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VII.
La villa Caterina dava sul mare. Veramente essa era fabbricata sull'alto scoglio a picco, donde la bianca Sorrento, sorgente fra i boschetti di aranci in fiore, si affaccia al profondo e azzurro mare. La villa aveva, dal lato della città e della campagna, uno di quei giardini italiani, folti di alberi ombrosi, dove le bianche statue occhieggiano tra le foglie e dove le acque cantano, ricadendo in pioggia nelle conche delle fontane; e bisognava attraversare il gran viale di mezzo del giardino, per giungere alla villa. Si accedeva al bianco edificio, salendo i tre gradini di un peristilio a colonne e ci si trovava subito in un grande salone terreno, le cui porte-balconi davano tutte sul giardino. Ivi la famiglia Acquaviva si raccoglieva, di giorno e di sera, nelle giornate in cui il mare era tempestoso e in cui non si poteva stare nell'altro salone, quello chiarissimo, soleggiato, che dava, dall'altra facciata, sull'ampia terrazza che ogni villa sorrentina possiede sul mare. Così, la villa aveva due stagioni: da giugno ad agosto si abitava sul mare, che è sempre calmo e lieto, in quei tre mesi: da settembre alla fine di ottobre si prendevano i quartieri autunnali, riparati, tiepidi, sul giardino, profumati e pur chiari nelle belle giornate settembrine. Al pian terreno, dunque, vi erano i due saloni, due salotti, anticamere e stanza da pranzo; al primo piano le camere delle ragazze e di Stella Martini, quella della zia marchesa Sibilia quando le piaceva di venirvi, le stanze da vestirsi, la guardaroba e uno studietto dove le fanciulle lavoravano.
Al secondo piano dormivano le cameriere, i servi e il cocchiere. La casa di Sorrento era più ampia e più ricca di quella di Napoli: vi era più libertà e più lusso; certo, più allegrezza che in quel malinconico palazzo dei Gerolomini; le ragazze avevano ognuna una stanza: ed esse, solo a Sorrento, si sentivano padrone di casa e avevano il senso della loro ricchezza. Il padre, Francesco Acquaviva, teneva assai a quella villa Caterina, a cui aveva posto il nome della sua bella e buona moglie, morta così presto; e ci aveva passato tutte le stagioni estive della sua breve vita coniugale, da quella della luna di miele, a quella in cui Caterina Acquaviva era morta: tanto che la bianca casa baciata dal sole, ravvolta tra le brezze del colle e della marina, era diventata sacra per lui. E anche le fanciulle, che avevano della loro povera madre una memoria viva ma lontana, e che ne avevano intraveduto la dolce e passionale anima nelle parole del padre, venivano volentieri a villa Caterina, poichè essa era piena della poesia dei ricordi, poichè la soave ombra materna, effondente tenerezza, parea che abitasse ancora la camera nuziale serbata intatta, con la sua tappezzeria di raso azzurro pallido, fatto ancora più smorto dal tempo e dal sole, coi suoi merletti bianchi, lievemente ingialliti, col suo profumo di violetta, che ancora emanava dagli armadi, dai cassetti, da tutti gli oggetti minuti e delicati che erano appartenuti alla giovane sposa, alla giovanissima madre morta prima di varcare il confine della giovinezza.
Non nel tetro palazzo dei Gerolomini, ma a Sorrento, in quel chiaro e molle e lieto ambiente, Laura ed Anna Acquaviva celebravano la religione delle memorie materne, senza acuto dolore, ma con un persistente rimpianto della loro giovinezza senza i baci della madre, rammentando la cara figura e adorandola nella immaginazione. Certo, il tempo e la moda avevano trasformato villa Caterina al gusto moderno, empiendola di fiori, di palme, di chiari arazzi nei suoi saloni e nei suoi salotti, empiendola di mobili elegantissimi, di tende d'oltremare, di ninnoli esotici; e le fanciulle vi si trovavano più felici, apprezzando la bellezza delle cose, insieme con la immensa bellezza del paesaggio: ma la loro piccola chiesa era bene la antica stanza nuziale di Francesco e di Caterina Acquaviva, coi suoi toni di azzurro semispento, con la sua grazia intima, sentimentale delle camere, dove una gentile donna ha vissuto, leggiadra e buona. Vi entravano ogni giorno, restandovi un poco, aprendo le finestre che sporgevano sul mare, camminando pianamente sul tappeto di un bigio delicato disseminato di azzurri miosotidi, toccando tutte le cose che aveva toccato la madre loro e pregando innanzi a quella immagine della Madonna della Seggiola, davanti alla quale la giovane Caterina Acquaviva si era inginocchiata a pregare. Poi si ritiravano rinchiudendo le finestre e le imposte, perchè il vivido sole meridionale non divorasse quel morente azzurro del raso e dei nastri. Questa devozione del loro cuore si manifestava quasi segretamente senza che ne parlassero fra loro; Laura sempre serena, ma minuziosa e precisa, tenendo ella la chiave della stanza e di tutti gli armadi: Anna istessa, taciturna, ma presa sempre da una soffocante emozione, sentendo sopra di sè la fatalità di un padre e di una madre morti troppo giovani, mentre ancora adoravano la vita, mentre ancora non l'avevano goduta, mentre lasciavano due belle e care figliolette, orfane, sole, senz'amore, senza sostegno. Ella sentiva la fatalità di queste esistenze che muoiono con un profondo rancore, per non aver avuto il tempo di amare molto, di essere molto amate, che muoiono senza rassegnazione, straziate e taciturne nella grande ingiustizia onde sono colpite.
E questa fatalità le pesava addosso come un presentimento; e nella stanza di un così mite azzurro, le pareva ancora vedere il giovanile e delicato volto di sua madre, chiuso in un supremo scontento; le pareva di vedere il bruno e bel volto di suo padre, contratto dalla dolorosa idea della vita non compiuta: ambedue morti prima del tempo, la madre a venticinque anni, il padre a trentacinque. Eppure ella amava questa emozione: e amava villa Caterina, come il nido familiare, cercando di recarvisi appena l'estate cominciava, cercando di trattenervisi sino all'estremo limite dell'autunno.
Ma dopo la stagione d'inverno in cui il suo amore per Cesare Dias si era rivelato, dalla primavera ella cominciò a parlare di Sorrento. La vinceva una grande nostalgia che le fiaccava le forze; e la dimora di Napoli le era diventata troppo amara. Credeva, Anna, partendo, di cangiar anima: credeva che la gran luce, la cantilena del mare e tutta la pace intorno le avrebbero almeno procurato una quiete dei nervi. Ogni tanto, assorgendo dalle sue cupe meditazioni, ella diceva, a chi le domandava che cosa avesse: vorrei non esser qui. Lo aveva detto tante volte a Laura, a Stella Martini, con un'espressione così forte di desiderio, che esse avevano bene inteso che bisognava portarla via. Napoli la faceva soffrire, intensamente. Era una sofferenza silenziosa divorata nella segretezza del cuore che non vuol dire il proprio dolore: ma di cui Laura e Stella conoscevano bene la parola; erano alternative di esaltazioni, in cui tutta la esuberanza della sua vitalità si riversava in sorrisi, in canti, in risate, in lieto chiacchierìo, con lunghi momenti di tetraggine, in cui ella pareva ormai disinteressata d'ogni cosa umana, invocante soltanto l'estrema risoluzione della morte; ed era, anche, una sempre crescente prostrazione d'anima, in cui tutte le forze spirituali e materiali s'illanguidivano, sfiorate, impallidite, decadenti in un torpore che sgomentava. Ah ella non diceva nulla, della sua nascosta tortura, ma se la teneva stretta al cuore lasciandosi rodere, sentendosi morire a poco a poco, ma non osando chiedere soccorso, anzi non sperando da nessuno un soccorso! E a misura che il giorno in cui essa aveva confessato a Cesare Dias di amarlo, si allontanava, i suoi minuti di eccitamento, di fittizia giocondità giovanile, si andavano facendo più rari, più rari: e su ogni cosa, per lei, si distendeva il bigio velo del distacco, la gran nebbia sonnifera dei dolori che si fanno monotoni, poichè niuna gioia viene più a dar loro vivacità. Ella languiva, assorbita in lunghe ore di contemplazione, con l'occhio vago, trasalendo quando le parlavano, guardando trasognata il suo interlocutore, quasi ella arrivasse da un lontano paese di visioni. In verità, la sua decadenza morale e materiale non appariva che agli occhi di coloro che le volevano bene; poichè essa, ormai, restava in casa, incapace di recarsi più alle passeggiate, ai teatri, ai ritrovi, poichè tutte le cose che un tempo le erano piaciute, ormai non la scuotevano più. E questa prostrazione, però, non faceva che aumentare la sua forma di affetto, di tenerezza per coloro che la circondavano, quasi che ella volesse, con un sorriso, celare tutto l'interno strazio. Era diventata così buona, così indulgente, senza nessuno dei suoi antichi scatti violenti, che nessuno la riconosceva; e con Cesare Dias aveva una tenerezza repressa, una costante dolcezza, e talvolta un silenzio pieno di pensiero. Molto spesso, a quello che Cesare le diceva, ella non rispondeva: lo guardava in viso, con gli occhi pensosi, carichi di una tale espressione di malinconia, che solo l'anima arida e dura di Dias vi reggeva. Ella preferiva il silenzio, ella, già trasformata, già perfettamente diversa dalla impetuosa creatura che era stata.
Nelle dolci giornate di primavera che più la prostravano con la loro soffocante dolcezza, attraverso il mortale languore che ne addormentava tutte le vitalità, ella aveva però un'ora della mattina o della sera, in cui restata sola, si raccoglieva nell'intenso pensiero dell'amor suo e non poteva impedire a se stessa, malgrado i lunghi e ostinati combattimenti, di scrivere a Cesare Dias. Era l'unica, solitaria manifestazione di una passione che la consumava: era un gran conforto e, nel medesimo tempo, una gran tortura, poichè se la lettera dà sfogo a tutti i crucci infiniti dell'amore non corrisposto, fissa e determina certe idee, certe impressioni, che allo stato latente tormentano vagamente, mentre, allo stato determinato, sono insopportabili. Ella scriveva a Cesare Dias lungamente e confusamente, con quel disordine e con quella monotonia delle anime convulse, le cui frasi hanno il ritornello lugubre delle preghiere degli agonizzanti: e mentre scriveva, spesso le accadeva di ripetere ad alta voce le frasi scritte, quasi che egli fosse presente ed Anna gliele dirigesse, aspettandone una risposta: ma guardandosi intorno, vedeva nella mattinata gioconda danzare i pulviscoli nel raggio del sole, o, nella serata, l'ombra addensarsi negli angoli della stanza vuota, ma egli non vi era, non vi era; mentre scriveva, talvolta, oppressa dall'emozione, a una parola pietosa, da lei stessa messa sulla carta, le lacrime le scendevano lungo le guance, le cadevano sulle mani ed ella si fermava, accecata, dovendosi levare dalla piccola scrivanietta da fanciulla, passeggiando su e giù per la stanza, non osando di rileggere l'ultima parola che l'aveva fatta scoppiare in singhiozzi; mentre cominciava a scrivere quelle lettere d'amore, ella vibrava di passione, di entusiasmo, e il sangue saliva a colorarle le gote: le idee si arruffavano impetuose, precipitose, e alla fine si fermava stanca, spossata, quasi felice. Ma quando la lettera era partita per la sua destinazione, tutto quello che ella aveva scritto le ritornava in mente, e le sembrava così meschino, freddo, buffo, grottesco e nello stesso tempo così doloroso, che ella malediceva l'ora e il momento in cui aveva posata la penna sulla carta bianca, e cento volte avrebbe voluto richiamar indietro il messaggero, per lacerare quel foglio, così pieno di ridicolo e di pianto. E pentita di quel che aveva detto un giorno a Cesare Dias, il giorno seguente si contraddiceva, volubilmente: e talvolta scriveva con fierezza, non sopportando più quel ridicolo, chiedendo scusa, dopo, umiliandosi: e spesso vaneggiava nella gelosia, non sapendo bene su qual nome fissare i suoi sospetti e intendendo bene di non aver il diritto di esser gelosa: e ritornando sempre alla stessa idea, che quell'amore la faceva morire giorno per giorno, ora per ora. Cesare Dias non rispondeva.
E perchè avrebbe risposto? Dalle prime lettere da lui ricevute e che così crudelmente aveva lacerate in sua presenza, ella stessa gli aveva tolto l'obbligo di rispondere: ed egli ne profittava. E ogni volta che stando a casa, o rientrandovi, una lettera di Anna gli era offerta dal suo servitore, egli aveva un moto d'impazienza. Non si dispiaceva, no: ma quella tumultuaria forma di passione così irruente e così instancabile nella sua irruenza, offendeva tutti i suoi ideali di correttezza, di finezza, di riserbo. Le lettere di Anna, vibranti di affetto esaltato, erano lette da un giudice tranquillo, che si dilettava ad analizzarle in tutto quello che contenevano di rettorico, secondo lui; ed egli ne raddrizzava ogni frase scomposta, ne commentava freddamente ogni affanno di pensiero, e quasi quasi, talvolta, gli veniva la voglia di redarguire quella folle fanciulla, che si abbandonava così generosamente alla sua follia. Ma a che fare una polemica erotica? Le persone che amano, non credono mai di aver torto: ed è inutile di dimostrar loro che hanno torto.
Egli non rispondeva. Così, dalle lettere ricevute e che adesso leggeva con una vivacissima curiosità, egli non ricavava che piacere; e quando veramente, attraverso la dilatazione cerebrale di Anna, come egli diceva, trovava l'impronta di una disperazione inconsolabile, egli, arrivando in casa Acquaviva, non faceva altro che trattenere un po' di più la mano di Anna nella sua; sapeva che questa sfumatura di pietà e fors'anche di tenerezza era notata da lei, immediatamente; sapeva con ciò di darle un conforto, che l'aiutava a vivere ancora, a non morire ancora.
Invero, egli andava meno spesso in casa Acquaviva, ma senza far notare le sue assenze, facendole capitare di tempo in tempo; e quando vi andava, nei colloqui regnava, in tutti quanti, un segreto imbarazzo che raffreddava la cordialità e faceva fuggire qualunque lietezza. Specialmente in certi giorni, Anna appariva così pallida, con gli occhi così smorti, con le labbra chiuse e come sigillate, perchè non lasciassero sfuggire un sospiro dal suo petto: ella si sedeva in un angolo, senza che avesse l'aria di vedere o di udire quello che accadeva e che si diceva, tanto che tutta la conversazione cadeva innanzi a quel dolce e penoso fantasma di donna, a cui tutte le cose umane, tranne una, erano diventate indifferenti. Egli stesso, che non perdeva mai la sua superiorità di spirito, non sapeva più che dire innanzi a quel volto da cui fuggiva ogni espressione di interessamento, innanzi a quella figura lenta che si trascinava per la casa stanca prima di aver camminato. Due o tre volte, quando si erano trovati soli – adesso, ambedue evitavano di trovarsi soli, con molta cura – egli le aveva fatto delle rimostranze:
– Ma che avete? Perchè fate questo?
– Che volete che faccia? – aveva ella risposto, fievolmente.
– Vorrei che foste allegra, che rideste...
– Non è... non è possibile – aveva replicato Anna, voltando la testa in là, per celare il pianto che le velava gli occhi,
E Dias, temendo uno scoppio di singulti, aveva taciuto. Aveva un grande imperio su lei, ma non gli sarebbe mai riescito di farle sopportare pazientemente un amore non corrisposto. Ella stessa, nelle prime lettere, si era ingannata sulla propria forza di rassegnazione. Aveva creduto di poter subire la mala sorte in silenzio, divorando il proprio dolore, come tante timide e buone donne, eroine oscure dell'amore, della famiglia, del lavoro; aveva sperato di poter essere una martire inebbriata di martirio, come tutte le donne che amarono, che invocarono, che desiderarono un ideale inaccessibile; aveva sperato di poter vivere d'infelicità, come tante donne ne vivono. Ah, non lei, non lei era fatta per questo! Era un temperamento vivido e ardente a cui l'esistenza appariva con tutte le sue seduzioni, con tutte le sue lusinghe, con tutte le voci incantevoli, coi vincoli dei suoi piaceri morali; era un carattere violento, insofferente di ostacoli, incapace di piegarsi, e a cui il conseguimento di ogni desiderio era una necessità spirituale: era una donna a cui non bastava di amare, e di piangere, e di scrivere una lettera al giorno, senza averne mai risposta: ella voleva essere amata, ella aveva bisogno di essere felice. Vi sono temperamenti e vi sono caratteri muliebri che sembrano indecisi e molli: a questi possono essere di pascolo lunghi giorni d'infelicità e anni di lagrime segrete: queste donne si fanno del dolore uno stato d'anima permanente, immanente, non sapendo e non volendo ribellarsi, elevando la morbida rassegnazione ad altezze supreme. Non lei, non lei! Quelle nel dolore si macerano e si affinano, e la loro anima è, come la pelle di Ester che era macerata e impregnata nei profumi, tutta satura di pianto, ormai fatta angelica; Anna invece restava donna, restava umana, non sapendosi distaccare dall'intenso, inestinguibile desiderio di essere amata.
Era una donna, in tutta la umana estensione della parola; e mentre le vette sublimi dell'abnegazione ne tentavano lo spirito ardente, tutti i legami terreni la tenevano, straziandola coi loro nodi troppo stretti, in cui invano ella si divincolava, cercando di librarsi alle sfere del sacrificio. E quando ad Anna stessa, nelle tristi cogitazioni delle sue notti senza sonno, fra la preghiera e il vaneggiamento, in un momento di luminosa chiaroveggenza, era apparsa la gran verità, quando ella aveva detto a se stessa che senza amore sarebbe morta, un subitaneo sgomento l'aveva fatta ricadere sul guanciale, chiudendo gli occhi, disperata ormai, anche del proprio cuore. Aveva creduto di poter essere grande e forte, di poter salire ad altitudini inesplorate pei cieli della sofferenza, ma in verità non era che una misera creatura, limitata, consumandosi per l'amore che le mancava. E fu un giorno, nel cadere del maggio, in cui ella, convinta ormai che tutto era perduto, scrisse a Cesare Dias una lettera lunga di addio. Non voleva scrivergli più, poichè tutto era inutile, poichè egli non la avrebbe amata giammai, poichè era finito tutto, tutto, e non esisteva attorno a lei che il deserto arido e bruciante. Lo salutava: non sapeva che avrebbe fatto, ella stessa si smarriva, pensando all'indomani, ma se ne andava, intanto, a Sorrento, a villa Caterina, dove sua madre aveva amato ed era morta. Lo salutava, con una incoerenza di linguaggio, vera immagine della confusione in cui si trovava, non credendo più neppure in se stessa; voleva partire, partire, andare dove egli non fosse, così buono e così crudele anche, ma non abbastanza buono da volerle un po' di bene, e crudele, certo, inconsciamente! La lettera era convulsa, male scritta, sconvolta finanche nella calligrafia.
Da più giorni ella aveva pregato Laura e Stella Martini, perchè si partisse per Sorrento; e in quel giorno ella pregò con tanta insistenza, ella fece intendere tanto che villa Caterina era necessaria a dar pace alla sua anima, che le due donne, abituate ormai a regolare la loro vita sull’umore di Anna, cedettero. Veramente Stella Martini ne scrisse una parola a Cesare Dias parendole necessario che vi fosse il suo permesso. Egli rispose immediatamente, di rimando: andassero subito perchè il cambiamento d'aria sarebbe stato utilissimo ad Anna, la cui crescente debolezza lo impensieriva. Egli non poteva venire ad augurare il buon viaggio, perchè era occupatissimo, ma mandava gli augurii per lettera e sarebbe capitato presto a villa Caterina, a trovare le sue care figliuole.
Espansiva più del solito, la lettera: ma non era venuto! Non voleva lasciar partire sconsolata Anna, la cui lettera gli aveva fatta una certa impressione, sebbene egli sapesse che la parola addio non è mai definitiva per chi ama veramente: ma voleva evitar la scena del distacco. Egli odiava tutte le scene. Stella Martini conservò questa lettera, non osando farla vedere. Pure ella osservò che la povera fanciulla, attaccando le sue speranze a un filo sottile, si lusingava che Dias venisse a salutarla e che per questo prolungava i preparativi della partenza; e la buona donna, edotta ormai di tutto, tremava di doverle dire che egli non sarebbe venuto. Ma, a un certo punto, Anna pareva caduta in tale stato di sonnambulismo, nella morbosa ansietà dell'attesa, che Stella Martini si fece coraggio:
– Dias mi ha scritto... – disse.
– Quando? – disse l'altra, trasalendo.
– Ieri... scrive che non può venire a salutare... è tanto occupato.
– Naturalmente... così occupato... – mormorò Anna. – Mi volete dare la lettera?
– È molto affettuoso – soggiunse Stella, porgendogliela timidamente. Osservò che le dita di Anna tremavano, sul foglio di carta. Ella non lo restituì a Stella: e soggiunse, desolatamente:
Niente altro. Se ne andarono da Napoli, l'ultimo giorno di maggio, Anna odorando un fascio di rose di maggio che aveva comperato da un ragazzo, andando alla stazione; Laura, serena e graziosa nel suo vestito di crespo di seta bianca, coperto da un leggero e largo mantello di lana bianca; Stella, occupandosi dei bagagli: i servi erano partiti un giorno innanzi. Durante tutto il tragitto, in carrozza e nel treno, e di nuovo, poi, nella carrozza, Anna si assorbì ne' suoi pensieri, col volto chino, dietro il velo di garza grigia del suo cappello da viaggio: andava macchinalmente, nelle stazioni, salendo, scendendo, con i movimenti di persona, che non ha perfetta conoscenza di sè. Laura le diceva: vieni, andiamo, ed ella si muoveva, obbedendo come un fanciullino. Lei, guardando in se stessa, si sorprendeva di non essere più straziata, dando le spalle a Napoli, dove lasciava Cesare Dias: ma sentiva anche che le sue forze spirituali erano molto abbassate, e che si soffre quanto si può: poco ella poteva di più. In verità, dopo la gran decisione di andarsene, in cui aveva sciupato l'ultimo suo impulso di energia, l'abbattimento l'aveva vinta e non aveva che il desiderio profondo e inespresso di un riposo, di un sonno dell'anima, di un letargo che la conducesse, senza spasimi, dalla vita alla morte. A Sorrento, in quella villa Caterina, dove la gioventù di sua madre aveva subìto una esiziale decadenza ed era discesa alla morte, ella avrebbe trovato quella pace, che è foriera di un'assai più lunga êra di tranquillità. La stanchezza infinita l'aveva colta: ella aveva raggiunto il limite estremo, in cui lo spirito ancora combatte col dolore come Giacobbe con l'angelo, e si era data per perduta: adesso non vi era in lei che una grande distesa di acque morte, coprenti tutta la rovina delle sue speranze naufragate. Anelava di arrivare presto, per potersi sdraiare in un languore senza fine, dove fosse pur sempre scomparsa ogni cosa, dove nulla più sussultasse in lei, dov'ella potesse dormire un lunghissimo e profondo sonno, al soffio molle e letale della gran palude. Due o tre volte, unico segno d'interesse, mise la testa allo sportello per vedere se si giungeva finalmente, e quando la carrozza attraversò, al tintinnìo de' suoi sonaglietti, la piazza dove Sant'Antonio, protettore di Sorrento, eleva la sua bruna statua, quando essa imboccò il viale già verde, già fiorito, e si arrestò innanzi al peristilio di villa Caterina, Anna ebbe il senso di qualche cosa che si fosse, ormai, per sempre compiuta, le parve che il piccolo volume della sua vita avesse avuta la parola: fine.
Le due sorelle andarono immediatamente nella stanza della loro madre, quasi a sciogliere un voto, ancora coi mantelli e coi cappelli da viaggio, portando dei fiori freschi. Laura schiuse le due finestre che davano sul mare e la gran luce entrò, mentre ella girava intorno, a veder se vi fosse polvere sui mobili, a raddrizzare qualche nodo azzurrino delle tendine di ricco merletto ingiallito, a fare, insomma, una rassegna di massaia accurata. Anna, invece, si era subito buttata sull'inginocchiatoio di legno scolpito, dal cuscino di raso azzurro con una croce di argento, ricamata sopra; e innanzi alla Madonna della Seggiola, innanzi alla piccola e gentile miniatura di sua madre, depose in offerta le belle e odoranti rose di maggio, aveva abbassato il capo sulle mani guantate. Laura, finito il suo giro, si accostò alla sorella e le disse:
– Tu resti?
Quella non rispose, non si volse nemmeno.
– Quando vieni via, riportami la chiave – soggiunse la savia Minerva, dagli occhi chiari.
E se ne andò, chiudendo pianamente l'uscio con la sola maniglia. Stella Martini, che già si era cambiata d'abito, le venne incontro:
– È ancora di là.
– Che fa?
– Piange, o prega, o pensa. Non ho potuto veder bene.
– Povera Anna – mormorò Stella, con un sospiro.
Quanto tempo restò innanzi alle sue immagini, Anna Acquaviva? Nessuno osò disturbarla in quella sacra religione del ricordo, che era in lei tanto profonda, in quell'abbandono della persona e dell'anima. Se quando fu giunta lì, per un minuto mille pensieri tumultuanti l'avevano sconvolta, subito la prostrazione di chi ha compiuto il suo ultimo viaggio, di chi è arrivato al porto dell'estrema calma, era sopraggiunta. Nel giro adesso lentissimo delle sue idee, roteanti in un vortice così molle, che appena appena ella ne distingueva il movimento, riapparivano queste due piccole frasi che erano una preghiera indistinta, una invocazione senza impeto, monotona, continua, come di coloro a cui sono mancate, o più non servono tutte le altre parole umane: Madonna mia, mamma mia. Ella balbettava in se stessa, i due nomi, egualmente dolci, e talvolta le pallide labbra giungevano a ripeterli con un lieve tremolio. La Vergine nel cielo e lo spirito della madre, nelle celestiali sfere dove ancora vivono i buoni, si confondevano nella sua mente, ed ella, più che chiedere da loro soccorso, ne diceva ancora i nomi, così, simili al bimbo che parla ad alta voce nell'oscurità, per darsi coraggio. Il sole che entrava dalle finestre, gaiamente, venne declinando nel bel tramonto, già lungo tramonto di maggio: e lei, che si era quasi assopita in quell'immenso languore, vide attraverso le palpebre chiuse, che impallidiva la luce del giorno, e sentì la stanchezza delle braccia e delle ginocchia. Fu allora che si levò e baciò, con le fredde e aride labbra, la immagine della madonna e la delicata miniatura di sua madre, salutandole quasi fossero persone vive, promettendo loro di ritornare subito a viver con loro, in quella stanza che era il tempio della gioventù, dell'amore, della morte. Quando venne via, dopo aver chiuso le finestre, dopo aver girata due volte la chiave nell'uscio, era così pallida e bianca, che Stella Martini le disse:
– Siete stata tanto tempo colà... ciò vi ha fatto male.
– No, no – ella rispose – mi sento benissimo; sto proprio assai bene. Avevo bisogno di venir qui, di vivere qui.
E nella sua voce vi era qualche cosa d'infranto, parlava lentamente e a riprese, come se il respiro le si arrestasse nel petto. Stella Martini non credette dunque alle parole rassicuranti di Anna; la sorvegliava affettuosamente, preoccupata più di quell'accasciamento, che di qualunque scatto violento di passione. Adesso Anna dormiva in una stanzetta, sola, fra la stanza di Laura e quella di Stella. La damigella di compagnia, dopo di averle salutate, alla sera, non andava subito a dormire; scriveva qualche lettera a sue lontane parenti, a sue amiche d'infanzia; diceva lungamente le sue orazioni, vegliava ancora, infine. E in quelle ore la inquietudine per Anna si faceva più viva; talvolta ella usciva dalla sua stanza ed andava ad origliare a quella di Anna. Vi regnava sempre un silenzio profondo, ma il lume era sempre acceso. Quella luce e l'assenza d'ogni rumore l'agitavano anche più: due o tre volte, non reggendo, aveva schiusa la porta ed era entrata. Aveva trovato Anna distesa sul letto, col capo appoggiato alle due mani congiunte dietro la nuca e affondato nei guanciali, cogli occhi chiusi, con un movimento della respirazione appena percettibile, cerea nel volto; il lume ardeva tristemente. Lo aveva spento Stella andandosene, in punta di piedi.
– Perchè non spegnete il lume? – aveva, un giorno, domandato ad Anna.
– L'ombra mi fa paura – ella rispose.
Stella le aveva dunque preparato una lampadetta di cristallo di un vetro opalino; così Anna si assopiva a quella mitissima luce, e sul pallido volto, sui capelli bruni, disciolti, sulla bianchezza delle lenzuola pioveva un chiarore glauco che dava loro l'aspetto di una visione notturna, in fondo ad una grotta marina. Adesso, Stella veniva quasi ogni notte a vedere se riposasse tranquillamente, e quella figura giacente, al poco lume verdino, aveva l'aspetto di una naufraga, dormiente l'ultimo sonno nel fondo del mare. Talvolta, udendo il cheto passo di Stella, Anna schiudeva gli occhi, e riconoscendola sorrideva; poi si riassopiva. Non era un sonno, era un torpore. Stella ritornava alla sua stanza niente rassicurata. Quello che anzitutto tormentava la buona donna, era la quotidiana, lunga dimora, che Anna faceva nella camera di sua madre morta. Villa Caterina, in quell'inizio dell'estate era deliziosa, nel suo giardino odoroso, nelle sue liete stanze terrene ricche di luce, di beltà, di eleganza, nei suoi saloni, dove tutte le finezze del lusso si armonizzavano in un ambiente di seduzione, nel suo immenso e divino paesaggio del mare; vi affascinava da tutte le finestre, da tutti i balconi a mezzodì, in quelle mattinate fresche e profumate, in quelle serate così palpitanti di stelle, che parea il cielo avesse dei fremiti luminosi: ma Anna non vedeva più nulla di questo, cogli smorti occhi il cui sguardo vagava, con l'attrazione sempiterna alla delicata stanza, dove l'azzurro si faceva bianco, divorato dalla luce, dal sole, dove il profumo di violetta era così sottile e antico, che faceva venire le lagrime agli occhi, dove tutto era l'emblema di una giovinezza spenta nel suo fiore. Anna vi passava delle ore, inginocchiata accanto al letto, o seduta presso una finestra che dava sul mare, taciturna, senza che nessuna impressione si disegnasse sul suo volto. Talvolta, Stella, insospettita, si fermava innanzi alla porta e chiamava:
– Eccomi – rispondeva ella, uscendo dal suo sogno.
– Adesso.
Ma sostava ancora. Bisognava chiamarla due o tre volte. Quelle dimore la esaurivano; ne usciva con gli occhi sottolineati di nero, con le labbra bianche, con la linea del profilo assottigliata, stirata.
Vedendola così, Stella era presa da una pietà immensa, da un immenso desiderio di salvarla: e tentava di strapparla alle lunghe prostrazioni in quella stanza, la cui delicata malinconia funeraria finiva d'immergere Anna nelle lugubri contemplazioni.
– Non restate tanto tempo, colà; vi fa male...
– No, no – le rispondeva Anna – se sapeste che pace, là dentro...
– Ma una giovane come voi, deve cercare la vivacità dell'esistenza, non la pace...
– Non vi sono più fiori per Margherita – mormorava l'altra, andando a una finestra, a guardare il mare.
In tutto il mese di giugno, dolce mese sorrentino che ha le mattinate già calde e le serate fresche, Anna non fece che declinare moralmente e materialmente. Laura e Stella rispettavano la sua volontà; ma incombeva su loro la tristezza di quella decadenza. Il tormento di Stella era diventato materno, e quando vedeva quella bruna fisonomia che si assottigliava, quelle mani che si facevano trasparenti, una voce le gridava dentro, una voce materna, che bisognava far qualche cosa per quella povera creatura. Aveva tentato un giorno di rincorarla, dicendole:
– Il signor Dias ci aveva promesso di venir qui... ma tarda un poco... chissà, lo avremo per l'apertura della stagione balneare...
– Vedrete che non verrà – le aveva risposto Anna, i cui occhi si eran subitamente velati di lacrime.
– È buono tanto: ha promesso, verrà.
– Io non lo credo – aveva replicato pianamente Anna, con la tranquilla desolazione delle cose finite.
Infatti, egli non veniva e non scriveva. Tutta la prima quindicina di luglio passò; la stagione balneare era già inaugurata; tutte le terrazze di Sorrento erano piene di gente, nella sera, nella notte, e da ogni balcone, da ogni finestra, dai saloni dei grandi alberghi illuminati venivano suoni e canti, trilli di mandolini e risate di tutta una musicalità lieta e appassionata estiva. Le ville avevano distese contro il sole le loro tende a fasce bianche e azzurre, ma il ponente nelle ore pomeridiane faceva battere le tele, come se navigassero per l'ampio mare cerulo: alla notte la luna bagnava dei suoi biancori nivei la campagna, le case e il mare. Anna in tanto esaltamento di gioventù, di salute, di bellezza, di paesaggio, intorno ad essa, sentiva più profondo, più invadente in sè il desiderio del dissolvimento, e adesso appena appena si trascinava da una stanza all'altra, ombra leggera. Alla sera, quando Laura e Stella uscivano per qualche visita nelle ville, dove fanciulle e signore si raccoglievano, o per una piccola festa aristocratica nei saloni del Victoria o del Tramontano: ella andava sulla grande loggia a mare di villa Caterina, dove erano sedie e poltrone, fra le piante e i fiori, e si sdraiava, con gli occhi fissi nel cielo, dove tremolava di luce la via Lattea; invano passavano pel mare sorrentino le barchette cariche di gente, cantanti le belle canzoni napoletane; invano i due o tre yachts aristocratici accendevano fuochi di bengala e mandavano razzi luminosi nel cielo; invano le mille voci delle magnifiche notti di estate, create per la gioia, create per la passione, giungevano fino ad Anna. Ella non udiva e non vedeva. Neppure, in quei giorni, ella scorse sul viso di Stella un'espressione di tenerezza sagace, che ha indovinato: ella non avvertì nel bacio che Stella le dette, prima di uscire in quella sera del diciassette luglio, un senso di maggior amore. Era di domenica, e Laura e Stella andavano al Victoria, a un ballo familiare.
– Siate forte e sarete felice – le aveva detto Stella, licenziandosi con un bacio, guardandola, quasi le volesse comunicare una buona novella.
Ma la languente fanciulla non capì. Prese quelle parole per una di quelle vaghe consolazioni che si offrono alle anime inconsolabili, e il cui suono soltanto è una carezza; crollò il capo, abbozzando un sorriso. Tutta ravvolta nei suoi veli bianchi, bellissima in quel candore, Laura anche era venuta a baciarla: ed ella aveva udita la carrozza allontanarsi. Attraversando il salone Anna uscì sulla loggia. La notte plenilunare era così luminosa che si sarebbe potuto leggere un caro libro al morbido chiarore: e il paesaggio aveva qualche cosa di divino, dall'orizzonte a tutta la curva del cielo, dalla dolce collina degli olivi e degli aranci del mare. E nella immensa soavità delle cose, ella intese nuovamente tutta l'amarezza della sua vita perduta invaderle le vene, e il cervello, e il cuore, con un fiotto così velenoso, che ne sentiva quasi l'acre sapore sulle labbra. Ah sarebbe certo venuta la sua ultima ora, in quella consunzione di tutte le sue forze, ma sempre, sempre, attraverso la rassegnazione, ella avrebbe avuto delle ore di ribellione contro quella immensa ingiustizia che ella subiva, ma fino all'ultimo suo giorno, ella avrebbe avuto quell'amarezza delle esistenze che mancarono il loro scopo, per propria colpa o per derisione del destino; ella avrebbe chinato il capo alla morte, cupa, tetra, non avendo accettato, non accettando la fatal legge che si compiva contro lei.
Una notte profonda di beltà, di luce le era intorno, ma ella era, veramente, un atomo doloroso nella gioconda danza delle cose; e distesa nella poltrona, con le mani abbandonate lungo la persona, ella teneva chiusi gli occhi: quella sera odiava anche il cielo.
– Buona sera – le disse Cesare Dias, giunto presso a lei.
Ella aprì gli occhi, ma nessun suono potette uscire dalla sua bocca: non poteva che guardarlo, con tale una espressione di felicità desolata che lui, immediatamente, pensò: Questa donna mi ama veramente. Egli appariva pensoso. Prese una sedia e le sedette vicino.
– Siete sorpresa di vedermi, Anna? Non vi avevo promesso di venire?
– Credevo... che lo aveste dimenticato... è così facile dimenticare...
– Io mantengo sempre le mie promesse – egli soggiunse.
Quando lo aveva inteso parlare così con quel tono di voce, quando? In quel periodo della sua malattia, allorchè credevano che ella morisse. Era adunque la pietà della morente, che lo aveva indotto a venire a Sorrento: era dunque la pietà, che ammolliva la durezza ironica della sua voce.
– L'aria di Sorrento non vi ha guarita – osservò lui, chinandosi un po' a guardarla.
– Non mi ha guarita; di nessuna malattia. Credo che... non guarirei, in nessun paese del mondo.
– Gli è che il solo medico di voi stessa, siete voi stessa – e cavando il suo astuccio d'argento prese una sigaretta e l'accese.
Ella guardò vacillare la piccola fiamma; tacque un momento.
– È facile dire questo – soggiunse, poi, fievolmente. – Ma sapete che sono un essere debole; gli è per questo, che avete tanta compassione di me. Io non posso guarire, Cesare.
Ed era così disperata la sua affermazione che vi disparve la familiarità di chiamarlo per nome, d'un tratto.
– Ne siete certa?
– Certa. Ho tentato. Ciò che provo, è più forte di me; questa passione mi spezza: il mio cuore non la può sostenere.
– E tutti quei bei progetti spirituali – egli disse, guardando nell'aria chiara della notte involarsi la breve nuvolina di fumo della sigaretta – tutto quell'edificio di abnegazione, di devozione, di amor solitario, non corrisposto! Tutto il piano del vostro avvenire che avete concepito, con tant'altezza di sacrificio, è dunque fallito?
– Fallito, fallito! – ella esclamò, con un lamento, guardando l'alto cielo stellato, quasi a rimproverargli la propria disfatta. – Tutto quello che io vi avevo scritto, era una fallace, passeggera illusione; tutto il mio piano era campato sull'assurdità. Forse esistono, anzi, esistono, delle creature perfette talmente, che possono contentarsi di amare solamente, senz'essere amate; felici e nobili creature che vivono per gli altri, che sono la purità stessa. Ah, io sono una miserabile egoista, niente altro, e ho presunto troppo di me, e muoio di questo egoismo, e di questa superbia, vedete!
Ella si era sollevata sulla poltrona, stringendo nervosamente con le mani i bracciuoli, scuotendo il bel capo affilato dal dolore. Egli taceva: aveva buttato via la sigaretta spenta: e taceva. La dolcezza del plenilunio era immensa.
– Sono così terrena! – ella disse. – Ho invano invocato, nelle preghiere, un cuore angelico, distaccato dagli umani desiderii, che vivesse solo per amarvi, senz'altro; mi sono macerata nelle orazioni e nel pianto, per non pensare più che non mi potevate amare; ho proibito a me stessa la infinita consolazione di scrivervi, me ne sono andata lontana da voi, che eravate, che siete la mia luce! Invano. Qui, ho passato delle giornate a pregare mia madre e la Madonna, perchè mi svincolassero da questi terribili, tremendi legami terreni, che mi levassero dall'anima questo desiderio dell'amore, che mi fa morire: ah, niente, niente, non sono stata esaudita; io sono uscita da queste strazianti preghiere con un ardore più cupo, con una nostalgia più mordente! Sono donna, ecco; donna che non sa elevarsi, che non sa librarsi, che femminilmente e volgarmente vuole essere amata, e che non si consolerà giammai, giammai dell'amore che le manca!
Detto questo, ricadde con la testa appoggiata sulla spalliera, con gli occhi chiusi, di nuovo, con quella contrazione sdegnosa delle labbra, di chi nutre in cuore la collera suprema. Egli taceva: la fronte gli si annuvolava di pensieri.
– E che volete fare, Anna? – domandò, uscendo da una lunga concertazione.
– Niente – ella mormorò, non aprendo neppure gli occhi.
– Niente?
– Non vi è più da fare: tutto è finito. Anzi, nulla è mai cominciato – ella soggiunse, gelidamente, rabbrividendo tutta.
– Anna, vi assicuro che mi duole di vedervi soffrire...
– Grazie: ma che potete farci? La follia è stata mia. Convengo di essere squilibrata, stravagante; lo so. E pago il mio errore così caramente, con una espiazione così dura! Errore mio, errore soltanto. Tutti siete buoni con me, tutti quanti: ma io ho peccato, io debbo espiare.
– Ma che accadrà? – gridò lui, scosso.
– Sapete quale sarebbe la miglior soluzione?
– Quale?
– La mia morte. Ah, che riposo, pensate, che riposo lungo, infinito, sotto terra, nella buona bara inchiodata.
– Non dite questo; di passione non si muore.
– Già; è vero. Non vi è propriamente una malattia letale, che si chiami passione; i medici antichi e moderni non la conoscono, non l'hanno mai trovata, facendo l'autopsia del cadavere. Ma la passione è così sottile ingannatrice, che ella è in fondo di tutte le malattie mortali. Essa è nella tisi che fa agonizzare per anni coloro che amarono troppo, che non furono abbastanza amati; essa è nei mali del cuore, in quel cuore che si dilata sotto l'onda dell'emozione passionale, che si serra nella disperazione; essa è nelle lunghe anemie, che distruggono il corpo umano, fibra per fibra, gelandone l'epidermide, spezzandone ogni energia; essa è nella nevrosi che fa tremare di freddo e divampare in un calore insopportabile, che attacca ora il cervello, ora lo stomaco, che fa battere i denti per freddo mortale e che torce tutti i nervi in un crampo che fa impazzire. Oh, si muore prestamente, lentamente, di tante cose, con nomi così diversi, con fenomeni così bizzarri! Ma in verità, non si muore di tisi, di anemia, d'ipertrofia, di nevrosi; si muore, veramente, per una sola ragione, una soltanto: perchè non si può amare più, perchè non si è amati. Chi saprà mai il vero nome della malattia che mi porterà via? Il medico scriverà la parola scientifica sopra una carta, per dare una ragione della mia scomparsa, a mia sorella, a voi, a Stella: ma voi lo sapete, almeno voi, che anche questa volta la passione sarà riescita nel suo inganno, e che io sarò morta, perchè voi non mi amate.
– Io sono calma. Non ho più l'ombra di una speranza: ma sono calma, credetelo. Debbo dirvi queste cose perchè mi sgorgano dall'anima esse sole, per volontà propria. Sono una donna assolutamente disperata: ma calma, ormai. Non mi raccomandate nulla: tutto quello che mi potete dire, io lo aveva già detto a me stessa. Tutto è finito; perchè mi agiterei più?
– Ma che avete sperato? – chiese lui, con una certa curiosità.
– Oh Dio! – esclamò lei – che mi domandate!
Un sordo singhiozzo le ruppe il petto, pensando al tempo in cui aveva sperato di essere felice.
– Ditemelo, Anna. Vedete che ve lo domando con interesse... con vivo interesse.
– Ma voi non vi rammentate più che cosa sia l'amore, se mi domandate quali sieno le sue speranze! – esclamò ella, senza badare al modo come le aveva parlato Cesare Dias. – Tutto si spera, quando si ama. Dalla prima volta in cui udendo la vostra voce ho tremato, da quando la vostra mano che stringeva la mia, mi ha dato un fremito di delizia, da quando ogni parola vostra, dura o soave, di scherno o di amichevole affetto mi si è scolpita nell'anima, da quando, infine, io ho sentito che ero vostra per la vita, io ho sperato che voi mi amaste. Il mio sogno da quel giorno è stato che con lo stesso mio ardore, con lo stesso mio cieco abbandono, con la dedizione totale della vostra esistenza, con la trasformazione di tutti i vostri sentimenti, con l'assorbimento, con la concentrazione di ogni forza e di ogni potenza, vale a dire come vi amavo io, voi mi amaste. Questa sublime cosa, la passione corrisposta, ho sperato! Cioè la forma più alta, la forma infinita, che non somiglia a nulla, che nessuna cosa umana può agguagliare, un'armonia divina che risuona fin nelle sfere celesti! Questa fiamma, questo entusiasmo, questo delirio, questa vertigine degli altissimi pinnacoli, io ho invocato!
– È stata una illusione, – egli disse, piano, guardando il gran mare scintillante, sotto l'argenteo riflesso della luna.
– Lo so: perchè me lo ripetete ancora? E perchè facciamo questi discorsi? La mia anima si assopiva in un torpore doloroso, ma senza strazio: ora sento sanguinarmi di nuovo il cuore, come se in questo momento vi fosse aperta la gran ferita. Non mi dite più che non mi amate: lo so, lo so!
– Anna, Anna, non vi tormentate così...
– È da tanto tempo, che so tutto! La mia immensa speranza è decaduta a poco a poco, ogni giorno, quando vi ho visto da me così diverso e così lontano, quando ho inteso che mi avevate metà in disdegno e metà in compassione, quando ho capito che vi erano certamente stati, vi erano dei segreti nella vostra esistenza che non mi era dato conoscere, quando ho compreso che la differenza di età e di gusti portava anche una differenza di sentimenti. In tutti i modi, volontari e involontari, me lo avete detto, che la passione non era per voi, o che non l'avreste mai più provata, o che non l'avreste mai provata per me: io ho visto fiammeggiare la mia sentenza, in caratteri di fuoco, al mio orizzonte. Eppure, vedete, malgrado queste martellate della fatalità sul mio cervello, io non mi sono ancora rassegnata: io ho detto infine, che una donna giovane e appassionata non poteva perdere così miseramente se stessa e il suo amore: io ho pensato che una via di salvezza vi doveva essere, via secondaria, via umile, ma che avrei percorsa pazientemente. Ve lo dissi, l'altro mio sogno...
– Ditemelo ancora – soggiunse Cesare.
– Ebbene, io aveva sognato, che voi mi avreste permesso di unire la mia debole e combattuta giovinezza alla vostra calda e serena maturità virile, così superiore a tutte le tempeste umane: in tal modo avreste compiuto più profondamente, più intimamente, l'opera di protezione, che Francesco Acquaviva vi affidava, morendo; così la salvazione che voi faceste di quest'infelice, quando mi raccoglieste morente a Pompei, sarebbe stata sanzionata da un supremo atto di devozione. Il mio secondo sogno, semplice, modesto, era di potervi amare con tutte le mie forze, ma silenziosamente: di vivere accanto a voi, amandovi, seguendovi sempre, ombra affettuosa; di potere in ogni ora, in ogni minuto, offrirvi una prova taciturna, ma eloquente, del mio amore; di girarvi intorno, nella vostra orbita, satellite assorbito dalla folgorante luce dell'astro maggiore; di potervi amare, infine, operosamente, efficacemente, adoperando tutta la potenza di questa passione non corrisposta, a procurarvi anche un istante di felicità, se mi era dato; e in questa nobile e pura opera che non chiedeva gratitudine, che non chiedeva compenso, trascorrrere la mia vita, sino all'ultimo mio giorno, benedicendovi, esaltando la vostra bontà che mi avea permesso di poter vivere vicino a voi e di potervi amare in pace. Che visione! era degno di me, questo sacrifizio di ogni personale aspirazione; era degno di voi, elevare questa poveretta sino alla felicità della vostra quotidiana presenza, nella vostra casa, col vostro nome...
– Voi volevate che io vi sposassi? – chiese Dias.
– Moglie, amante, amica, serva, ciò che voi mi avreste permesso, mi sarebbe bastato: pur di essere dove voi siete; pur di finire la mia esistenza vicino a voi...
– Io sono vecchio – egli disse, freddamente, amaramente.
– Io sono giovane, ma muoio, Cesare!
– La vecchiaia è una triste cosa, Anna: essa gela il cuore e il sangue.
– Che importa? Io non vi domando di amarmi: debbo amarvi io.
– Voi non me lo chiederete giammai?
– Giammai.
– Promettetelo.
– Lo prometto.
– Per quanto avete di sacro, lo promettete?
– Per il Signore che mi sente nei cieli, per le benedette anime di mia madre e di mio padre che mi guardano, per il bene che porto a mia sorella Laura, per il più santo elemento del cuore, cioè per la passione che vi porto, io lo prometto, io lo giuro, io non vi chiederò giammai di amarmi.
– Voi non vi lagnerete di me e della mia freddezza?
– No, non mi lagnerò: io vi riterrò come il mio più grande benefattore.
– Voi mi lascerete vivere come voglio?
– Voi siete il padrone: disporrete della vostra vita e della mia.
– Voi mi lascerete partire, ritornare, ripartire, senza pianti, senza recriminazioni?
– Io aspetterò, pazientemente, l'ora felice del vostro ritorno.
Egli tacque un minuto: esitava a fare un'altra domanda. Ma con gli occhi ardenti, con le mani tese e invocanti, ella aspettava che egli parlasse ancora.
– Voi non mi tormenterete con la gelosia? – domandò egli, ancora, dicendo così la grande condizione.
– Oh Dio, Dio! – disse ella, torcendosi le braccia, battendosi la fronte con le mani – è mai possibile, anche questo?
– Come volete – egli osservò freddamente – vi offendo e vi dispiaccio, lo vedo. Vi chieggo cose superiori alle vostre forze. Tronchiamo il nostro colloquio.
E fece per levarsi, per andarsene. Ella si slanciò a lui, e gli prese le mani.
– No, no, non ve ne andate! Per carità, restate ancora un minuto, parliamo, ascoltatemi! Che io non sia gelosa? Non sarò gelosa: non vedrete la mia gelosia, mai. Volete ch'io vegga la donna che vi piace, o quella che avete amato, o quella che amate? Volete che io le accolga bene tutte quante, che diventi la loro amica? Farò tutto, subito. Cercate una prova terribile e io la supererò: domandate sino a quali confini possano arrivare l'anima e il corpo, e io vi giungerò, per voi!
– Chieggo di esser libero di cuore, niente altro – disse lui, fermamente.
– Come oggi, come sempre, voi sarete libero del vostro cuore.
– Uditemi, Anna, e intendetemi bene. Voi dovete, per un momento liberarvi della vostra personalità, dimenticare che siete voi, che mi amate: per un momento solo giudicate freddamente, serenamente il presente e l'avvenire. Anna, io sono vecchio e voi siete giovane, e la differenza della età che ora non vi sembra grande, sarà terribile fra dieci anni, perchè io non posso che declinare, mentre voi sorgete alla vita; voi vi siete fatto, nella vostra fantasia, un concetto ideale di me, che non corrisponde alla verità, e che l'avvenire, certo, correggerà con vostro dolore; i nostri caratteri, i nostri temperamenti hanno fra loro un dissidio profondo, non sappiamo se l'avvenire comporrà mai questo dissidio; infine, se io, lo confesso, compio un sacrificio, dicendovi quel che vi dico, è certo che voi ne farete uno lungo e triste accanto a me. Pensateci, pensateci! Pensate a questa vecchiaia, a questa illusione vostra che deve necessariamente sfiorire, a questa disunione immensa, a questo mutuo sacrificio. Anna, è tempo ancora!
Ella lo guardò, sgomenta di udirlo parlare in modo così agitato, mentre era solito a dominare qualunque proprio turbamento. Egli era veramente commosso, una ruga gli segnava la fronte, dove Anna leggeva per la prima volta una secreta cura; gli sguardi che volgeva attorno, sulla gran terrazza fiorita, bagnata dalla luce lunare, sul golfo ormai tutto chiaro nella notte plenilunare, aveano qualche cosa di smarrito. E a lei parve, in quell'istante, di vederlo disceso da quell'altezza glaciale in cui si era tenuto sempre, da quella forte e serena superiorità d'animo che lo rendeva vincitore in tutte le battaglie; le parve che egli fosse più debole, sì, ma più umano, ma più rassomigliante a tutte le infinite creature umane, che soffrono e che piangono.
– Anna, Anna – egli soggiunse incalzando con la voce – spogliatevi di ogni egoismo e di ogni passione, e giudicate voi, voi sola, se io debbo acconsentire a quello che voi desiderate. Io vi ho detto, crudelmente, brutalmente quello che voglio da voi in cambio del mio sacrificio; io vi ho ripetuto, due o tre volte, che cosa vi è di grave in quello che facciamo. Cara fanciulla, vincetevi, giudicate voi.
Ella si appoggiava con le due mani al parapetto della terrazza e teneva gli occhi bassi.
– Ma perchè... – chiese lentamente a bassa voce – perchè voi... che siete così saggio... così freddo... che disdegnate tanto la passione, volete fare questo sacrificio?... Chi vi ha persuaso?... chi vi ha vinto?...
– Perchè voi mi avete detto che non vi è altro mezzo di salvarvi; perchè Stella Martini mi ha scritto che debbo salvarvi, perchè io stesso sento che debbo salvarvi così.
– Per pietà, dunque, volete far questo? – domandò Anna, ansando.
– Lo avete detto – rispose evasivamente lui, non volendo ripetere la dura parola.
– Che Dio vi benedica, per la pietà vostra – ella disse, umilmente incrociando le mani, come se pregasse.
Un silenzio profondo regnò. Egli stava col capo abbassato, pensando, aspettando che ella parlasse: ella guardava il cielo, quasi che in esso volesse leggere il motto del suo destino. Ma nel suo cuore e nella sua mente, ma dalle sfere spirituali e dal divino paesaggio, intorno, ella non udiva altro che un motto solo.
– Ebbene, che dite?
– Perchè mi domandate ancora? – diss'ella, semplicemente. – Io vi amo e senza voi mi aspetta la morte. Tutto è meglio della morte, tutto; e voi siete la vita.
– Siate dunque la mia sposa e la mia amica – egli disse risolutamente.
– Grazie, amore – e piegò le ginocchia come innanzi al suo Dio.
. . . . . . . . . . . . .
Quando egli si fu allontanato, ella, devotamente, si chinò a baciare il muretto del terrazzo, dove si era appoggiata, parlandogli: si chinò a baciare la spalliera della seggiola rustica, ove egli aveva appoggiato il suo capo; poi dai grandi vasi che giravano intorno intorno alla loggia, e che vi formavano dei boschetti, colse tutti i fiori, tutte le rose, tutti i gelsomini, tutte le passiflore, tutte le gaggie, e l'odorosa menta, e i fiammanti geranii, e le sottili felci fiorite: un grande fascio di fiori che ella si strinse al seno, teneramente, poichè quei fiori avevano udito il loro colloquio. Prima di rientrare in casa, salutò ancora una volta, coi brillanti occhi pieni della suprema felicità, il gran paesaggio del mare, del cielo e quell'immenso candore che pioveva dalla luna: e attraversò l'appartamento, cercando qualcuno cui parlare. Ma in casa, tutti dormivano: e la sola cameriera che attendeva il ritorno di Laura e di Stella, dal ballo, sonnecchiava in anticamera. Anna si vide tutta sola e il cuore le scoppiava di dolcezza! Allora tacitamente, attraversando la casa, bianca ombra leggiadra, trovando la sua strada al chiarore del raggio lunare che penetrava da tutte le finestre, ella giunse innanzi alla porta della stanza di sua madre, vi mise la chiave nella serratura e la schiuse. Un'oscurità profonda vi regnava: ma Anna, assetata di luce, andò alla finestra, al balcone, e li aperse lasciando che la morbida luce plenilunare vi entrasse. E lo smorto azzurro del raso, nelle tende, nei parati, nei mobili, a quel chiarore argenteo, diventò bianco, simile al vestito candido di una sposa: e i merletti antichi ingialliti dal tempo, apparvero bianchi come una spuma, e fin la spera dello specchio scintillò, quasi vi fosse battuto sopra il raggio del sole. Era dunque, tutto intorno ad Anna, un candore ed una dolcezza che la struggevano di emozione: le cose conservanti il ricordo, il profumo di sua madre, sembravano tenderle le braccia maternamente.
Ella fece il giro della stanza materna, dove era stato il nido di un puro e profondo amore che solo la morte aveva infranto e che, forse, neppure la morte aveva infranto; ella si fermò a ogni mobile dove, certo, la mano, la fronte di sua madre si era appoggiata e la sua mano ne carezzò il legno, il metallo, quasi fosse la benamata fronte materna; ella si sedette, un momento, innanzi alla piccola scrivania dove, certo, sua madre si era seduta a leggere, a scrivere, a pensare; e nascosta la faccia tra i fiori colti sulla terrazza, tra i fiori testimoni dell'amor suo, anche ella pensò: e la tenerezza delle cose ambienti la invase sempre più, come in un'onda di affetto benedicente. L'ora della notte era avanzata e la luna era ormai altissima sul cielo, ma il suo chiarore sembrava più puro, più limpidamente luminoso, entrando dalle finestre spalancate. Anna si levò e restò ferma in mezzo alla stanza, tutta penetrata da una letificante sensazione: spalancava bene gli occhi per veder meglio, e la bocca le si schiudeva a un sorriso profondo, intimo. A un tratto, innanzi a sè, sul bianco capezzale guarnito di merletti, le sembrò di scorgere un delicato volto ovale e due occhi neri, pensosi, dolci, che la carezzavano, guardandola. Ella tremò, dalla testa ai piedi, a quella visione, fece tre passi e cadde con le braccia tese verso quel capezzale dicendo:
– O mamma, mamma, voi avreste fatto così.