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13 - LA PASTICCERIA IN FALLIMENTO
Cesarino e Luisella Fragalà avevano chiuso bottega, quella sera piovosa di estate, mezz’ora prima del solito, alle nove. Tanto, con quel cattivo tempo, con quell’impetuoso vento caldo sciroccale, che faceva roteare la calda pioggia, poca gente era nelle vie e nessuno veniva a comperare due chili di caffè, una bottiglia di cognac o una bomboniera di raso, a quell’ora, con quella tempesta nell’aria: non entrava, ogni tanto, che qualche compratore di venti centesimi di pasticche per la tosse, mettendo uno sbuffo di vento nella calda bottega, sporcando il marmo del pavimento con le scarpe umide. Quella serata era stata cattiva, come tutta l’estate, del resto, e Luisella, scorata, non aveva avuto neppure il coraggio di andare a villeggiare a Santo Jorio, uno dei paeselli intorno Napoli, favoriti della borghesia. Troppe nubi ella vedeva aggravarsi sulla sua pace familiare, simile al cielo napoletano, perché ella avesse il coraggio di allontanarsi da Napoli e dalla bottega.
Oramai la sua mite gloria di negoziantessa ricca, che se ne sta in casa sua, coi figli, senza curarsi del commercio, era tramontata: ed ella lasciava l’appartamento del palazzo Rossi che era la sua gioia di borghese ambiziosa, per rientrarvi solo all’ora di pranzo, per uscirne subito, di nuovo, e tornarvi solamente la sera, per dormire. Altro che stare coi figli! La piccola Agnesina che adesso aveva tre anni ed era una creaturina florida, pacifica e saggia, veniva spesso a trovare la mamma in bottega, senza chiedere né dolci né confetti, nascosta dietro il bancone, occupata a tagliar silenziosamente quelle striscioline sottili di carta che si mettono, come se fosse bambagia, fra un dolce e l’altro, nelle scatole che si mandano in provincia. Ella si rendeva utile, Agnesina, senza far rumore, senza dar fastidio, purché non la mandassero via, purché non la lasciassero a casa, con la cuoca e la cameriera, che si bisticciavano sempre. La madre, quando l’aveva svezzata, avrebbe voluto darsi il lusso di una bambinaia, magari toscana, perché la creaturina gentile non imparasse il dialetto napoletano: ma al momento di farlo, pensando, sentendo la sottile amarezza di certi presentimenti, aveva preferito rinunziarvi. La fanciulletta sarebbe cresciuta su, alla meglio, e per non starne tante ore separata, per non vederne la malinconia, Luisella permetteva che la bambina le fosse portata in bottega, ogni tanto. Quando Agnesina vedeva andar via la madre, al mattino, le correva dietro, senza piangere, senza gridare, e le si attaccava alle gambe, senza dir nulla, levando il viso verso Luisella, interrogandola con gli occhi.
La mamma, intenerita, capiva, e per consolarla, vedendola così quieta, così obbediente, le faceva la promessa, le diceva che sarebbe venuta anche lei, più tardi, più tardi, alla bottega. Quella scioglieva le piccole braccia, restando persuasa, come se si rassegnasse ad aspettare. E quando schiudeva la porta a cristalli, entrando, col suo semplice vestitino di percalla, con il gran cappello di paglia sul capo, ella sorrideva alla madre, come se già fosse grande, e posatamente andava a riporre il suo cappello nella retrobottega, senza aver neppure un accesso di golosità, ben felice di stare accanto alla madre, dietro l’alto bancone.
Soltanto la mamma, passato il momento in cui arrivava la sua creaturina e che le metteva un sorriso nell’anima, si rattristava. Ah non questo aveva sognato, di ritornare a bottega, ogni giorno, per dodici ore, a vender caramelle e cioccolata, a riempire sacchetti di carta e scatole di legno, sempre pronta al servizio del pubblico, mentre la piccolina tagliava le sue cartine, taciturnamente, con la precisione di una fanciulla grande; non questo aveva sognato, per la sua bimba, che fosse anch’ella una bottegaia. Luisella, certo, non disprezzava la vita del commerciante: ma avrebbe voluto esser donna di casa e non di bottega, massaia e non venditrice di confetti, madre di famiglia, e non commessa di magazzino. Non questo aveva sognato! Avrebbe voluto cucir lei la biancheria, i vestiti della sua bimba, insegnarle qualche cosa, la poesiola a Pasqua e a Natale, il modo di far la calza, il cucito, il ricamo, tutto quello che è l’umile ma glorioso retaggio delle spose felici. Ma invece, quella vita col pubblico, tenendo un sorriso stereotipato sulle labbra, non potendo scambiare una parola in segreto col marito e con la figlia, non potendo raccogliersi nei suoi pensieri, un sol momento!
Ella aveva assunto quell’obbligo di tenere la vendita, in bottega, sentendo l’imbarazzo finanziario in cui si trovava il marito. Le era parso che in bottega i commessi lo rubassero, che avessero cattivi modi con gli avventori, che vi fosse, insomma, bisogno di una donna: per questo, a poco a poco, aveva fatto il sacrificio di tutte le sue giornate. Adesso nessuna molla dell’ingranaggio commerciale le sfuggiva, e mentre ella era gelosa calcolatrice anche del guadagno di due soldi, teneva la sua casa sopra un piede di crescente economia.
Eppure, questo non bastava, certamente, perché le preoccupazioni di suo marito ricominciavano sempre più spesso: doveva dipendere dalla trattazione degli affari grandi, la compra dello zucchero, del fior di farina, del caffè, dei liquori, in cui ella non poteva entrare e da cui Cesarino l’aveva tenuta sempre lontana, calcolatamente. Pure, i prezzi della merce li conosceva e le facea sempre più meraviglia il disagio in cui si trovavano. Quando Cesarino, non potendo nasconderle i suoi turbamenti, finiva per confessarle che non poteva pagare una cambiale, che gli mancava la paga settimanale da dare agli operai della sua pasticceria, ella levava le sopracciglia, in una sorpresa dolorosa, mormorando:
Cesarino cercava d’ingarbugliarla, dicendole una quantità di fandonie sui dazi, sulle tariffe dei coloniali, parlandole vagamente di certe perdite, in certe speculazioni non sue, dicendole che tutto il commercio andava male, tanto che ella, fattasi pensosa, finiva per dire:
- Allora è meglio chiuder bottega.
- No, per carità! - gridava lui.
Ahi, che ella aveva capito, finalmente, la sua disgrazia! Tre o quattro volte, senza volerlo fare apposta, aveva scoperto che Cesarino non aveva più l’antica lealtà e che le diceva delle bugie: e questo le aveva dato un sussulto di paura, temendone mali peggiori. Quando facevano i conti, insieme, egli diceva di aver pagato quella tal fattura e non era vero, o l’aveva pagata in parte: egli diventava mal pagatore. I due padroni di casa, dell’appartamento e della bottega, si erano lagnati più volte, avevano anche essi i loro pesi, non potevano aspettare tanto tempo il loro denaro. Ella aveva scoperto questo, con una viva, segreta angoscia: e quando interrogava severamente suo marito, costui impallidiva, arrossiva, balbettava, rivelando la sua nascosta colpa, in tutta la sua attitudine. Per un momento, Luisella aveva creduto di essere ingannata per un’altra donna, e le fiamme della gelosia le avevano arso il sangue: ma Cesarino era sempre così tenero, così innamorato così realmente e vividamente appassionato per sua moglie, che ella si era rassicurata. No, non era questo.
Aveva stentato dapprima a comprendere quale sottile elemento dissolvente disperdesse i quattrini della sua casa, scoprendo sotto le crescenti preoccupazioni, le bugie dolorose, i debiti che aumentavano, ingrossavano sempre, fatalmente: non arrivava a capire per quale ferita piccina, a una a una, stillassero via le goccie del sangue di casa Fragalà. Invano prosperava la bottega, invano ella faceva prodigi di economie, il denaro spariva, spariva, sentendo ella il vuoto sotto la solidità apparente della loro casa commerciale sentendo il languore irrimediabile di un corpo a cui il sangue va mancando. Ma non aveva veduta la ragione: una donna no, intanto: e chi, e che cosa allora? Solo a furia di indagare minutamente e amorosamente tutta la vita quotidiana di suo marito, ella aveva finito per capire.
Anzi tutto Cesare Fragalà era caduto nelle abitudini di tutti i cabalisti arrabbiati e invece di lacerare i polizzini del lotto che giuocava ogni settimana, si lasciava andare a conservarli, a paragonarli fra loro, a farvi gli studii sopra: e un giorno, nella tasca di una giacchetta, Luisella ne aveva trovato un fascio, tutto quello di una settimana, quattro o cinquecento franchi buttati così, dati al vorace governo, dati a un essere impersonale e odioso, per tentare una fortuna inafferrabile. Forse, malgrado lo sgomento che la colse il quel minuto, fra l’abbagliamento che l’acciecava, forse ella pensò, che quella era l’aberrazione di una settimana sola. Ma troppo ingenuo era Cesarino, nel dissimulare: e adesso, gli occhi esperti di Luisella vedevano che il venerdì era per lui una giornata di agitazione suprema, vedevano la nervosità delle prime ore del sabato, e l’accasciamento delle ore serotine: e già il cuore di Luisella si divideva fra due acuti dolori che si combattevano, quello di veder fuggire per sempre la loro prosperità e quello di veder Cesarino in preda a una febbre morale inguaribile.
In lei cominciava quel periodo funesto, in cui, vedendo una persona amata in preda a una tragica passione, si soffre, non osando neppure contrastargliene il pascolo. Ancora ella pazientava, rifuggendo dall’idea di avere una grande spiegazione con suo marito per rimproverargli il suo vizio: ancora ella sperava, che questa sarebbe stata una fiamma passeggiera. Ma a farle crollare le sue speranze, giorno per giorno, veniva l’apparizione di don Pasqualino De Feo, quell’assistito, che gironzava continuamente intorno a suo marito, alla lontana, cercando di non farsi vedere da lei: ma ella lo indovinava, come la donna innamorata indovina la presenza della rivale, ella sentiva la malaugurata presenza di quell’ignobile straccione, dietro un vicolo, alla cantonata, sotto il portone, aspettando Cesarino, per cavargli ancora del denaro, per incitarlo un’altra volta al giuoco, per dirgli delle cose stupide, falsamente fantastiche, da cui Cesarino caverebbe dei numeri, che non sarebbero sortiti mai dall’urna.
Ogni tanto, malgrado la prudenza di don Pasqualino che sembrava anche paura, Luisella lo scopriva, sotto il portone o alla cantonata, e lo guardava così freddamente, con tanto disdegno, che quello abbassava gli occhi e si allontanava, col suo andare goffo, di persona che non sa che cosa fare del suo corpo. Qualche volta, Cesarino Fragalà aveva nominato don Pasqualino innanzi a sua moglie, sogguardandola per vederne il mutamento del viso: e quel viso, delicatamente affettuoso, si era fatto gelido, nell’espressione, le sopracciglia si erano aggrottate. Il marito non aveva osato nominarlo più quell’assistito. Anzi aveva dovuto avvertirlo dell’astio di sua moglie, così costui si era fatto più guardingo e per chiamare, ogni tanto, Cesarino Fragalà che era nel negozio, mandava un monelletto che vendeva i giornali all’angolo del vico Bianchi, allo Spirito Santo. Ma anche quegli appelli misteriosi, Luisella aveva imparato donde venissero e crollava il capo, vedendo il marito uscire di bottega, con un’aria falsamente disinvolta. E più l’assistito ronzava intorno, sempre vestito come un poveraccio, sempre lacero e sporco, e sempre succhiatore di denari, da tutti, più ella sentiva che la passione di suo marito non era il capriccio di un momento, ma un vizio incurabile.
Adesso, la notte del venerdì egli rientrava tardissimo, ed ella, fingendo di dormire, udiva benissimo che lui vegliava, inquieto, dando di volta nel letto, battendo la testa sui cuscini. E d’altronde, mentre la febbre di suo marito non diminuiva, la prosperità del magazzino scemava a vista d’occhio. I fornitori all’ingrosso, vedendo che Cesarino Fragalà chiedeva continuamente il rinnovo delle tratte, o pagava a stento una parte delle cambiali, si erano fatti diffidenti, sospendevano i loro invii, arrivavano finanche a spedire la merce contro assegno, il che è un grave indizio di sfiducia, una delle rovine del commerciante, quello di dover tenere la roba in dogana, senza aver denaro da prenderla, pagando magazzinaggio e sapendo che la merce si deteriora. La notizia che Cesarino Fragalà era poco solido, doveva esser corsa, dalla piazza di Napoli alle altre piazze, poiché egli cominciava a trovar chiuse tutte le porte, se non si presentava coi denari in mano, e l’aver firmato delle cambiali agli usurai, aveva finito di screditarlo. Ancora la sua reputazione e la sua fortuna resistevano, tanto più che era una reputazione collettiva, di tutti i Fragalà: ma non poteva durare, un ultimo colpo e anche l’integrità commerciale sarebbe sparita.
Adesso, era venuta la cattiva stagione estiva, con la mancanza dei provinciali, nel languore di tutte le forze napoletane, con la crisi che si andava accentuando, in tutte le classi che vivono dei forestieri, in questo paese senza industrie. Inutilmente Luisella Fragalà aveva rinunziato per la prima volta, in quell’anno, alla villeggiatura di Santo Jorio; non era servito a nulla: la merce era scarsa, in magazzino, per la diffidenza dei fornitori, e gli avventori erano più scarsi ancora per il pessimo tempo. Luisella non arrivava più a soffocare le preoccupazioni, e il bel volto giovanile aveva assunto un’aria grave, spesso il capo le si abbassava sul petto, ed ella pensava, come se l’anima si concentrasse nel più difficile dei problemi.
Da una parte, capiva che il male spirituale del marito andava sempre peggiorando, vedendolo così addolorato in certi momenti, da far stringere il cuore a chi lo guardava: e dall’altra veniva anche a colpirla la crudele stagione, in cui tutti soffrivano, ricchi e poveri, dello stesso male, poiché in questo grande paese tutto s’irradia, la gioia come il dolore, la buona fortuna come la mala sorte. Ah ella era decisa, oramai, a parlare: era decisa a interrogare il cuore del marito, poiché la situazione si faceva disperata, sarebbe stata perduta, fra poco tempo. Ben decisa, adesso, nel suo amoroso e forte cuore muliebre, ben decisa, baciando la sua creaturina così cara, così quieta, così leggiadramente saggia! Avrebbe parlato, avrebbe detto tutto. Già la vita le si era aggravata addosso, con tutte le sue responsabilità di sposa e di madre: era passato, per sempre, il lieto tempo dell’idillio, era venuta l’ora lunga e dolorosa, in cui vi era bisogno di tutto il suo coraggio, per vincere l’animo di Cesare. Era proprio una battaglia quella che voleva dare, quella sera, nella bottega chiusa, mentre fuori scrosciava tristemente la pioggia estiva.
Ed era il venerdì. Eppure per eccezione, Cesarino Fragalà in quella serata non era sparito dalla bottega, come soleva fare ogni settimana, appena imbruniva l’aria, per non rientrare a casa che alle tre di notte, quando l’ultimo botteghino di lotto era chiuso. Andava, veniva, nervosamente, e due volte che il solito monelletto strillone di giornali era apparso, per chiamarlo a nome di don Pasqualino, egli aveva risposto che quella persona aspettasse, perché egli era occupato. Pallida, trepidante, sentendosi venuta a un momento grave, la moglie seguiva, con lo sguardo obliquo, gli andirivieni del marito. Fuori, la pioggia batteva tristemente sui cristalli delle vetrine e il gas aveva aspetto di melanconica fiamma rossiccia.
- Chiudiamo? - disse il marito, impaziente.
- Chiudiamo, - disse ella, con un lieve sospiro, - tanto, non verrà nessuno.
E i due commessi, aiutati dal facchino e dal ragazzo delle commissioni, si sbrigarono a mettere le porte di ferro, a spegnere il gas di fuori, e dare una pulita generale, prima di andarsene per la porticina della dietrobottega, nel vicolo dei Bianchi. Presto, augurarono la buona notte, ad uno ad uno, e partirono. La bianca bottega, dalle scansie scintillanti di colori per le bomboniere, rimase illuminata da una sola fiammella. Luisella era seduta dietro il bancone, come al solito, e la piccola Agnesina si era addormentata sopra la sua seggiolina, con le ginocchia cosparse di sottili striscioline di carta. Cesare, ogni tanto, scompariva nella retrobottega, quasi non avesse pace. E non si decidevano, né l’uno né l’altro, a parlare, sentendo che era un grave punto, a cui si trovavano. Ella, soprattutto, si sentiva soffocare. E fu lui che parlò per il primo.
- Ascolta, Luisella, - disse, a voce bassa, - sai che cattiva stagione abbiamo avuta..
- Sì, - mormorò lei.
- Un vero disastro, ti assicuro, cara mia, che farebbe passar la voglia di far più il bottegaio. Tu lavori, tu fai economia, io lavoro e… si va di male in peggio…
- Questo, lo so, - mormorò lei, di nuovo, quasi infastidita da quelle querimonie.
- Non puoi misurare…non puoi sapere… bisognerebbe che tu trattassi direttamente con le case, per vedere che rovina.
- Vieni al fatto, - diss’ella, con una certa asprezza.
- Sei in collera? - chiese Cesare, umilmente.
- No, - ella rispose, con una intonazione strana.
- Perché avevo bisogno di un favore da te, di un così grande favore, che io mi vergogno finanche di chiedertelo.
- Parla, - disse ella, sormontando il senso di pena che le dava l’agitazione di suo marito.
- Ho da fare un pagamento, domani, nella mattinata…
- Sì… è una cambiale che scade, me ne ero scordato, una forte cambiale.
- E te ne eri scordato?
- Sai, sono un po’ stordito, da qualche tempo a questa parte… infine, debbo pagare e non sono pronto. Ho chiesto invano un rinnovo, una diminuzione, tutti vogliono il proprio denaro, adesso! Non posso pagare, non vi è denaro sulla piazza.
- E che vorresti? - diss’ella, guardandolo freddamente.
- Tu potresti aiutarmi, levarmi da questo imbarazzo, momentaneo, io ti restituirei subito il denaro.
- Io non ho denaro.
- Hai qualche oggetto prezioso… quegli orecchini di brillanti che ti donai… sono di valore, se ne può avere una bella somma.
- Vorresti venderli - diss’ella, chiudendo gli occhi, come se avesse avuto innanzi una visione orribile.
- Impegnarli, impegnarli, niente altro, per pochi giorni… si riprendono subito…
- Impegnare gli orecchini di brillanti?
- E la stella, la stella che ti ha donata don Gennaro Parascandolo, - disse lui, frettolosamente, ansiosamente.
Ella tacque, aveva abbassato il capo e guardava la sua bimba che dormiva placidissimamente; poi, sottovoce, ma con un fremito indomabile, disse al marito:
- Tu vuoi impegnare i miei gioielli, per giuocare al lotto.
- Non dire bugie. Puoi dirlo innanzi a me, innanzi a tua figlia, che non servono per il lotto?
- Non parlarmi così, Luisella, - balbettò lui, con le lacrime agli occhi.
- Servono per il lotto, abbi il coraggio del tuo vizio, non aggravarti la coscienza di menzogne, - replicò la moglie, con la ferocia della disperazione.
- Non è un vizio, Luisa, era a fin di bene che ho giuocato, a fin di bene, per te, per Agnesina…
- Un padre di famiglia non giuoca.
- Era per aprire il magazzino a San Ferdinando, mi ci volevano settantamila lire, Luisa, e non le avevo, sai che abbiamo tutto il denaro in giro.
- Non giuoca, un padre di famiglia.
- Per la felicità di noi tutti, Luisa, te lo giuro, credimi, per quanto voglio bene ad Agnesina!
- Tu non le vuoi bene: se le volessi bene, non giuocheresti.
- Luisella, non mortificarmi, non avvilirmi, sii buona, sai quanto ti ho amata, quanto ti amo.
- Non è vero; se mi amassi non giuocheresti, - gridò lei, esasperata.
Egli si buttò sopra una sediolina di ferro, appoggiando le braccia e la testa a un tavolinetto di marmo: si nascondeva la faccia fra le mani, non sapendo sopportare la collera di sua moglie e il peso dei suoi rimorsi. Non provava che un dolore grande, che un immenso dolore, sormontato solo da quel bisogno di denaro, acuto, trafiggente. E con quel cruccio, nuovamente, levò la testa e le disse:
- Luisella, se hai caro il mio onore, non farmi fare cattiva figura, domani: dammi i tuoi gioielli, te li ridarò lunedì.
- Prendi i gioielli, sono tuoi, - diss’ella lentamente, con gli occhi bassi: - Ma non dire che me li restituirai lunedì, poiché non è vero. Tutti i giuocatori mentiscono così. La roba impegnata non ritorna mai a casa. Prendi tutto. Che posso io dirti? Ero una povera ragazza senza dote e tu un ricco negoziante; ti sei degnato sposarmi e mi hai fatto cambiare stato; non debbo io ringraziarti di ciò, per tutta la vita? Prendi tutto, sei il padrone della casa, di me, di tua figlia. Oggi tu prenderai i gioielli e ne giuocherai il valore; domani venderai i mobili di prezzo, il rame della cucina, la biancheria di casa; si fa sempre così. Anche il marchese Cavalcanti, quello che abita sopra a noi, non ha fatto così? Sua figlia non ha più un tozzo di pane da mettere in bocca: e se il dottore Amati non li soccorresse segretamente, morirebbero di fame. Chi ci soccorrerà, noi, quando fra un anno, fra sei mesi, ci troveremo come loro? Chissà! Forse anche io impazzirò, come minaccia d’impazzire, quella povera signorina del terzo piano, lassù. Suo padre le fa apparire gli spiriti, è uno schianto, fra tutti quelli che la conoscono. Ma che farci! I padri, i mariti sono padroni. Prendi i brillanti, impegnali, vendili, gittali nell’abisso dove è caduto e si è perduto il tuo denaro, io non ci tengo più. Erano il mio orgoglio di sposa felice, quando li mettevo alle orecchie e nei capelli; quando aprivo il cassetto per guardarli, io benedicevo il tuo nome, Cesare, poiché fra le altre consolazioni, tu mi avevi dato questa. È finita, è finita, abbiamo chiuso il libro delle consolazioni, l’ultima parola è stata scritta.
- Luisella, per carità! - strillò lui, mezzo pazzo, sentendosi abbruciare la carne e l’anima da quelle roventi parole.
- La carità! La cercheremo noi, Cesare, fra breve. Oggi i brillanti, domani gli altri oggetti preziosi, poi tutto, tutto quello che possediamo, tutto sparirà, tutto sarà stato un fugace sogno, - replicò lei, guardando innanzi a sé, ostinatamente, come se già vedesse l’orribile spettacolo della decadenza.
- Eppure io ne ho bisogno, ne ho bisogno, - gridò lui, con la dolorosa cocciutaggine dell’uomo disperato, che sente solo l’impulso della sua tendenza malsana.
- Chi ti nega nulla? Anche Agnesina ha i suoi orecchinetti di perle, uniscili, la somma sarà più forte: la sua culla è ricca di merletti antichi, regalatile dalla signora Parascandolo, hanno un bel valore, prendili, aumenta la somma.
- Ascolta Luisella, ascolta, - riprese il marito affannosamente, l’emozione gli mozzava il fiato, - io ti giuro che questi denari non mi servono per giuocare, non avrei osato chiederli a te, che sei una santa donna, che hai mille ragioni di avvilirmi; ma è un debito per il giuoco che ho fatto! È un debito terribile, usurario, pel quale domani mi si minaccia il protesto, la citazione, il sequestro E questo non può essere, no, non può essere! Il negoziante a cui si protesta una cambiale, deve morire.
- È vero, - ella disse, piegando il capo.
- Forse… - egli soggiunse, dopo una brevissima esitazione, - forse ne avrei presa una piccola parte, di questo denaro, per tentare solo di rifarmi, solo per questo, Luisa…
- Ma insomma, - gridò la moglie, esasperata, - tu non puoi astenerti dal giuocare?
Egli tremò come un fanciullo colpevole e non rispose.
- Non puoi astenerti? - domandò lei, nuovamente, assalita dal più terribile fra gli sgomenti.
- Senti, senti, è una passione perfida, non sai che cosa sia, bisogna averla provata per conoscerla, bisogna aver palpitato e sognato, per sapere che è! Cominci a giuocare per ischerzo, per curiosità, per una piccola sfida buttata alla fortuna, e continui, punto sul vivo dalle delusioni, eccitato da un vago desiderio che si va formando: guai se prendi qualche cosa. un ambo, un piccolo terno! Guai, poiché ti appare la possibilità del guadagno, nella sua forma reale, poiché tu diventi certa, capisci, sei certa che guadagnerai una grossa somma, una immensa somma, poiché hai vinto la piccola, e ci rimetti non solo quello che hai guadagnato, ma il doppio, il triplo, nelle settimane che seguono la vincita, è il denaro del diavolo che ritorna all’inferno! Oh che passione, che passione, Luisa! Guai se non guadagni e guai se guadagni! Allora il sogno che per sette giorni ti alimenta l’esistenza e l’ottavo giorno ti dà un’amarissima delusione, finisce per abbruciarti il sangue; e per aumentare la probabilità, per vincere a qualunque costo, le giuocate aumentano strabocchevolmente, fantasticamente, e il desiderio della vincita diventa un furore e l’anima si ammala, si ammala, e non si vede, non si sente più nulla, non vi è famiglia, non vi è posizione, non vi è fortuna che resista a questa passione.
- Oh Dio! - diss’ella, pianamente, quasi fosse sui punto di cadere in un abisso.
- Hai ragione, Luisella, hai ragione di maltrattarmi, di calpestarmi col tuo disprezzo. Hai ragione tu, sono un cattivo marito, un pessimo padre, ho rovinato la mia famiglia hai ragione, - ripeteva Cesarino convulsamente. - Io era un giovanotto allegro e laborioso, tutti mi volevano bene, i miei affari andavano magnificamente, tu eri la mia gioia e Agnesina era la mia consolazione. Ah qual fascino mi ha vinto, che maledetta idea mi è venuta, di voler guadagnare sessantamila lire al lotto, per mettere bottega a San Ferdinando? Oh una dannata idea che mi ha messo nel sangue le fiamme dell’inferno! Ho voluto arricchirvi col giuoco, capisci, quando i danari si guadagnano solo col lavoro! Ho voluto arricchirvi giuocando, quando mio nonno e mio padre mi hanno insegnato, con l’esempio, che solo contentandosi del poco, solo mettendo un soldo sopra un soldo si giunge alla ricchezza! Che pazzia mi ha preso, che malattia mi ha reso così infelice, che passione, che orribile passione!
Pallida, con le labbra stirate da un moto nervoso che ella faceva per reprimere i singulti, addossata alla spalliera del suo seggiolone la povera donna udiva quell’angosciosa confessione, oppressa da un’angoscia senza nome.
- Quanto ho giocato? - riprese Cesarino, che oramai parea che parlasse con sé stesso, senza vedere più sua moglie, senza udire più il placido respiro della sua figliuola addormentata. - Non lo so, non mi rammento più, è una gran liquefazione di denaro, come in un crogiuolo, donde fuggisse tutto il metallo. Sulle prime giuocavo moderatamente, cercando di mettervi della temperanza, dell’abilità: come se il giuoco del lotto non fosse l’ironia più beffarda, che fa la fortuna all’uomo! Allora segnavo i denari che giuocavo, sopra un taccuino dove segno le mie spese ordinarie: ma dopo, dopo, è stato tale un aumento di febbre, che io non mi rammento più, Luisella, non mi rammento quante migliaia di lire ho gittate via, così, pazzamente, in un brutto sogno, in un delirio che ogni venerdì ripeteva il suo accesso furioso. Ah Luisella, tu non sai, non sai, ma noi siamo rovinati…
- Lo so, - ella disse, pian piano, guardando il roseo volto della piccolina dove il sonno manteneva la bella serenità infantile.
- Non sai, non puoi saper tutto! Io ho dato fondo ai denari che mettevo da parte, per i pagamenti semestrali e annuali: io ho giuocato quelle migliaia di lire che avevamo messe sulla cassa di risparmio, intestate ad Agnesina, le ho rubato il denaro che le avevo donato, il suo denaro! Io ho mancato ai miei impegni commerciali e le case corrispondenti hanno perduto la fiducia nel mio credito, non vogliono più saperne di me, non mi mandano la merce; lo vedi, la bottega si va vuotando, io non ho i contanti per riempirla di mercanzia; io non ho più pagato neppure la rata dell’assicurazione, se domani si brucia la bottega, io non prendo un centesimo, sono un cattivo pagatore! Non sai! non sai! Io ho cercato denaro qua e là, disperatamente, mettendomi in mano agli Strozzini, mangiato sino all’osso, massime da don Gennaro Parascandolo…
- Dal compare di Agnesina! - esclamò dolorosamente Luisella, nascondendosi il volto fra le mani.
- Innanzi al denaro, non vi è parentela o amicizia, il denaro indurisce tutti i cuori. Questi debiti sono la mia vergogna e il mio tormento. Un negoziante che prende il denaro all’otto per cento al mese, tutti lo giudicano rovinato e hanno ragione, l’usura è una cosa indegna per chi la fa e per chi la subisce! Come farò? La stagione è infame, per i poveri e per i ricchi, e fosse anche magnifica, i guadagni non basterebbero a pagare neppure l’interesse dei miei debiti! Pensa che è un miracolo, se Cesare Fragalà, il capo della casa Fragalà, non è stato dichiarato ancora in istato di fallimento, di fallimento doloso, poiché un negoziante non può togliere il denaro ai suoi creditori per giuocarlo al lotto, poiché questo è un furto, capisci, un furto, e i ladri vanno in galera! Dopo aver messo la mia famiglia alla miseria, io toglierò loro, per questa infernale passione, anche l’onore!
E non potendo più sostenere il peso della sua infelicità, egli scoppiò in singhiozzi, affogato, piangendo come un bimbo. Ella, tremante di emozione, sentendo nel cuore una immensa pietà per suo marito e un immenso spavento dell’avvenire, aveva levato il capo, energicamente.
- Non vi è rimedio, dunque? - ella disse, con la sua voce ferma di donna buona e amorosa.
- Non ve n’è, - rispose lui, aprendo le braccia, con un cenno desolato.
- Siamo in un precipizio, lo capisco, lo vedo, ma un rimedio vi deve essere, - ribattè lei, ostinata, non volendo cedere.
- Prega la Madonna, prega, - mormorò lui, come un fanciullo, più smarrito di un fanciullo.
- Troviamo un rimedio insieme, Cesare, - replicò ancora ella, con dolcezza.
- Cercalo tu, io non so più niente, io non ho più né volontà, né forza, cerca tu, cerca, poiché io sono perduto e credo che nulla varrà a salvarmi.
La desolata parola ebbe come un’eco lugubre, in quel gaio bianco magazzino, tutto smagliante di rasi e di porcellane. Poscia, un silenzio profondo si fece, fra i due sposi.
Ella, raccolta in sé, con la fermezza di sguardo interiore delle donne forti, misurava l’estensione di quella sventura. Non provava più sdegno, ogni collera si era dileguata innanzi alla voce straziante di quel giovane uomo che era stato così sereno, così lieto, e che adesso balbettava affannosamente le parole del suo incurabile errore. Quello che ella aveva inteso, nell’angoscia sgorgante dall’imo cuore di suo marito, quello che ella aveva intravveduto, quello spettacolo doloroso e imponente, avevan fatto un’opera di epurazione, e dalla sua anima generosa ogni personale risentimento era sparito. Ella non provava che un infinito desiderio di abnegazione, che l’ardente bisogno di salvare suo marito e la sua casa. Sparite le grettezze che potevano, in qualche ora, restringere il suo spirito femminile, la sua anima si elevava alle altruistiche altezze del sacrificio. Egli restava terra terra, avvinghiato dalla sua passione, non trovando in essa neppure la violenta grandezza del marchese Carlo Cavalcanti: e il suo dolore, il suo lamento avevano la monotonia e il ritmo del pianto di un bimbo. Ella, invece, al contatto della sciagura, si spiritualizzava, lasciando che tutta la parte nobile del proprio carattere signoreggiasse. Si sentiva, dopo quella incomposta confessione, più che la giovane sposa di suo marito, la sua provvida sorella, la sua madre misericordiosa, come una proteggitrice alta e magnanima, dimentica di tutte le pretese naturali della moglie e della donna. Egli piangeva, là, buttato con le braccia e con la testa sopra un tavolino, abbattuto come una misera creatura la cui infelicità è veramente infinita e irrimediabile: mentre ella, raccolta, studiava il gran mezzo della salvazione. Ma, subitamente, col zittìo delle labbra, ella gli impose di tacere. Agnesina, la bambinella, si era svegliata così, dolcemente, come ella soleva, senza piangere e senza gridare; seduta saviamente sulla sua sediolina, guardava sua madre, con gli occhioni spalancati, scintillanti di dolcezza. Luisella si levò dal seggiolone, dove era restata confitta e si chinò a baciare lungamente la sua creatura, quasi che in quel bacio ella ricevesse forza e ricambiasse affetto. La piccina guardava, senza parlare, suo padre che avea il capo abbassato sul marmo del tavolino; poi domandò:
- No, no, - disse la madre, passando nella retrobottega a prendere la mantellina e il cappello. - Va a dargli un bacio. Va, digli così: papà, non è niente, non è niente.
La bimba, obbediente, andò accanto a suo padre e appoggiando gli la testina alle ginocchia gli disse, con la sua bella voce cantante infantile:
- Papà, dammi un bacio: non è niente; non è niente.
Allora il cuore gonfio del povero giovane si spezzò, e sui neri capelli della sua creaturina, piovvero le lacrime più cocenti che avesse versato nella sua vita. Annodandosi i nastri del cappellino, udendo quei singulti disperati, Luisella fremeva per reprimere le sue lacrime, ma non interveniva, lasciava che quel cuore desolato si sfogasse e si racconsolasse, baciando la piccina: e la piccina, meravigliata, andava ripetendo, sotto quelle lacrime, sotto quei baci:
- Papà mio… papà mio.., non è niente.
- Andiamo via, - disse Luisella, rientrando nella bottega, mordendosi le labbra, cercando d’impietrarsi il cuore.
Ancora commosso, Cesarino tolse in braccio la fanciulletta, come faceva ogni sera, quando ella si addormentava in bottega: le mise il cappuccetto di lana sulla testa, annodandoglielo sotto il mento. Luisella andava mettendo ancora un po’ d’ordine nella bottega, levando la chiave dalla cassaforte, sentendo se tutti i cassetti del bancone fossero chiusi, con quell’istinto di ordine che è nelle alacri mani di tutte le donne giovani, sane e buone. Abbassarono il gas, mentre Luisella accendeva un cerino: se ne andarono per la retrobottega e per la piccola porta che metteva nel vicolo dei Bianchi. Pioveva sempre e il caldo vento sciroccale batteva sul volto la pioggia tiepida di estate: ma erano poco lungi dalla casa. Cesarino aprì l’ombrello e la moglie gli si mise sotto il braccio, per ripararsi dalla pioggia: la bambina, raccolta sull’altro braccio, gli appoggiava la testina sulla spalla. E tutti tre andavano chini, sotto la tempesta estiva, senza parlare, stretti stretti, l’uno all’altro, come se solamente l’amore potesse scamparli, nella gran bufera della vita, che li voleva travolgere. Nella notte, sotto l’ira del cielo, pareva che andassero, andassero a un destino di dolore, ma le due creature innocenti che si stringevano affettuosamente al misero colpevole, pareva che chiedessero e portassero salvezza.
Niente avevano detto, finché giunsero in casa, su, dove la serva li aspettava con la porta aperta, e stese le braccia a prendere Agnesina, per portarla in camera sua, per spogliarla ed addormentarla. Ma la creaturina, quasi avesse intesa la gravità di quell’ora, volle ancora farsi abbracciare dal padre e dalla madre, dicendo loro, con quel suo dolce linguaggio infantile:
- Mammà, beneditemi: papà, beneditemi.
Al fine furono di nuovo soli, nella loro stanza, dove la lampadetta di argento ardeva innanzi alla madre di Gesù, la pia, la dolorosa madre. Cesare era accasciato. Ma Luisella schiuse subito la porta a cristallo del suo grande armadio di palissandro, dove chiudeva i suoi oggetti più preziosi, stette un po’a cercare in quella penombra, e ne cavò fuori due o tre astucci di pelle nera.
- Ecco, - disse a suo marito, offrendogli i suoi gioielli.
- O Luisa, Luisa! - gridò lui, straziato.
- Li dò volentieri. Per l’onor nostro. Non oserei tenere queste pietre, queste gioie, inutili, quando siamo in pericolo di mancare all’onestà. Prendi. Ma per tutto quello che è stato di dolce il nostro passato, ma per tutto quello che può essere di terribile il nostro avvenire, per l’amore che mi hai portato, per quello che ti porto, per quella creaturina nostra, sulla cui testa adorata hai pianto, questa sera, Cesare, te ne prego con tutta l’anima, te ne prego come si prega Cristo all’altare, concedimi una promessa…
- Luisa, Luisa, tu vuoi farmi morire… - gridò lui, mettendosi le mani nei capelli.
- Prometti di lasciare in mia mano tutti gli affari del nostro commercio, debiti e crediti, compera e vendita?
- Prometto…
- Prometti di dirmi tutto ciò che devi dare, acciò che io possa pensare al rimedio?
- Prometto…
- Prometti di dare a me tutto il denaro che hai, che puoi avere, e di non cercarne altro, che non sappia io?
- Tutto, tutto, Luisa…
- Prometti di credere solo a me, di udire solo i miei consigli, di ascoltare solo la mia voce?
- Prometto…
- Prometti che nessuno varrà più di me, prometti che mi ubbidirai, come a tua madre, quando eri fanciullo?
- Giura tutto questo.
- Lo giuro innanzi alla Madonna, che ci ascolta.
Ambedue, piamente, si inginocchiarono innanzi alla sacra immagine. Ambedue dissero, insieme, sottovoce, il Pater noster, e più forte, alla fine, levando gli occhi, ella disse:
- Non c’indurre in tentazione…
E lui, ripetette, umilissimamente, sconsolatamente:
- Non c’indurre in tentazione…