevano amare e avevano percorso gli infiniti spazii spirituali per incontrarsi, per riconoscersi, per ricongiungersi: è la gran teoria d’amore di Platone, che solo gli sciocchi e gli impotenti di cuore osano deridere; la gran teoria amorosa, ancora una volta, dopo milioni di volte, si realizzava. Non pareva fatto apposta, che questo uomo ignoto e umile avesse dovuto attingere, per propria forza, alla fama e alla ricchezza, conoscendo la scienza e conoscendo la vita, perché potesse consolare quella fredda e smorta e dolorosa giovinezza di una fanciulla di alta nascita, che languiva nella solitudine e nella segreta povertà?
Quando la servente del convento delle Sacramentiste, dal gelido parlatorio dove Bianca Maria cadde in deliquio, era corsa all’ospedale, per cercare un medico e ostinatamente aveva insistito perché Antonio Amati venisse a soccorrere l’inferma, in quell’ora, il fatale incontro era accaduto; e le glaciali mani sottili, donde pareva si fosse ritirato tutto il sangue, si erano finalmente riunite nelle salde mani robuste del dottore, e ancora una volta, la mirabile attrazione per cui le anime amanti superano lo spazio, il tempo, i mille ostacoli, la mirabile attrazione, di cui sventurato chi non ha inteso la potenza, avea riunito coloro che dovevano essere riuniti. Come quei due non si sarebbero intesi, se solamente Antonio Amati nella sua scienza poteva salvare Bianca Maria dal morbo che le attaccava le forze vitali, se solamente Antonio Amati poteva darle la salute, la ricchezza, la felicità? Come non intendersi, se quella ingenua dolcezza, se quella mite poesia, se quella sorgente di ogni affetto, se quanto mancava alla laboriosa e dura esistenza di Antonio Amati, solamente la snella e casta figura di Bianca Maria poteva arrecarvelo?
Egli era la forza, in tutta la sua coscienza serena e giusta: ella era la bontà, in tutta la incoscienza misericordiosa e tenera: quella bontà e quella forza si chiamavano per unirsi, seguivano il destino che le voleva unite, perché l’amore creasse, ancora una volta, un bellissimo miracolo di armonia. Quando ella doveva volere una cosa, levava gli occhi nella faccia del suo innamorato e ne beveva la volontà; quando egli la guardava, sentiva ammollirsi tutte le corde tese della sua energia e fiorirgli nel cuore la gran poesia della bontà.
Ma era destino, che tutte le forme della vita dovessero apparire al dottor Antonio Amati, come una lotta: e che ogni premio, concesso in questa esistenza, agli uomini di talento e di energia, fosse conquistato da lui dopo una fiera battaglia. Così anche fra lui e l’amore, fra lui e Bianca Maria Cavalcanti, sorgeva un gravissimo ostacolo: il marchese Carlo Cavalcanti. Ah, dal primo momento in cui Amati lo aveva visto, il fiero signore allucinato e violento, aveva inteso nascere in sé una diffidenza penosa, e aveva compreso esser nell’animo di Cavalcanti una ostilità sorda, ma profonda. Forse li dividevano la nascita, la condizione del passato, la condizione del presente, e l’opposto concetto che avevano della vita e delle sue responsabilità: forse colui che era venuto dalla terra, forte e fecondo di bene, come essa, disprezzava quella decadenza di salute, di fortuna, di decoro, e forse colui che viveva solo nel superbo criterio di una vita data al lusso, ai piaceri, alla generosità, disprezzava l’ostinato e grezzo lavoratore, parco di godimenti, schivo dei piaceri, troppo severo per sé e per gli altri: e forse l’uno avvertiva il disprezzo dell’altro, e si sentivano lontani le mille miglia, con ideali così diversi, che giammai avrebbero dovuto incontrarsi. Forse la ragione dell’antipatia scambievole, della freddezza di Amati, della ostilità di Cavalcanti, era più intima, più profonda, più misteriosa: forse nessuno di loro osava confessarla a sé stesso: infine, era un sospetto, una diffidenza, un ostilità inconscia. Certo, Amati, vedeva in Carlo Cavalcanti il pericolo ignoto dove potea smarrirsi la ragione e la vita di Bianca Maria, lo vedeva così vagamente, ma ostinatamente, senza saper bene il come e il perché, ma sentendo lì, lì, il pericolo: e Carlo Cavalcanti sentiva in Antonio Amati il giudice, direi quasi il nemico. Due volte, quando il dottore aveva assistito Bianca Maria Cavalcanti nel suo deliquio e in quella febbre violenta che l’aveva fatta delirare, per un giorno e una notte, egli aveva detto al marchese Cavalcanti aspre parole sulla salute di sua figlia: e il vecchio le aveva udite, fremendo di collera, rodendo il freno, piegando il capo innanzi a colui che era stato il soccorso nell’ora cattiva, ma guardandolo fieramente, ma crollando le spalle, quando egli minacciava che la fanciulla sarebbe morta.
Per quale acciecamento egli si era rifiutato, sempre, di trarre via Bianca Maria da quella casa fredda e povera, dove tutte le forze della giovinetta languivano? Certo, ostinatamente si era rifiutato, trasalendo di emozione, ogni volta che il dottore gli aveva ripetuto questo discorso: e quella emozione pareva affetto, pareva superbia, pareva paura, quasi che il vecchio capisse dove era il rimedio e non potesse, non volesse usarlo. Dubbioso, affacciandosi sempre a qualche cosa di buio, il dottore si arrestava, temendo di urtare certe suscettibilità. Il marchese era così povero, come avrebbe potuto cambiar casa? Era naturale che il volto gli si tingesse di sgomento e di malinconia, quando gli dicevano che sua figlia languiva e che si avviava a un deperimento fatale: era naturale che aggrottasse le sopracciglia per l’orgoglio offeso, quando gli veniva fatta qualche offerta di servigi. Eppure il suo orgoglio aveva dovuto crollare, in quel sabato mattina, quando aveva chiesto in prestito del danaro ad Antonio Amati, dicendogli che lo avrebbe restituito nella giornata: era dovuto svanire il suo orgoglio, quando, due o tre volte, sempre il sabato, con una letterina urgente, scritta con una grande calligrafia tremolante, aveva chiesto ancora denaro, ancora, alla borsa di Amati, sempre promettendo per la giornata, la restituzione di tutta la somma, sempre mancando.
Arrossiva un poco, scrivendo: e il vecchio capo canuto si piegava sul petto, a piangere la sua dignità di signore e di vecchio che si perdeva, ma la passione era così forte, avrebbe fatto denaro di tutto! E quando il dottore gli mandava il denaro, in una busta e poi in un altro foglio di carta, perché i servi non si accorgessero del contenuto, il marchese aveva un moto di mortificazione, e apriva nervosamente la busta, con una lacerazione brutale, mentre il sangue gli andava alla testa; Amati non scriveva niente, ma non rifiutava mai. Alla sera, mentre padre e figlia erano nel salone, ella lavorando al suo fine merletto, egli andando su e giù per lo stanzone, a calmare la nervosità del suo organismo, il dottore appariva: il marchese frenava a stento un gesto di fastidio e andava incontro al visitatore con una falsa disinvoltura, impallidendo: ambedue si salutavano, assai imbarazzati, mentre il viso di Bianca Maria rifulgeva; e malgrado il servigio reso, non nasceva fra loro cordialità, restavano in presenza l’uno dell’altro, freddi, misurandosi con lo sguardo, sapendosi nemici. Quando il dottore, con l’audacia che gli veniva dal carattere e dall’amore; andava a sedersi dirimpetto a Bianca Maria, e le domandava della sua salute, quando quei due si guardavano negli occhi, tacendo, il marchese si turbava, e un tremore di collera passava nella sua voce. Egli era l’ostacolo. Invano, ogni volta che la costringente passione l’obbligava a chieder denaro ad Antonio Amati, egli si sentiva sempre più decaduto, innanzi a costui: invano Amati gli rendeva servizio senza esitare, adoperando una delicatezza nova: - queste bizzarre relazioni non arrivavano a cancellare la diffidenza, il sospetto, l’antipatia. Forse, quei prestiti chiesti con una bugiarda scusa, con una bugiarda promessa, scavavano fra loro quel precipizio di dolore, di vergogna, di umiliazione, che vi è fra chi chiede e chi dà: e il gran sogno di Cavalcanti, oramai, era guadagnare molto denaro, per fare la gran vita, dopo aver buttato in faccia al medico i suoi quattrini e averlo scacciato. Finiva per odiarlo, per quei beneficii che gli era così duro invocare e che la sua miserabile passione lo costringeva a cercare.
Antonio Amati comprendeva: sapeva che Cavalcanti era l’ostacolo. Naturalmente, sapeva quale era la bocca vorace che inghiottiva tutti i denari del vecchio e anche quelli non suoi, sapeva la febbre da cui era divorata quella vecchia fantasia di gentiluomo: sapeva che quella miseria era il risultato di una colpa: sapeva che quelle domande di prestito erano mosse da una forza irresistibile: ma egli non voleva altro che Bianca Maria non soffrisse, che fuggisse quel triste ambiente di mestizia e di povertà. Dal giorno in cui ella, nell’abbattimento fisico e morale della febbre, gli aveva detto d’amarlo, pregandolo che la conducesse via, egli aveva rinnovato due o tre volte l’offerta della sua casa, in provincia, dove era sua madre. Ella aveva crollato il capo, con un lieve sorriso malinconico: aveva sospirato: non aveva detto nulla.
E una sera, in cui ella era stata assai sofferente, soffocando di caldo in quell’appartamento senz’aria nell’estate e glaciale nell’inverno, egli aveva diretto la sua offerta a Cavalcanti, enunciandola semplicemente, cercando di esser cordiale. Un momento, Cavalcanti aveva pensato: sua figlia lo guardava ansiosamente, attendendo la risposta:
- Non è possibile - disse recisamente, il marchese di Formosa.
- E perché? - domandò, audacemente, il medico.
- Così, - ribattè il vecchio ostinato.
Il dottore guardava intensamente la fanciulla, per infonderle forza di ribellione, per affascinarla alla rivolta. Alla poveretta batterono due o tre volte le palpebre, guardò suo padre e poi disse:
- Quel che dice mio padre: non è possibile.
Avrebbe voluto, lui, in quei momento, ricordarle le soavi parole con cui ella gli aveva detto, un giorno, di trarla fuori da quel baratro, di portarla lontano, in un paese di sole, di verde: ma in quegli occhi chinati al suolo, in quella seria espressione della bocca, egli trovò un’improvvisa freddezza, e gli parve che l’anima della fanciulla gli sfuggisse. Capì di urtare contro l’obbedienza filiale, una obbedienza profonda, incrollabile, quasi ieratica, come se ne incontra nelle alte classi, dove l’autorità paterna è rispettata ciecamente e dove la famiglia ha carattere di regno assoluto. Una collera soffiò nel cuore del dottore che fremeva dell’ostacolo, e che vedeva crollare in un attimo la possanza dell’amore, di fronte a un sentimento, a un istinto più semplice ma più antico, di fronte a un affetto che avea per sé, oltre il legame del sangue, quello della tradizione e della lunga consuetudine.
Non parlò, non le diresse uno sguardo di rimprovero, poiché vedeva essersi levata incontro a lui una potestà superiore, che per venti anni aveva tenuto a sé il cuore della fanciulla; e la grandezza dell’amore gli parve a un tratto ammiserita, giacché ella aveva potuto rinunziare, dinanzi a una parola del padre, a quell’idillio, così lungamente sognato nella solitudine della sua stanzetta. Dopo poco, il dottore andò via, freddo, gelido come quel padre e quella figliuola, che sembravano ombre in quella gran casa deserta; andò via, portando seco la prima delusione dell’amore, che è amarissima, fremendo d’ira e di dolore. Quando fu solo, nella sua casa ricca ma solitaria, tentò invano di distrarsi nella lettura di una rivista scientifica: era ferito, nell’amore e nell’amor proprio.
Simile a innamorato giovinetto, per ingannare quell’amarezza e per sfogare quell’eccitamento, egli si pose a scrivere una lunga lettera incoerente, piena di passione e di collera. Ma quando la ebbe finita, il suo forte animo si era sedato; la lettera in cui egli accusava Bianca Maria d’indifferenza e di crudeltà, gli parve ingiusta, rileggendola, gli parve ridicola. Egli era un uomo, non un fanciullo: aveva i capelli bianchi, non doveva abbandonarsi a escandescenze di ragazzo. Lacerò la lettera: ma dopo si sentì vincere da uno scoramento. Il primo, purissimo fiore di poesia del suo amore era troncato: l’idillio era dileguato: tutto l’avvenire non poteva essere che un dramma.
Sì, il combattimento era fra Antonio Amati e il marchese Carlo Cavalcanti, segreto ma ostinato, sordo ma acutissimo. Il vecchio esercitava un grande potere sulla sua figliuola, si potea dire che ne piegasse la volontà, con una imperiosa affascinante occhiata: e non voleva che nessun altro arrivasse a dominarla, tremava di vedersi sfuggire quella influenza. Per amor proprio paterno, per quella esagerata gelosia dei genitori che cominciano per detestare coloro che amano i loro figliuoli, per qualche altra misteriosa ragion spirituale, egli si metteva fra sua figlia e Antonio Amati, quando vedeva che il dominio di costui potesse allargarsi. Se erano soli, padre e figlia, non ne parlavano mai: ella per senso di obbedienza, aspettava sempre di essere interrogata per parlare, e Cavalcanti si asteneva dal nominarle il dottore: la fanciulla avvertiva quella riservatezza e si chiudeva sempre più in sé stessa, vedendo già i primi, tristi segni di quella lotta. Una sola lettera Amati le aveva scritto: e quella ella conservava, preziosamente, rileggendola, ogni tanto, perché vi spirava una onestà, una serenità, una forza che mancava totalmente alla sua esistenza misera e torbida, uscita da un dolente passato, avviantesi a un oscuro avvenire. Già piegava il capo, ella, comprendendo che neppur nell’amore avrebbe trovato la sua salvazione, poiché le pareva fosse legata a una bizzarra fatalità, poiché una incantagione sembrava che fosse stata gittata su tutta la sua esistenza. Quando Antonio Amati ricompariva la sera, ostinato a non cedere il campo alla tirannia singolare paterna, ella levava gli occhi, timidamente, sopra ambedue: e la falsa disinvoltura, la falsa cordialità con cui si trattavano, la rianimava, il roseo colore risaliva alle sue guance bianche; ma se suo padre aggrottava le ciglia, se la voce del dottore si facea dura, ella impallidiva, di nuovo, spaurita. Il padre le aveva accuratamente nascosto i servigi pecuniarii che il dottore gli aveva resi e che continuava a rendergli: si vergognava di confessare a sua figlia la diminuzione di dignità, che la sua passione gli aveva strappato. E la creatura buona e pura che si rincorava, vedendo la salda mano coraggiosa che a lei si stendeva per strapparla all’ambiente di decadenza, ogni tanto trasaliva, poiché suo padre, bruscamente violentemente, allontanava da lei quella mano. Ella non chiedeva il perché: sua madre aveva languito troppo rassegnatamente sino alla morte, perché ella osasse ribellarsi: soltanto viveva alla giornata, così, senz’approfondire il dissidio fra suo padre e Amati, lasciandosi andare alla dolcezza del novo sentimento, tentando fuggire all’amarezza dei presentimenti. Ma egli, che era uomo di scienza e in cui l’osservazione primeggiava, trovando incomprensibile il contegno del padre, cercava frenare il suo cuore, per giungere a strappare il segreto del cuore di Cavalcanti. Sapeva che la febbre del giuoco lo rodeva; qualche volta, mentre egli era lì, in quel grande salone, accanto a Bianca Maria, si erano presentati due o tre del gruppo dei cabalisti, a cercare il marchese: costui era restato imbarazzato, e una volta si era chiuso con costoro nel suo studio, donde le voci arrivavano smorzate, confuse: due altre volte, impaziente, nervoso per la presenza del dottore, era uscito con loro.
- Che persone sono costoro? - aveva egli domandato alla fanciulla.
- Amici, - ella aveva detto, volgendo il capo dall’altra parte.
- Vostri?
- No: di mio padre.
Aveva fatto intendere di non voler parlare di costoro; ed egli aveva taciuto. Un’altra volta, un venerdì sera, si era presentato don Pasqualino De Feo, l’assistito, con la sua ciera morbosa e i suoi vestiti sciatti e sporchi: d’un tratto il dottore si era rammentato di averlo visto, sì, proprio all’ospedale, dove era giunto tutto lividure e contusioni, quasi avesse preso una solenne bastonatura, e si rammentava il parlar fantastico di costui. Mentre l’assistito discorreva sottovoce col marchese, nel vano di una finestra, il dottore aveva chiesto pian piano alla fanciulla.
- Anche costui è un amico?
Ma l’aveva vista così smorta, con gli occhi così pieni di sgomento, tanto vinta dalla paura di qualche cosa che egli non sapeva, che aveva taciuto. Si ricordò che nel giorno del deliquio, rinvenendo, ella aveva voluto mandar via di casa, quell’assistito.
- Vi è antipatico, è vero?
- No, no - disse ella, - io sono sciocca.
Temeva che Amati avesse disturbato il colloquio di suo padre con l’assistito; ma costoro trovandosi impediti a discorrere, si disponevano a uscire. L’assistito passava, con gli occhi bassi, ma Amati gli gridò:
- Siete guarito, eh, De Feo, di quella bastonatura?
Quello si scosse, si passò una mano sulla fronte e rispose, senza guardare il medico.
- Ho avuto la grazia, da chi mi ha mandato la disgrazia.
- E da chi? - chiese il dottore, ridendo del suo riso di scettico.
L’assistito tacque. E Cavalcanti, il cui volto si era acceso, i cui occhi scintillavano, soggiunse subito, con la sua voce turbata da una emozione:
- Dallo spirito.
- Quale spirito? - domandò, con una risatina, il medico.
- Caracò, lo spirito che assiste don Pasqualino, - rispose enfaticamente il marchese.
- Voi ci credete, marchese? - ribattè Amati, gittandogli uno sguardo scrutatore.
- Come nella luce, - replicò il nobile, levando gli occhi al cielo, esaltatamente.
- E voi, signorina? - chiese il dottore a Bianca Maria, investigandone la fisonomia.
Ella fu lì lì per rispondere, che non ci credeva, che non ci voleva credere, che aveva grande paura di crederci: ma le parole le furono gelate sulla labbra, da uno sguardo stralunato del padre. Si vide, sulla faccia, lo sforzo che ella faceva per mandare indietro il suo grido di dolore e, vagamente, facendo un gesto largo, ella disse:
- Non so nulla di ciò.
L’assistito sogguardava obliquamente il medico: e per la prima volta alla espressione di misteriosa umiltà, si frammischiò, sul suo volto, un’aria di rabbia. Torse il collo, come se trangugiasse un osso duro. E tirò nascostamente per la manica il marchese Cavalcanti, per andarsene: ma costui, nelle parole, nel sogghigno di Amati, aveva intravvisto lo scetticismo più completo: e come tutti gli allucinati, sentì in sé crescere a mille doppii la fede nello spirito assistente e provò un grande ardore di convincere Amati:
- Voi non credete allo spirito, dottore?
- No - disse seccamente costui.
- Né allo spirito buono, né al cattivo?
- A nessuno di essi.
- E perché?
- Perché non esistono.
- Chi ve lo ha detto?
- Ma la scienza, ma i fatti: basta, mi pare, - replicò semplicemente il dottore.
- La scienza è sacrilega! - gridò il marchese, irritandosi, - e i fatti hanno dimostrato che gli spiriti esistono. Posso dimostrarvelo.
- È inutile: non ci crederei, - e sorrideva lievemente per compatimento.
- Gli spiriti ci sono, signor mio, ed è in mala fede che i cosiddetti increduli negano la loro esistenza: in mala fede, perché non sanno i fatti e li dichiarano falsi. Poiché non hanno visto nulla, coi loro occhi foderati di scetticismo, dicono che nulla vi sia. Mala fede, mala fede.
Il medico aveva sorriso di quella sfuriata: ma guardando Bianca Maria, vide che ella era alla tortura, intese che in quella discussione, forse, si celava il segreto di quella ostilità. Ed essendo abituato alle escandescenze degli infermi e degli esaltati, guardava il marchese con l’occhio medico, seguendo le violente fasi di quell’eccitazione.
- Mala fede, mala fede, - strillava il marchese, dando le volte nel salone e parlando a sé stesso. - Centinaia di galantuomini, di scienziati, di gentiluomini, di donne, hanno veduto, toccato, parlato con gli spiriti, hanno avuto con essi comunicazioni importanti, hanno stampato libri, grossi volumi, ed ecco che si nega, così, a priori. Ma che credete voi che sia, quest’assistenza degli spiriti?
Si era fermato innanzi ad Amati, dirigendogli questa domanda. Per quanto il medico non volesse aumentare, con la contraddizione, l’accesso di esaltamento di Formosa, la domanda era troppo diretta, per non rispondervi. Il medico guardò la fanciulla: e lesse in lei tanta ansietà segreta di conoscere il vero, la vide così agitata, che la sua credenza gli sfuggì nettamente dalle labbra:
- Credo che sia un impostura, - disse.
L’assistito levò gli occhi al cielo, pieni di lacrime. Una serenità si diffuse sul viso di Bianca Maria. Ma la voce di Cavalcanti fischiava di rabbia:
- Dunque, mi credete uno sciocco?
- No, ma l’animo vostro è troppo leale e generoso insieme, per non essere accessibile all’inganno.
- Frottole, frottole, - gridò il marchese, convulso. - Da qui non si esce: don Pasqualino è un impostore e io sono uno stupido.
- Nego la seconda parte, - replicò seccamente il dottore.
- Ma confermate la prima?
- Sì, - soggiunse, coraggiosamente, il medico.
- Come lo dimostrate?
- Non ho bisogno di dimostrarlo: rispondo, perché m’interrogate. D’altronde, ora che mi ricordo, don Pasqualino fu bastonato da due giuocatori, esasperati di non avere mai i numeri giusti. A voi, ha detto che è stato lo spirito Caracò…
- Finzioni, finzioni, la bastonatura dei giuocatori, per non rivelare il segreto dello spirito!
- Ma i due bastonatori furono arrestati e confrontati con lui, all’ospedale: debbono anzi essere stati condannati a un mese di carcere.
- È vero, questo, don Pasqualino? - domandò severamente il marchese.
L’assistito fece un atto di desolazione, quasi gli riescisse impossibile di difendersi contro un’accusa ingiusta. Ma il dottore era stato ferito, da quella domanda di conferma.
- Signor marchese, - disse gravemente, - io sono una persona troppo seria e troppo disinteressata, perché mi si metta in confronto con costui. Se per poco ho conquistato la vostra stima, in qualche modo, vi prego di risparmiarmi questa discussione.
- Sta bene, sta bene, - disse subito il marchese il cui fiero animo era accessibile a quanto si diceva in nome della lealtà. - Tronchiamo. Le discussioni fra scettici e credenti, non possono essere che dolorose. Andiamo, via, don Pasqualino: forse un giorno il dottore vi renderà giustizia. Andiamo; veggo anche che Bianca Maria soffre. Convincilo tu, il dottore, figliuola mia, - soggiunse il padre, non senza malizia.
- In che modo? - chiese costui, stupefatto.
- Ve lo dirà lei, - replicò, ghignando, Formosa, e a uno sguardo smarrito di sua figlia, soggiunse:
- Diglielo, diglielo quello che sai, te lo permetto, Bianca. A te, forse, crederà, tu sei innocente tu non hai interesse a ingannare, tu non sei un apostolo falso. Narragli tutto. Lo convertirai forse…
E risolutamente, mettendosi il cappello, prese il braccio dell’assistito, come per dargli una prova di affettuosa fiducia, dopo le ingiurie dettegli dal dottore. Il vecchio nobile, discendente da Guido Cavalcanti, con sei secoli di nobiltà, mise il suo braccio sotto quello del truffaldino ignobile, di cui la menzogna gli era stata provata pochi minuti innanzi. Ma chi badò a questo atto dove ancora una volta naufragava la dignità di Carlo Cavalcanti? I due erano già fuori di casa e Bianca Maria e il dottore stavano in silenzio, in un silenzio dove pareva si maturasse tutto il dramma di quell’amore. Con una sagacia incosciente, dicendo a sua figlia di parlare, di narrar tutto al dottore, lasciandoli soli, con questo segreto fra loro, il marchese si era vendicato del coraggioso scetticismo di Amati e della passività di sua figlia. Aveva acceso la miccia di una mina, allegramente, ferocemente, e ora si allontanava, lasciando che la miccia consumata desse fuoco alle polveri e che crollasse, così, tutto l’edificio di quell’amore.
- Dunque? - disse il dottore, finalmente, con l’ansia di conoscere il vero.
- Che cosa? - mormorò ella, uscendo dalle sue riflessioni dolorose.
- Non dovete dirmi qualche cosa? Vostro padre non ve lo ha consigliato, quasi imposto?
Ella trasalì, il tono della voce di Amati era aspro. Non le aveva mai parlato così. E offesa da quell’asprezza, la sua anima si chiuse.
- Io non so niente, - ella rispose, a voce bassa. - Non ho nulla da dirvi.
Egli si morse le labbra, per la collera. Ma quale ispirazione maligna lo aveva deciso a mettersi fra quel padre e quella figliuola, in quell’ambiente così bizzarro di follia, d’infermità, di miseria e di vizio? Che veniva egli a fare, con la sua rude onestà, con la sua integrità popolana, in quell’esistenza che fluttuava fra la demenza e la povertà? Che impicci, che legami creava al proprio cuore, che sinora si era mantenuto puro e tranquillo? L’ora suprema era giunta. Bisognava spezzare bruscamente ogni cosa, se ancora egli voleva scampare da quei vincoli, dove tutti i suoi antichi istinti erano soffocati. Si ribellava, finalmente, a quei complicati romanzi, a quei sottili e tormentosi drammi: egli era l’uomo dalla semplice storia. Si levò, risolutamente dicendo:
- Addio.
Ella anche si levò. Comprendeva che prima suo padre e, dopo, lei, avevano esaurito la pazienza di quel leone.
E fiocamente, gli chiese:
- Domani, verrete?
- No.
- Un altro giorno, dunque?
- No.
- Qualche altro giorno, quando non sarete occupato?
- No.
Le tre negazioni erano state pronunziate assai recisamente. Bianca Maria fremeva di spasimo. Egli andava via, non sarebbe più ritornato. Aveva ragione. Era un uomo forte e serio, dedito al suo lavoro, a un lavoro che era una carità e una salvazione, e lo si travolgeva in una decadenza della ragione, della dignità, in una compagnia dove egli faceva la parte di un amico, di un salvatore, ed era invece offeso, insultato e, finalmente, preferito a un ciarlatano, a un truffatore. Aveva ragione di partire, di non tornare mai più. Ma ella si sentiva perduta, in preda agli attacchi della demenza, se lo lasciava partire, e guardandolo supplichevolmente, gli chiese:
- Che resterei a fare? Debbo farmi scacciare, domani, da vostro padre? Perché ho sopportato la scena di poc’anzi, dovrei sopportare ancora?
- Io non vi ho fatto nulla, - disse lei, torcendosi le mani delicate, per frenare il suo strazio.
- Addio, - replicò lui, senz’altro.
- Non ve ne andate, non ve ne andate!
E due grosse lacrime che non aveva potuto frenare, le si disfecero sulle guance. Egli aveva resistito alla voce, alle preghiere, a quel pallore, a quella commozione, ma alle lacrime non resistette. Era un uomo duro nella sua grandezza, ma il pianto di una donna o di un bimbo gli faceva dimenticare tutto. Vedendolo tornare indietro, sedersi di nuovo, vinto dalla sua naturale bontà, ella non resistette al pianto, che le soffocava la gola. Ricaduta a sedere, con la faccia nascosta nel fazzoletto, singhiozzava.
- Non piangete, - le mormorò lui, sentendo che quel pianto le faceva bene, ma non potendo sopportarlo.
Ma perché ella si calmasse, ci volle qualche tempo: aveva troppo represso i suoi sentimenti, perché lo scoppio non fosse clamoroso e lungo. La serata di giugno era assai calda e il soffio dello scirocco deprimeva i nervi delle persone sofferenti. Solo, di lontano, dalla salita Pontecorvo, un suono brillante e plorante di mandolino arrivava.
- Ascoltate, - cominciò a dire il medico, senza asprezza, ma freddamente, quando vide che ella era diventata più tranquilla, - vi prego di ascoltarmi in pace. Io sono un intruso nella vostra famiglia: non m’interrompete, so bene quel che mi volete dire. Vi ho curata, una, due volte, ma questo era, è il dover mio, e voi non avete con me nessun obbligo di riconoscenza. Non protestate, conosco la misura dei sentimenti umani. Sono dunque un intruso. Fra me e voi, non vi è nulla di comune: siamo gente diversa. Non importa: io che non sogno mai, vedendo che deperivate qui, vedendo che avevate bisogno di una grande, luminosa, salubre solitudine campestre, ho tentato di farvi uscire di qui. Se il mio sogno non si è avverato, di chi è la colpa, mia o vostra?
- È mia, - ella disse, umilmente.
- Un giorno, - riprese il dottore, maggior lentezza, come se ripensasse, parlando, a quello che era accaduto, - un giorno voi, proprio voi, mi avete detto che volevate andar via, che vi portassi via. Rammentatelo…
- Me lo rammento…
- …ho creduto… è inutile che vi dica quello che ho creduto, mi debbo essere ingannato, ma qualunque uomo, al mio posto, si sarebbe ingannato. Ebbene, quando il nostro sogno si poteva avverare, Bianca, ditelo voi, chi lo ha fatto dileguare?
- Io stessa, io stessa!
- Vedete bene, che io, l’uomo della realtà, l’uomo dell’azione, avevo troppo sognato: e che presso vostro padre, presso voi, sono un qualunque intruso, che si mischia dei fatti vostri, senz’averne il diritto e senza risultato. E d’altra parte, Bianca, credetelo, tutta la mia vita è stata perturbata dal desiderio di vedervi sana e felice, dalla lotta che ha questo desiderio, lotta inutile, lotta sterile, in cui voi stessa mi combattete! Non facevo dunque bene ad andarmene, a non tornare mai più?
- Avete ragione, - disse ella, con gesto desolato.
- …pure, - riprese Amati con uno sforzo per celare la sua agitazione, - credo… non credo, anzi sono certo, che questa partenza m’imporrebbe un cruccio grave. Forse… forse anche voi ne soffrireste… - e la interrogò con lo sguardo.
- Io ne morrei, - pronunziò lei, profondamente e candidamente.
- Non dite ciò. Ma per restare accanto a voi, Bianca Maria, per tentare anche contro la vostra debolezza, anche contro la vostra volontà, la salvezza della vostra salute e della vostra fortuna, io bisogna che sia l’amico vostro, il più grande vostro amico, l’unico amico vostro, intendete? Bisogna che abbia tutta la vostra confidenza, tutta la vostra fiducia, bisogna che dopo Dio, crediate in me! Vedete, qui, in casa vostra, in vostro padre, in voi, vi è un segreto doloroso, che tutti invano tentate nascondere, ma che la febbre del marchese Cavalcanti rivela confusamente, oscuramente, in ogni momento. Oltre a questa febbre, che è una malattia, una passione e un vizio, insieme, vi è qualche cosa di anche più crudele, che è il vostro tormento, e che voi, per pietà filiale, per rispetto alla autorità paterna, chi sa per quale sgomento, mi nascondete. Bianca, Bianca, se io non so tutto, debbo andar via, per sempre, e lasciar perdere la vostra vita e perdermi io stesso, inguaribilmente colpito!
- Io vi voglio tanto bene, - diss’ella, abbandonandogli il dominio della sua anima.
- Oh cara, cara, - le sussurrò lui, carezzandone i capelli bruni, mentre la testa della fanciulla si riposava, per un minuto, su quel forte e fedele petto di uomo.
- Promettetemi una cosa… - chiese ella, con atto infantile.
- Ditela…
- Promettetemi che non giudicherete male mio padre, promettetelo! Sappiatelo, egli è il più buono, il più affettuoso fra i padri; qualunque figliuola sarebbe gloriosa di averlo per padre; io stessa ho per lui una reverenza, un amore che nulla può far crollare. Io voglio che voi non lo accusiate, di nulla, dovete promettermelo: il suo traviamento fatale è ancora una forma della sua bontà, egli è così infelice, così infelice, in fondo!
- Vi prometto, Bianca, di essere indulgente, come voi potete essere indulgente.
- Mi basta. È un infelice, amico mio, da anni e anni che la nostra casa è declinata. Quando, perché? Non mi rammento, ero piccina: non so neppure di chi sia colpa, questa decadenza, non voglio saperlo. Mi ricordo solo che mia madre era una creatura pallida e languente, dalle sottili mani sempre gelide…
- Come le vostre, povera cara.
- Come le mie, - replicò ella, con uno smorto sorriso.
- Di anemia… di languore… negli ultimi giorni, non sempre il suo spirito era presente…
- Delirava?
- Sì: dolcemente, - ella rispose, arrossendo sino alla fronte.
- Non pensate a ciò, - disse lui, intuendo la causa di quel rossore.
- Mio padre soffriva tanto delle sofferenze di mia madre! E da anni, lo teneva un gran sogno, quello di rifare la fortuna di casa Cavalcanti, di far vivere a mia madre e a me una vita magnifica, di tenere corte bandita, e di prodigare in elemosine, in un giorno, quanto… quanto ora ci serve a vivere per un anno, - soggiunse, con un nodo di pianto alla gola.
- Calmatevi, cara, non vi agitate.
- No, no, lasciatemi dire, se non parlo, soffoco. Un grande sogno, grande come il cuore di Carlo Cavalcanti, nobile e generoso come il suo animo, qualche cosa di così nobile e generoso, che mia madre e io gli consacrammo una gratitudine che non finirà con la vita, che continuerà in quel mondo delle anime, oltre la tomba, dove ancora si sente, si ama e si prega. Ma nella sua accesa fantasia, egli desiderò un mezzo pronto, bizzarro, dalle forme amplissime e immediate, per realizzare questa fortuna: un mezzo dovuto al caso, poiché un Cavalcanti non lavora e non fa speculazione…
- Lo so.
- La sciagura nostra è nota a quanti ci avvicinano, - riprese ella, fremendo di dolore. - Una così grande sciagura, a coronare tutte le altre! Una sciagura per cui è morta mia madre, di mali fisici e morali, una sciagura in cui si è sommersa, prima e dopo, tutta la nostra fortuna; una sciagura che mi ha tolto il cuore di mio padre e che dopo aver distrutto tutto quello che era a me più caro, mi darà alla miseria e alla morte!
- Non temete, non temete, tutto ha rimedio, - disse lui, vagamente, cercando di attenuare quell’impeto di desolazione.
- È irrimediabile! - disse lei, profondamente. - Mia madre, morendo, in un lucido intervallo, baciandomi, mi disse: «Non giudicare tuo padre, figliuola mia; non esser mai dura con lui; obbedisci, obbedisci. La passione che lo divora e di cui io muoio, non può che crescere con gli anni: questa febbre peggiorerà, io non l’ho guarita, tu non la guarirai. Lascialo in questo suo sogno; non lo tormentare; se sei infelice, raccomandati a Dio; ma rispetta questo vecchio, che ha per solo desiderio la nostra felicità e che mi uccide per questo, che ti farà soffrire atrocemente, sempre essendo nobile e generoso. Abbi pietà di tuo padre, intendi? Solo così potrai morire tranquilla di coscienza, come io muoio». Aveva ragione, mia madre egli è diventato, con gli anni, più infelice, più fantastico, inguaribile oramai dimenticando tutto, tutto, mi capite? Un giorno o l’altro, io temo che questo vecchio gentiluomo, che questo padre di cui io debbo venerare la canizie, su cui vorrei riunito il rispetto del mondo dimentichi le leggi dell’onore, in qualche oscura combinazione di giuoco!
- Che Dio lo guardi! - augurò Amati, trasalendo.
- Che Dio vi ascolti! - esclamò lei. - Ma prego tanto, e il male si fa sempre più aspro. Se sapeste! Qui manchiamo di tutto; è la prima volta che parlo di queste cose, a qualcuno; tremo dalla vergogna, ma non posso celarvi niente. Egli ha venduto tutto, prima gli oggetti d’arte, poi i mobili, finanche i pochi gioielli che mi aveva serbati mia madre, ed egli l’adorava! finanche i ritratti dei vecchi Cavalcanti. mentre è così fiero della sua stirpe! finanche le lampade di argento della cappella, ed è un credente! Io vivo con questi due vecchi servi, così fedeli che non li ha potuti allontanare né la sciagura né la povertà! Egli non li paga, costoro servono casa Cavalcanti senza esser pagati, capite? Ed è al loro studio sottile, se la casa continua ad andare avanti, se abbiamo da mangiare la mattina e da accendere il lume alla sera! Io sollevo innanzi a voi i veli del santo pudore familiare, non mi tradite!
Egli si chinò sulla mano che Bianca Maria gli stendeva e la baciò: era la conferma della sua promessa.
- Tutto questo denaro, ed altro che se ne procura non so come, non voglio saper come, ho paura di saper come, va al giuoco: il venerdì e il sabato egli è demente. Vengono a trovarlo altri miserabili simili a quell’assistito, il cui solo nome mi fa trasalire di onta e di paura; fanno conciliaboli bizzarri e spaventosi; si esaltano, gridano, litigano, proferiscono parole incomprensibili in un gergo oscuro. Questi sono i suoi amici: i gentiluomini del suo ceto, i suoi parenti, lo hanno abbandonato. Forse… cercò loro denaro; ne ebbe forse senza restituirlo: o forse è l’alito istesso della sciagura che li ha fatti fuggire. Questi cabalisti, questi uomini che vedono - e rabbrividì, guardandosi intorno - gli levano il suo denaro, lo eccitano al giuoco. E il giorno si approssima in cui mancherà di tutto, e non potrà giuocare, e in quel giorno, Dio mio, Dio mio, illuminatelo voi, se non volete farci tutti perire, col nostro nome e con la nostra casa!
- Bianca, Bianca, vi scongiuro di calmarvi, - disse lui, allarmato da quell’eccitamento, seguendone le variazioni con la mente del medico e col cuore dell’uomo.
- Non posso! - esclamò ella. - Non vi ho detto tutto. Ascoltate, io sono una povera creatura debole; il sangue è povero e lento, nelle mie vene, voi lo sapete, voi me lo avete detto; ho vissuto fra questa triste casa e il convento di mia zia, cioè in compagnia di mio padre, sempre in preda alle sue fantasie, e in compagnia di mia zia, a cui la fede dà visioni quasi profetiche; in questa casa è morta mia madre: e come la passione del giuoco è diventata allucinazione nella mente di mio padre, l’allucinazione si è infiltrata in me contro la mia volontà. Mio padre mi parla di ombre, di fantasime, di spiriti, in tutte le ore, massime in quelle della sera e della notte, e io ci credo: intendete, voi, che vi è di orribile, in ciò? La luce del sole, la vista delle persone cancellano questi terrori: ma quando scende la sera, ma quando questa mia casa si empie di tenebre, ma quando mio padre mi parla dello spirito, il mio sangue si gela, il cuore arresta o precipita i suoi movimenti: io mi sento morire dallo spavento. Misteriosi rumori mi ronzano nelle orecchie, passi leggieri, voci sommesse; veggo dinanzi agli occhi della mia fantasia passare spettri ammantati di bianco, e guardarmi, e lagrimare, guardandomi; mi pare che mani evanescenti mi carezzino i capelli; mi pare di sentire aliti gelidi sulle guancie, e le mie notti, oramai, non sono che una lunga veglia affannosa, o un sonno lieve turbato da visioni!
- Questi spiriti non esistono, Bianca, - disse lui, con voce ferma e dolce.
- Ah io sono così debole, così inetta a difendermi, contro le allucinazioni! Quando ho riconquistato un poco di tranquillità, ecco, mio padre, per fantasia propria, o per bieco suggerimento di quell’assistito, viene a tormentarmi. Vuole che io veda: e senza curarsi della mia debolezza, della mia paura, senza capire la tortura che mi dà, mi parla dello spirito, vuole che io lo evochi, io che sono una fanciulla, io che sono innocente! Invano io tento di resistere, invano io mi dibatto, invano io chiedo a mio padre di risparmiarmi, di non farmi bere questo calice amaro, egli è ostinato, egli è acciecato, egli vuole che io veda lo spirito, e che gli chieda i numeri da giuocare. Ed è così forte l’influenza che mio padre esercita su me, è così terribile il modo con cui egli mi comunica la sua follia, che io finirò per essere come lui, una povera allucinata, consumantesi fra le visioni delle sue notti, e le ardenti delusioni delle sue giornate!
Ella si nascose il volto fra le mani, convulsa. Il dottore la guardava esterrefatto, non osando più dirle niente.
- E ancora non sapete tutto, - riprese ella convulsamente. - Un giorno, voi mi avete scritto una lettera, una buona lettera confortante, proponendomi di partire, di andare da vostra madre. Che conforto è stato quello! Ah avrei finalmente fuggito questa casa, di cui ogni vano nero di porta, alla sera, mi fa paura, di cui ogni mobile assume forme spettrali: sarei andata dove vi è luce, sole, calore, e gioia. Ebbene, in quella notte, preso da un accesso di stravaganza, mio padre è venuto nella mia stanza. In quell’ora, al chiaror vago di una lampada, svegliandomi dal sonno, buttandomi in un sogno con le sue parole, non curando le mie preghiere, non sentendo che mi faceva agonizzare, per due ore egli mi parlò dello spirito che doveva apparirmi, che era lì lì per apparirmi, che mi avrebbe detto le parole sacre. E tenendomi le mani, soffiandomi il suo alito nella faccia, comunicandomi il suo ardore e la sua fede, egli ha ottenuto il suo scopo.
- In che modo?
- Io ho veduto lo spirito, amico mio.
- Come, veduto?
- Come vi vedo.
- Era la febbre: non vi è nulla di ciò, Bianca, - disse lui, aspramente, per ricondurre quella mente smarrita alla pace.
- Voi lo dite, vi credo. Ma quando voi sarete partito, quando io avrò finito di pregare, di leggere, quando sarò sola nella mia stanza, fra le penombre della lampada, io vedrò la visione di quella notte, e la vertigine mi coglierà dì nuovo, facendo roteare il mio cervello e battere i miei denti! Ma mio padre, oramai, disperato, perché i numeri di quella notte non sono mai usciti, dice che io non seppi interpretarli, vuole che io evochi di nuovo lo spirito! Ma egli mi crede assistita, oramai, e non mi lascia più un’ora di riposo! Ma io non sono sua figlia oramai, egli mi considera solo come intermediaria fra lui e la fortuna, e sorveglia ogni mia parola, e mi guarda talvolta con invidia, talvolta con alterezza, e non so quali strane discipline vada pensando, perché io possa vedere, di nuovo, non so quali bizzarre privazioni egli voglia impormi, perché la mia anima sia pura come il mio corpo e possa avere la veggenza lucidissima! Nei primi giorni della settimana mi lascia più tranquilla, ma la notte del giovedì egli viene da me e mi prega, capite, mi prega di chiamare lo spirito: questo vecchio bianco, a cui io bacio la mano per rispetto, s’inginocchia innanzi a me, come innanzi all’altare, per commuovermi! In quella del venerdì, le sue preghiere diventano furiose, egli non si accorge delle convulsioni di spavento che squassano il mio corpo, egli crede che siano l’approssimazione dello spirito! L’altra notte, per sottrarmi a questa tortura che mi pareva ormai insopportabile, ho chiuso a chiave la mia porta, ho avuto il coraggio di negare l’accesso della mia stanza, a mio padre! Ebbene, egli è venuto a bussare, prima piano, poi forte; mi ha parlato, supplicando, comandando, passando dalla collera all’umiliazione, voleva che io vedessi lo spirito, a forza, a forza, quella notte - io mi turava le orecchie, per non udire, nascondevo la testa nel cuscino, mordevo le lenzuola per soffocare i miei singhiozzi, venti volte avrei voluto aprire quella porta, ma il terrore m’inchiodava sul letto. Mio padre ha pianto! Oh mamma mia, mamma mia, io ti ho disubbidito! Tu hai saputo morire per mio padre, ma io non so imitarti!
- Poveretta, poveretta, - mormorava lui, tentando di cullarne l’esaltamento con quella dolce parola di compatimento, carezzandone le mani, quasi per addormentarla, per magnetizzarla.
- Oh sì, sì, compatitemi, perché io sono così misera, così disgraziata, che l’ultima mendicante della via mi fa invidia: compatitemi perché la sola persona che dovrebbe amarmi, cercare la mia salute e la mia felicità, sogna invece di darmi del denaro, molto denaro, e m’impone per questo tutti i sacrifici materiali e morali; compatitemi, perché sono una disgraziata creatura, votata a una oscura catastrofe; compatitemi, perché in tutto il vasto mondo, io non trovo altro, per me, che la vostra compassione!
Tacquero. Il sangue era salito alle guance pallide di Bianca Maria; gli occhi di lei scintillavano; e le parole dove si era sfogato tutto il suo cuore, erano uscite convulsamente, tumultuariamente dalle sue labbra. Taceva, ora. Aveva detto tutto. L’aspro segreto che torturava implacabilmente la sua esistenza, evocato dall’amore, aveva dato i brividi di una paurosa sorpresa, al forte uomo che l’ascoltava. Egli taceva, cercando di dominare la propria stupefazione, cercando di riunire le proprie idee confuse. Certo, egli era avvezzo a udire il racconto lugubre di tutte le miserie spirituali e fisiche dei suoi ammalati, egli aveva sollevato i veli di tutte le onte, di tutte le corruzioni, e come al confessore si erano aperti a lui, affannosi e contriti, i cuori che racchiudevano i più orrendi umani misteri. Ma in verità, l’affanno di Bianca Maria era così profondo, attaccava così profondamente le sorgenti stesse della vita, che lo aveva fatto sgomentare, dinanzi allo spettacolo di una miseria inaudita. Ma quella povera creatura che si consumava sotto le strette di un morbo non suo, che aveva il suo carnefice in suo padre, quella povera buona e bella creatura, era la donna che egli amava, senza la quale egli non poteva vivere, la cui felicità, la cui salute gli era necessaria, più della propria. Perturbato, non sapendo ancora raccapezzarsi innanzi a quel duplice problema di malattia e di passione, che rendeva il marchese Cavalcanti l’uccisore della sua famiglia, egli non trovava nulla da dire a Bianca Maria, per confortarla. Adesso, ella era accasciata: e provava un vago rimorso di aver accusato suo padre. Ma non doveva Antonio Amati essere il suo salvatore? Non si sentiva ella tranquilla, sicura, forte, quando egli era là? E traendosi dal suo abbattimento, levandogli gli occhi nel volto, timidamente gli disse:
- Voi non dite che io sono cattiva ed ingrata, nevvero?
- No, cara.
- Voi non lo giudicate male, lui?
Io lo guarirò, - egli disse, pensando.