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15 - IL SACRILEGIO. - IL BEL SOGNO D’AMOR SPARISCE
L’amore di Bianca Maria Cavalcanti e di Antonio Amati si era fatto più forte e più doloroso. Anzi il segreto cruccio mesceva non so quale attraente sapore di lacrime nella loro passione: quello che era stato un idillio, fra la innocente e pia fanciulla di vent’anni e l’uomo di quaranta, acquistava saldezza e profondità di dramma. Candidamente, con la ingenuità dei cuori che amano per la prima volta, essi avevano sognato di vivere insieme la vita, sorreggendosi per la mano, nel lungo cammino: ma continuamente si ergeva fra loro la figura ostile di Carlo Cavalcanti.
In quella torbida estate che aveva sconvolto lo spirito del vecchio marchese di Formosa, la condizione dei due amanti era venuta peggiorando insieme con la crescente morbosità del vecchio signore. Non si vive impunemente accanto a una infermità fisica o morale, malgrado l’eroismo, malgrado l’indifferenza: e né Bianca Maria, né Antonio Amati erano egoisti o indifferenti. Non riesciva loro di distrarsi dal contatto morale con Carlo Cavalcanti: non riesciva loro di concentrarsi, di assorbirsi nel loro affetto profondo. Le febbri morali, come quelle materiali, mettono nell’aria un miasma, un calore infetto, facendo squilibrare gli elementi dell’atmosfera respirabile, avvelenando sottilmente o pesantemente, l’aria, tanto che i più sani chinano il capo, oppressi, soffocati.
Essi erano onesti, buoni e pietosi, con l’anima così puramente invasa dall’amore che niun acido, per quanto possente, potea corroderne il nobile metallo: ma l’aria era attossicata, intorno, dal morbo morale di Carlo Cavalcanti ed essi vivevano difficilmente, oramai, in quell’ambiente. Torbida estate! Per quanto egli ricorresse a tutti i mezzi di persuasione, il dottor Antonio Amati non aveva potuto ottenere che Carlo Cavalcanti mandasse la sofferente figliuola a villeggiare in campagna: più forte di ogni convincimento e di ogni collera, era la ostinazione dell’indurito giuocatore, che considerava la sua figliuola come la spirituale sorgente dei numeri e che la metteva alla tortura, perché ella ricadesse nelle visioni che il suo turbato cervello di vecchio folle cercava di evocare.
Quando il dottore, disperato, furioso, insisteva, il marchese, che non si vergognava più nel chiedergli del denaro in prestito, promettendo sempre di restituirlo, il marchese assumeva un tono di fierezza offesa e il medico, intimidito, in fondo, dalla grand’aria di quel vecchio signore, cessava dall’insistere rimettendo un nuovo attacco a miglior tempo. Una volta egli aveva convinto Carlo Cavalcanti a partire anche lui, con la figliuola, descrivendogli la salubre freschezza della sua remota casa di campagna: e quasi quasi il vecchio nobile era pronto a partire. Ma doveva essersi informato: in quel paesello non vi era botteghino del lotto, bisognava scrivere o telegrafare a Campobasso; e anche il telegrafo era in un altro paese vicino: erano difficoltà interminabili, per giuocare un biglietto: e si era dovuto sentire, in quelle sere, più che mai avvinghiato a Napoli, e alla sua congrega di giuocatori, e alla bottega di lotto di don Crescenzo. Rifiutò netto, senza discussione. La fanciulla piegò il capo, davanti a quella volontà: aveva sempre obbedito, non si sapeva ribellare. Amati fremeva d’ira, anche contro lei: ma, subito, una immensa pietà lo vinceva.
La povera creatura innocente e sofferente languiva: non poteva più sopportare le ribellioni del suo innamorato, lo guardava coi suoi occhi meravigliati e dolorosi con tale intensità, che egli le perdonava la sua sommessione filiale. Torbida estate! Ogni anno il dottore aveva serbata l’abitudine tenera di passare un mese presso sua madre, la buona vecchia contadina, in campagna, nelle più semplici occupazioni, riposandosi, non leggendo, non ricevendo visite, non facendone, sempre con sua madre, riparlando il dialetto contadinesco, rifacendosi, nella rusticità, una sanità di forze morali e fisiche.
Ebbene, in quell’estate, legato dalla catena di quell’amore, posponendo di giorno in giorno la sua partenza per il Molise, sentendo tutta la pena di quel ritardo, impallidendo ogni volta che gli giungeva una lettera di sua madre, dettata al fattore della masseria, una lettera piena di malinconici richiami, il dottore era restato a Napoli, scontento di sé e degli altri, adorando Bianca Maria, ed odiando il marchese Cavalcanti. La innocente creatura, i cui sonni eran sempre turbati dalle allucinazioni di suo padre, deperiva ogni giorno, senza che il medico potesse far nulla per guarirla. Aveva soltanto ottenuto, offrendo la sua carrozza, che Bianca Maria andasse a fare delle lunghe passeggiate in carrozza, in riva al mare, sulle dolci colline che circondano Napoli: la vecchia Margherita l’accompagnava e, talvolta, anche il dottore osava uscire con la fanciulla.
Quando appurava una cosa simile, il marchese Carlo Cavalcanti aggrottava le sopracciglia e l’antico sangue di sua casa gli bolliva nelle vene, istigandolo a punire l’audace plebeo, che assumeva contegno di fidanzato, presso una fanciulla di alto nome, ma si chetava, tante transazioni aveva fatte e continuava a fare ogni giorno di più, con l’alterezza, col decoro, persino con l’onore! Del resto, tutti dicevano che il dottor Antonio Amati avrebbe presto sposato la marchesina Cavalcanti: tutti lo dicevano, con un sorriso di compassione per la fanciulla, come se il medico facesse un’opera provvidenziale, sposandola. Lassù, nel bosco di Capodimonte così verde e profondo di alberi secolari, di prati smaglianti di fiori, laggiù, lungo la mirabile via di Posillipo che discende ai fumanti campi Flegrei, l’idillio dei due innamorati ricominciava, innanzi alla bella natura napoletana fra tanta soavità di linee e di colori.
Le delicate guance smorte della fanciulla, sotto il sole, nell’aria aperta che le circolava liberamente intorno al capo, si colorivano di un sottil velo roseo, come se il povero e debole sangue si muovesse più vivido. Ella sorrideva, ogni tanto arrovesciando il capo per bere l’aria pura; ella arrivava a ridere, mostrando i candidi denti e le rosate gengive che l’anemia aveva fatto impallidire. Allora, il medico, ridiventato fanciullo, chiacchierava e rideva con lei, guardandola negli occhi, prendendole le mani, ogni tanto, caricandole di fiori agresti: essi si dimenticavano della vecchia Margherita, che si dimenticava di loro, seduta sull’erba, nel torpore che dà ai vecchi l’aria libera estiva: ma erano così ardentemente affettuosi e così castamente affettuosi, insieme, che la dimenticanza non era peccato. La fanciulla tornava a casa, ebbra di luce, di sole, di amore, con le mani piene di fiori, con le nari rosate dilatate che respiravano ancora l’aria pura: ma come la carrozza entrava nelle vie della città, il suo giovanile sorriso si andava dileguando, e quando la carrozza entrava sotto il nero androne del palazzo Rossi, ella abbassava il capo, avvilita.
- Che hai, che hai? - le domandava il medico ansiosamente.
- Niente, - rispondeva ella, con la gran risposta dei disperati timidi, che nascondono la loro disperazione.
Pian piano, ella risaliva nella sua nuda e triste casa: sulla soglia aveva ancora un sorriso per Antonio Amati ed entrava in casa, con un cenno risoluto, quasi che superasse una paura, un disgusto. Spesso, Carlo Cavalcanti le veniva incontro, con una collera fredda, o col viso stravolto delle sue cattive ore di passione. Ed ella fremeva, mentre solo quell’aspetto le faceva fuggire il sangue dalle guancie, faceva fuggire tutto l’idillio d’amore, tutta la dolcezza del sole e dell’amore.
Quando ella era entrata nel grande salone, posando timidamente sopra un angolo di tavolino il suo gran fascio di fiori campestri, il vecchio signore la interrogava avidamente, ansiosamente, su la via che aveano preso, su quello che essa avea visto. Bianca rispondeva con voce fioca, a frasi brevi brevi, voltando il capo dall’altra parte: ma egli insisteva, voleva sapere tutto quello che aveva visto. Oramai ogni visione di sua figlia, lo riempiva d’incertezza, di curiosità, di affanno, cercando sempre, in quanto ella vedeva, la corrente mistica della cifra, dei numero. Oramai egli la credeva assistita: assai meglio assistita di don Pasqualino, perché era donna, perché era fanciulla, fanciulla pura, fanciulla inconscia. Ella non sapeva, ma era assistita: non aveva lei veduto lo spirito, in quella notte fatale, a piangere, a salutare? Ed egli continuava le sue interrogazioni fitte, fitte, stravaganti, obbligando la figliuola a seguirlo nelle sue stravaganze.
- Che hai visto, che hai visto? - era la domanda angosciosa di quel giuocatore, che dimenticava di essere padre.
Ahi che il bel sogno d’amore spariva, con la sua luce, con la sua lietezza. ed ella aveva intorno quelle ombre soffocanti della nuda casa, con quel vecchio che farneticava paurosamente, imponendole le terrorizzanti fluttuazioni del suo delirio! Anzi, ogni volta che ella, dolcemente, pronunziava il nome di Antonio Amati, il salvatore, l’amico, l‘amore, il marchese Cavalcanti arrossiva di collera. Ella intendeva: suo padre aveva finito per odiare profondamente Antonio Amati, odiandolo per i medesimi servigi che Amati gli aveva resi e rendeva, odiandolo per la misura di riconoscenza che gli doveva. In quei momenti, la fisonomia di Cavalcanti diventava così aspra, così feroce, che Bianca Maria si sgomentava: e il suo cuore si divideva fra l’incrollabile rispetto filiale e la passione per Amati. Una volta che Margherita, in presenza di Cavalcanti, aveva accennato alle voci di matrimonio fra la marchesina e il dottore, il marchese era diventato una furia e aveva dato tale un urlo dicendo: no! che la cameriera si era turata le orecchie, spaurita.
- Eppure la signorina si dovrà maritare, un giorno - osservò ella timidamente e maternamente, - meglio il dottore, che un altro…
- Ho detto, no! - ribattè, tetro, il marchese.
D’allora in poi, egli si mostrò più originale, più stravagante nelle sue parole. Ogni tanto, fra le tante incoerenze mistiche e spirituali, in cui vagabondava la sua fantasia, egli ritornava, parlando a sua figlia, a un pensiero dominante: all’amore considerato come macchia, come peccato, come indelebile impurità dell’anima e del corpo. La fanciulla spesso arrossiva, nella sua semplicità, udendo le ingiurie di cui egli colmava l’amore: e allora egli faceva l’elogio della castità che mantiene il cuore nello stato di grazia, che permette agli occhi umani le sovrumane visioni, che fa attraversare la vita in uno stato soavissimo di puro sogno. Egli si esaltava, malediceva l’amore come sorgente di tutte le sozzure di tutti i mali, di tutti i dolori, la bocca si torceva sotto questo flusso impetuoso di vituperii, e Bianca Maria si nascondeva il volto fra le mani, come se tutte le ingiurie del padre la colpissero sul viso.
- Mia madre era una santa donna e vi ha amato… - osservò ella, un giorno, pentendosi subito della sua audacia.
- Di questo amore è morta… - rispose egli, cupamente, quasi parlasse a sé stesso.
- Anche io vorrei morire come lei… - mormorò la fanciulla.
- Morirai maledetta, maledetta da me, intendi? - gridò lui, come un energumeno. - Guai alla figlia dei Cavalcanti che affoghi il suo cuore nell’onta di un amore terreno! Guai alla fanciulla che preferisca le volgari laidezze della passione umana, alle purissime altitudini della vita spirituale!
Ella aveva chinato il capo, senza rispondere, sentendo sempre più aggravare sulla sua vita quella mano ferrea che dovea piegarla e spezzarla. Non osava raccontare al suo innamorato tali scene: solo, ogni tanto, spezzando per un minuto il fascino del rispetto con cui la dominava suo padre, ella ripeteva ad Antonio Amati la sua parola disperata:
E da lui, adesso, ogni calma era sparita: egli stesso vagheggiava questo progetto di rapimento, questo portarsi via la fanciulla come sua compagna, come sua adorata compagna, questo toglierla ai tetri incubi di una vita che era per lei l’agonia quotidiana. Sì, avrebbe levata quella povera vittima al suo inconscio carnefice, l’avrebbe strappata a quell’ambiente di vizio, di miseria, di follia, mettendola nella sua casa, sul suo cuore, difendendola contro tutte le pazzie, contro tutte le burrasche; il marchese Cavalcanti sarebbe restato, solo, a dibattersi contro la sua passione, e non avrebbe più trascinato nell’abisso di disperazione, ove egli affondava, una povera creatura, buona, mite, innocente. Ogni giorno questo desiderio di salvazione cresceva nel cuore di Amati, fino a rendersi prepotente: e gli tardava di parlare, perché il bel sogno divenisse un fatto. Gravemente, solennemente, lo aveva promesso a Bianca Maria, in quella serata dolorosa in cui ella gli aveva confidato tutto il mistero della sua famiglia: e un galantuomo deve mantenere le sue promesse, anche se fatte nell’estasi inebriante o nel doloroso abbattimento di supremi momenti.
Gli tardava: e intanto i giorni trascorrevano, e una incertezza lo vinceva, quando più era deciso a chieder a Cavalcanti la mano di sua figlia. Sentiva vagamente che quella parola sarebbe risolutiva: e poteva risolversi in bene o in male: il bene gli era necessario, non potea farne a meno; il male gli pareva insopportabile. Ma un grave avvenimento, a un tratto, lo fece decidere.
Il marchese Cavalcanti, fra le fluttuazioni della sua follia, aveva conservato la mistica reverenza, e ogni venerdì passava delle ore in preghiere, nella sua cappella, innanzi alla Madonna Addolorata, con cuore trafitto dalle spade, innanzi a quell’Ecce Homo di grandezza naturale, tutto sanguinante, dalla fronte coronata di spine, dal costato trafitto. Con quella fede dei meridionali che ha tutti gli slanci, ma che è anche vinta da una fitta rete di volgarità, che la trattiene sulla terra, egli mescolava continuamente la divinità a tutte le terrene complicazioni della sua passione: e ogni tanto, nella disperazione, la rendeva responsabile della sua rovina.
- Tu l’hai permesso, tu l’hai permesso, Gesù Cristo mio! - gridava il marchese, nelle sue preghiere.
Ma nei giorni terribili, la sua fede diventava anche più accusatrice, ingiusta, sacrilega:
- Tu l’hai voluto, Gesù, tu l’hai voluto!… - egli imprecava con le lacrime che gli bruciavano gli occhi, con la voce soffocata.
Anzi, una sera mentre Bianca Maria credeva che il padre fosse uscito, passando innanzi alla porta della cappella udì partirne delle voci interrotte, fra l’ira e il lamento: ella si avanzò e, sporgendo il capo, vide il padre che, inginocchiato, aveva buttate le braccia intorno al corpo dell’Ecce Homo e ora si lagnava della sua sfortuna, ora dava in esclamazioni, in bestemmie, maledicendo tutti i nomi della Divinità con empia parola, subito pentendosi, chiedendo perdono delle ingiuste e sacrileghe offese: infine, un novo impeto di collera lo assalse e si staccò dal sacro busto con disdegno, profferendo delle parole di minaccia. Egli prometteva nel suo delirio, a Gesù Cristo legato alla colonna, di punirlo, sì, di punirlo, se per la prossima settimana non disponeva che egli vincesse una grossa somma al lotto. Bianca Maria, esterrefatta, non vedendo più la misura di questa empia follia, fuggì, nascondendosi il volto fra le mani: e, chiusa nella sua stanza, ella pregò tutta la notte il Signore, perché l’inconscia eresia di suo padre non fosse punita. Oramai, ella si chiudeva sempre, di notte, per sottrarre il suo riposo notturno alle suggestioni di suo padre, che la voleva obbligare a evocare lo spirito, che le parlava di questi fantasmi come di persone vive, che la perseguitava, infine, in ogni ora, tenendola sotto quell’incubo spaventoso. Ma poco dormiva, malgrado la solitudine e il silenzio della sua stanzetta: poiché i suoi nervi, tesi, oscillavano al minimo rumore: poiché temeva sempre che suo padre picchiasse alla porta, o tentasse di aprire con un’altra chiave, per indurla a chiedere i numeri, nella notte, allo spirito assistente. Mentre ella sonnecchiava, in un lieve dormiveglia, donde il minimo scricchiolìo la traeva, ella sussultava come se voci fievoli la chiamassero, sbarrava gli occhi nell’ombra, quasi a vedere uno spettro, che le sorgesse accanto al letto: e quante volte ella si levò, seminuda, scalza, correndo sul pavimento, poiché le pareva che una mano leggera strisciasse sul capezzale, venisse a toccarle la fronte, a carezzarle i capelli!
E una notte, una notte sopra sabato, ella udì, nel dormiveglia, suo padre passeggiare su e giù per la casa, passando varie volte innanzi alla sua porta, nelle furiose cogitazioni della sua anima tumultuante: e sottovoce, ella invocò per lui la calma del cielo, la calma che pareva fuggita, per sempre, da quello spirito. Ma mentre si riaddormentava, un bizzarro e sordo rumore la risvegliò, trabalzante: era come se si trascinasse un corpo pesantissimo, facendo vacillare le porte, le finestre e i pavimenti, con quel tetro fragore. Ogni tanto, il misterioso rumore si andava chetando, taceva: dopo una pausa di qualche minuto ricominciava, più forte e più sordo, nel medesimo tempo. Ella era rimasta levata sui guanciali, inchiodata da una ignota mano di ferro: che accadeva di là? Avrebbe voluto gridare, suonare il campanello, fare accorrer gente, ma quel fragore le toglieva la voce: ella restò muta, sudando freddo, con tutta la tensione dei suoi nervi concentrata nell’udito. Il rumore quasi di tremuoto, che si approssima, era sempre più vicino alla sua porta ed ella, nell’ombra, congiunse le mani, chiuse gli occhi forte forte, per non vedere, pregando Dio che non la facesse vedere. Insieme a quello strascinìo di corpo pesante e traballante, ella udì un respiro affannoso, di persona che si adopera a una diseguale fatica: e poi, un urto forte, come se avessero battuto alla sua porta con una catapulta. Ella credette che la porta si fosse schiusa violentemente e ricadde sui cuscini, non udendo più, non vedendo più, smarriti i deboli sensi. Ben tardi, molto più tardi, rinvenne: gelida, immobile, tese l’orecchio, ma non udì più nulla, per molto tempo, e nella confusione, oramai, che nella sua fantasia si formava fra la realtà e il sogno, le parve che tutto quello che aveva udito, non fosse stato che una lugubre visione, che l’avesse oppressa coi suoi terrori. Aveva sognato, dunque, quel bizzarro tremuoto, e quell’affannoso respiro, e quel forte colpo alla porta della sua stanza. La mattina, dopo aver riposato poche ore, si levo più tranquilla, e dopo aver detto) le sue orazioni andò nella stanza di suo padre, come soleva fare ogni mattina, per augurargli il buon giorno. Ma non lo trovò: e il letto era intatto. Talvolta, da qualche tempo, il marchese Cavalcanti non rientrava a casa, e l’allarme suo e dei servi, le prime volte, era stato grande: ma quando il marchese di Formosa era rientrato, aveva sgridato coloro che lo avevano cercato dicendo che non tollerava inquisizioni, che faceva il piacer suo. Pure, Bianca Maria, ogni volta che sapeva aver egli passato la notte fuori di casa, diventava inquieta: era vecchio, era stravagante, la sua follìa lo metteva in perigliosi contatti, lo rendeva credulo e debole: ella temeva sempre che qualche pericolo lo soverchiasse, una di quelle notti, nella via, in qualche oscura riunione di cabalisti. Anche quella mattina tremò: e passò nelle altre stanze, ripensando a quel fenomeno della notte, di nuovo, domandando a sé stessa, se tutto ciò non si rannodasse a un truce mistero. Trovò Giovanni che spazzava accuratamente:
- Non è rientrato questa notte, il marchese? - domandò, con finta disinvoltura.
- È rientrato: ma è uscito prestissimo, - rispose il servitore.
- Non è andato a letto… credo… - mormorò, abbassando gli occhi.
- No, Eccellenza, - disse il vecchio servitore.
In questo sopraggiunse Margherita e disse qualche cosa frettolosamente al marito, che annuì e disparve nella cucina.
- Ho pregato Giovanni, che tirasse lui il secchio dell’acqua, dal pozzo, stamane, - spiegò la vecchia cameriera. - Stamane non ho forza.
- Poveretta, ti stanchi troppo, - osservò pietosamente Bianca Maria, con gli occhi pieni di lacrime.
- Sono un po’ vecchia: ma per voi farei qualunque cosa, Eccellenza, - disse la fedele, con voce materna. - Ma non so che cosa abbia, il secchio, stamane: è così pesante, che non lo posso tirare su: ho pregato Giovanni che ha più forza, a prendere il mio posto.
E ambedue andarono di là, perché Margherita ci teneva all’onore di pettinare le belle e folte trecce nere di Bianca Maria. Anche la pettinatura fu interrotta da Giovanni che, non osando entrare, chiamava fuori Margherita e parlottarono fra loro, qualche tempo, mentre Bianca Maria aspettava, coi capelli neri disciolti sul bianco accappatoio. Margherita ritornò, turbata, e tremava, tenendo il pettine:
- Che è? - chiese Bianca Maria.
- Niente, niente, - mormorò in fretta, la cameriera.
- Dimmi, che è? - insistè l’altra, guardando la vecchia.
- È che neppure Giovanni, ha potuto tirar su il secchio...
- Ebbene?...
- Giovanni dice.., dice, che vi è un ostacolo.
- Un ostacolo?
- Ha chiamato Francesco il facchino… tireranno su insieme… forse vinceranno l’ostacolo...
- Che ostacolo? - balbettò la fanciulla, impallidendo mortalmente.
- Non so, signorina… non so, - disse la vecchia, tentando di ricominciare a pettinarla.
- No. - disse quella risolutamente, scartando la mano col pettine e raccogliendo sulla testa i capelli con le forcinelle. - No, andiamo di là.
- Eccellenza, Eccellenza, che ci andiamo a fare? Vi sono Giovanni e Francesco… restiamo qui.
- Andiamo di là, - insistette la fanciulla, avviandosi verso la grande cucina.
Il vecchio Giovanni e il facchino Francesco, in maniche di camicia, tiravano con tutte le loro forze la fune: e la fune saliva con un moto impercettibile, con uno scricchiolìo, come se si spezzasse.
Ma tanto sulla faccia del vecchio servitore Giovanni come sulla faccia del facchino Francesco, oltre il senso della grossa fatica che duravano, si leggeva una grande paura. Ogni tanto, coi fianchi ansimanti e le braccia che s’irrigidivano, si fermavano dal tirare e si guardavano, scambiando un’occhiata spaventata. Dalla soglia della cucina, avvolta nell’accappatoio bianco e coi capelli mezzo disciolti, Bianca Maria li guardava fare, mentre Margherita la cameriera, alle sue spalle, la veniva pregando, sottovoce, perché se ne andasse, se voleva bene alla Madonna, perché se ne andasse, in nome di Dio.
- Ma infine, che sarà? - disse con fermezza Bianca Maria, rivolgendosi ai due uomini, a cui il crescente timore troncava le forze.
- Che vi posso dire, Eccellenza? - balbettò Giovanni, - questo peso non è cosa buona...
Ma mentre tutti tenevano gli occhi fissi sul pozzo, in una angosciosa aspettazione, avendo tutto lo spasimo di quell’attesa e tutta la paura dell’ignoto, la cosa che i due uomini tiravano su, urtò fragorosamente, due volte, a destra e a sinistra, nelle pareti del pozzo: e il grave rumor sordo si ripercosse nel cuore di Bianca Maria, poiché era identico a quello che aveva udito nella notte. Un piccolo grido di spavento le uscì dalla bocca ed ella strinse le mani, fino a farsi entrare le unghie nella carne, per soffocare innanzi a quei servi il suo terrore. Ma ancora una volta con un rumore più forte, più vicino, la cosa battè contro la parete del pozzo.
- Sta venendo, - disse il facchino paurosamente.
- Sta venendo, - ripetette Giovanni, costernato.
E alle spalle di Bianca Maria che non poteva più domare i suoi nervi eccitati, Margherita pregava, sottovoce, tremando:
- Madonna, assistici; Madonna, scampaci!
Ma quello che apparve all’orlo del pozzo, barcollando, vacillando, con la fune del secchio che gli girava tre volte intorno al collo, con la catena del secchio che gli pendeva sul petto, la fece urlare di paura. Era un tronco d’uomo, dalla fronte stillante acqua e sangue sulle guance dolorose, dal torace nudo, stillante a rivoli sangue e acqua dal costato ferito, e negli occhi aveva sangue e lagrime, e la faccia e il petto avevano il livido colore della carne dei morti. Urlando di spavento, Francesco e Giovanni fuggirono, chiamando aiuto, aiuto: urlando di paura, le due donne, padrona e cameriera, erano fuggite nel salone tenendosi abbracciate, l’una con la faccia nascosta sul petto dell’altra, non osando levare il volto, perseguitate da quella orribile visione di tronco di assassinato. E il tronco tutto livido, tutto sanguinante nel viso, e nel petto, e nelle braccia avvinte, con l’espressione desolata dei suoi occhi, della sua bocca socchiusa quasi a un singulto, gocciando acqua e sangue, restò appoggiato sul parapetto, legato dalla fune, legato dalla catena. Il facchino e il servitore si erano buttati verso le scale gridando che vi era un morto, che vi era un morto ucciso: e subito nella scala, nel portone, nel vicinato, si diffuse la voce che nel pozzo del palazzo Rossi, era stato trovato il cadavere di un assassinato.
Tutti avevano aperte le porte di casa, tutti erano alle finestre: ma il racconto confuso e tremante che facevano Francesco e Giovanni, aveva tanto comunicativo spavento, che nessuno osava penetrare nella casa aperta del marchese Cavalcanti e nella cucina dove il cadavere giaceva, abbandonato. Nel salone, le due donne si tenevano sempre strette, tremando, mentre Margherita cercava di vincersi per amore della sua padrona, il cui corpo, nelle sue braccia, ella sentiva a volte ammollirsi come per mancanza di spiriti vitali, a volte irrigidirsi, come in un impulso di convulsione nervosa. Ma il gran susurro del palazzo, dal portone era giunto anche in casa del dottore, che aveva il cuore sempre fremente nell’aspettativa di una catastrofe: messo il capo alla finestra, vide gente dovunque e confusamente arrivò, anche a lui, la vociferazione che s’era trovato un morto, ucciso, nel pozzo del palazzo Rossi e che il morto era nella cucina di casa Cavalcanti. Giusto, Giovanni, ripensando alle due donne lasciate sole, pentito di quel gran chiasso, intendendo che tutto quello scandalo sarebbe ricaduto sulla famiglia Cavalcanti, risaliva le scale:
- Veramente, ci è un morto? - gli chiese Amati, non arrivando a nascondere, malgrado la propria forza, il turbamento che lo aveva colpito.
- Veramente, Eccellenza, - disse il cameriere, con la disperazione negli occhi e nella voce.
- Chi lo ha visto?
- Tutti, Eccellenza.
- Chi, tutti? Anche la signorina?
- Anche la signorina.
Il dottore gli gettò una occhiata terribile ed entrò nella casa fatale, dove un fiato tragico aveva sempre soffiato dal primo momento che vi aveva posto il piede, dove tutte le lugubri bizzarrie parevano possibili. Girò per le stanze, come un pazzo, in cerca della fanciulla e la trovò seduta in un seggiolone del salone, così pallida, così stravolta e così muta che Margherita, sgomenta, le si era inginocchiata dinanzi, tenendole le mani, pregandola che le dicesse una parola, solo una parola. Bianca Maria diè un’occhiata ad Amati e parve non lo riconoscesse, tanto rimase fredda e inerte, fissa nella sua espressione di spavento.
- Bianca! - disse il medico, con voce dolce.
- Bianca! - replicò lui, più forte.
E le prese la mano: a quel lieve contatto ella fremette, diè in un grido, ritornando in sé stessa.
- Amor mio, amor mio, parla, piangi, - suggerì lui, guardandola magneticamente, cercando di trasfonderle la sua volontà, la sua forza, il suo coraggio.
E a un tratto, come se quella volontà e quella forza le avessero dissuggellate le labbra, ella si mise a gridare:
- Il morto, portatelo via, il morto!
- Ora, ora, non temere, lo portiamo via, sta calma, - le disse il medico.
- Il morto, il morto! - gridava lei, con la faccia fra le mani, convulsamente. - Per carità, portatelo via, questo morto, o mi porterà via! Non mi fare portar via, te ne supplico, amor mio, se mi vuoi bene!
Con uno sguardo il dottore raccomandò la fanciulla a Margherita e, seguito da Giovanni, andò in cucina: in anticamera vi erano già due o tre persone che parlavano di chiamare il delegato, il portiere, la portiera, le serve di casa Fragalà e di casa Parascandolo, Francesco il facchino, ma nessuno di essi, pure seguendo il dottore, osò entrare nella cucina: lo lasciarono andar solo, aspettando nell’anticucina, in silenzio, vinti, di nuovo, da una gran paura. Il medico, pur avvezzo ai cadaveri, scosso da quella catastrofe che lo feriva intimamente, demoralizzato dal pensiero delle sue conseguenze, entrò in cucina, in preda al più profondo dei turbamenti, che la vista di quella fronte sanguinante, di quelli occhi piangenti, di quelle mani legate e sanguinanti, di quel torso livido, ferito e sanguinante, fecero crescere a dismisura. Ma il sangue freddo dello scienziato, avvezzo alla morte, riprese il sopravvento e accostandosi, egli vide che quel capo aveva la corona di spine: e in una stupefazione immensa, egli comprese tutto. Era l’Ecce Homo.
La mezza statua di legno, che rappresentava alla sua naturale grandezza il Divin Redentore legato alla colonna, scolpita e dipinta magistralmente, avea tutto l’orribile aspetto del cadavere sanguinante: e l’acqua del pozzo in cui era stata immersa, ne aveva stinto il color di carne e il vermiglio del sangue, facendolo colare, nella duplice magica apparenza dell’assassinio e del l’annegamento. Pure, il dottor Amati si era sentito stringere il cuore, allo scoprire quella lugubre farsa, quella miscela di crudeltà e di grottesco: e dominata totalmente la stupefazione, l’uomo forte intendeva soltanto l’immensa amarezza di Bianca Maria inferma, addolorata, ferita forse a morte, per una tetra, mistica e puerile follia, in cui vaneggiava il marchese Cavalcanti. Adesso urgeva soccorrerla.
- È l’Ecce Homo, - disse brevemente, uscendo fuori, alla gente raccolta nell’anticucina.
- Voi che dite, Eccellenza! - gridò Giovanni provando lo stesso senso di stupefazione, aumentato dal dolore di quel sacrilegio.
- È l’Ecce Homo, - egli ripetè, guardando tutti coloro freddamente, con quella sua aria imperiosa che non ammetteva replica. - Andate in cucina, asciugatelo e riportatelo nella cappella.
Coloro si guardarono, consultandosi, sanati dal terrore del morto, presi dall’orrore di quell’oltraggio alla Divinità.
- Dopo farete venire il prete, a benedire, - egli disse, conoscendo il cuore del popolo napoletano.
Andò di là, nel salone. La fanciulla era ancora distesa sul seggiolone, con gli occhi coperti dalle mani, mormorando sempre, fra sé:
- Il morto, il morto, amore caro, fate portare via il morto...
- Non vi era nessun morto, cara, - egli le disse, con quella dolcezza che gli veniva dalla infinita pietà.
- Oh sì, sì, vi era.. . - mormorò ella, melanconicamente, crollando il capo, quasi che nulla valesse a persuaderla del contrario.
- Non vi era nessun morto, - replicò lui, seriamente, sentendo il bisogno di domare quel vagabondaggio della ragione.
E cercò di toglierle le mani dagli occhi: ma esse s’irrigidirono e una espressione di spasimo stirò la fisonomia della ragazza.
- Guardatemi un poco, Bianca Maria, - le mormorò lui con voce insinuante.
- Non posso, non posso, - disse lei, con voce triste e misteriosa.
- E perché?
- Perché potrei vedere il morto, amore, amore mio, - ella disse, sempre con quel profondo senso di mestizia che faceva venire le lagrime agli occhi del dottore.
- Cara, vi giuro che non vi è nessun morto, - replicò ancora lui, con la dolce insistenza che si fa a un fanciullo malato.
E intanto cercava di prenderle il polso, per sentirne le pulsazioni, per sentire la temperatura della pelle. Strano a dirsi, mentre la fanciulla pareva quasi in delirio, la mano era gelida e le vibrazioni del polso erano lente, fievoli. Egli ebbe una stretta al cuore, come se la mancanza di vita e di forza della poveretta, gli desse la prova di una decadenza continua, invincibile. Avrebbe voluto raccapezzarsi in quel morbo singolare, in cui tutto il sangue pareva diventato debolissimo e in cui tutti i nervi fremevano in una acutissima sensibilità; ma troppo il suo cuore amava Bianca Maria, perché la sua scienza conservasse la sua lucidità. Non trovava più, non trovava il segreto di quel sangue impoverito e di quella nervatura frizzante: intendeva soltanto, così, confusamente, che quell’organismo si consumava di debolezza e di sensibilità: non pensava né alle medicine, né ai rimedii eccezionali: pensava solo, confusamente, così, che egli doveva salvare l’amor suo, niente altro.
Ah, sì, egli doveva strappar subito dagli artigli di quel pazzo, la povera creatura innocente a cui s’infliggevano le quotidiane paure di una follia che non si guariva; egli doveva torre via da quella miseria crescente dell’anima e del corpo, da quella fatale discesa verso l’onta e verso la morte, la purissima creatura, che sapeva solamente soffrire, e soffriva senza ribellarsi, senza lamentarsi. Egli lo doveva, subito: era un uomo, era un cristiano, doveva salvare la infelice, come altre volte, tante volte, aveva salvato gli ammalati d’idrofobia dalla morte per la rabbia, come aveva salvato, una volta, un disperato colpito dall’implacabile tetano. Subito, subito, doveva salvarla, o non si era più a tempo. Dove era il marchese, dunque, dove era il crudele, il folle che col denaro giuocava il suo nome, il suo onore e la sua figliuola?
- Eccellenza, è fatto, - disse Giovanni, facendo capolino nel salone.
Il vecchio servitore era pallidissimo: dopo l’impressione orrenda di quello che aveva creduto un cadavere, la grave offesa fatta dal suo padrone alla Divinità, ne aveva sconvolto l’umile coscienza religiosa. Quella figura del Redentore, con la fune al collo, sospeso giù nel pozzo, come la salma gemente sangue di un ucciso, quella immagine del pietoso Gesù, così vilipesa, gli sembrava che avesse dato il crollo alla ragione del marchese, gli sembrava che dovesse portare la maledizione della casa. E chiamò fuori Margherita, per dirle quello che era accaduto, mentre nelle case dei vicini, nelle scale, nei portone, nelle botteghe, si andava dicendo che 1’Ecce Homo di casa Cavalcanti aveva fatto un miracolo, salvando un ucciso, mettendosi al posto dell’ucciso: e dovunque, in mille forme, si cavavano i numeri dal singolarissimo avvenimento.
- Il morto, il povero morto... - vaneggiava la fanciulla, con la voce che le usciva come un soffio dalle labbra.
- Non dite più questo, Bianca Maria, credetemi, credetemi, - soggiunse il dottore, con una dolce fermezza. - Non vi era il morto: era la statua dell’Ecce Homo.
- Che era? - gridò ella, levandosi in piedi, guardando il dottore, con certi occhi stravolti.
Egli si scosse: ma credette che questa fosse la crisi di quel lungo vaneggiamento e le ripetette, cercando domarla con lo sguardo:
- Era la statua dell’Ecce Homo: vostro padre l’aveva sospesa nel pozzo, con una fune al collo.
- Dio! - urlò lei, con voce potentissima, levando le braccia al cielo. - Dio, perdonateci!
E cadde ginocchioni, si prostese, toccando la terra con le labbra, piangendo, pregando, singhiozzando, continuando a supplicare il Signore, di perdonare a lei e a suo padre. Nulla valse a calmarla, a farla levare di terra, dove, ogni tanto, si abbandonava, in una crisi di lunghissimo pianto: invano il dottore volle usare la dolcezza, la bontà, la forza, la violenza, non vi riescì: l’emozione di Bianca Maria cresceva; cresceva, con qualche intervallo di stupefazione, per ricominciare più forte. Ogni tanto, mentre parea che si chetasse, un rapidissimo pensiero le attraversava il cervello ed ella si abbatteva al suolo, gridando:
- Ecce Homo, Ecce Homo, perdonateci voi!
Il dottore assisteva, fremendo, col capo chino sul petto, sentendo l’impotenza della sua volontà, sentendo l’impotenza della sua scienza. Che fare? Aveva chiamato Giovanni e scritte due righe sopra una carta, un’ordinazione di morfina, l’aveva mandato alla farmacia: ma la stessa morfina lo sgomentava, Bianca Maria era già troppo debole per sopportarla. Ella, desolata, con una vitalità nervosa, bizzarra, si batteva il petto, mormorando confusamente le parole latine del Miserere, piangendo sempre, come se inesauribile fosse in lei la sorgente delle lacrime. Fu dopo un’ora che il marchese, silenziosamente, entrò nel salone. Era come più vecchio, più stanco, più rotto dal peso della vita.
- Che ha Bianca Maria? - domandò timidamente al dottore. - Che le hanno fatto?
- Voi la uccidete, - disse gelidamente il medico.
- Hai ragione, hai ragione, figlia mia, sono un assassino, - strillò il vecchio.
Quell’uomo sessantenne si buttò ai piedi di sua figlia, tremante di vergogna e di umiliazione, tutto sussultante di un singulto senza pianto.
E sotto gli occhi del dottore la compassionevole scena si svolse: quel padre canuto, dal gran corpo cadente, pieno di raccapriccio e di dolore, piangendo le rare e brucianti lacrime dei vecchi, sentendo tutto l’orrore della sua colpa, si piegava innanzi alla giovane figliuola, chiedendole perdono, con un balbettìo infantile, proprio come il fanciullo, che sfoga nel pianto tutto il puerile pentimento del suo errore: e la figliuola fremeva ancora, per la gran ferita che le aveva aperta nell’anima la inconscia crudeltà, per la ferita che frizzava sotto l’insulto del fiele che quella crudeltà seguitava a versarvi, per la ferita frizzante sanguinante che questa umiliazione di suo padre faceva gemere ancora, più dolorosamente: e ambedue, al forte uomo la cui vita era stata sempre una onesta e nobile lotta, una continua via verso i più alti ideali, apparivano così deboli, così miseri, così infinitamente infelici, uno come carnefice, l’altra come vittima, che egli, ancora una volta, rimpianse quel tempo, in cui questa tragica famiglia Cavalcanti non aveva preso nel suo stritolante ingranaggio, il suo cuore: ma era tardi, quella miseria, quella debolezza, quella infelicità adesso lo colpivano così direttamente che lui, il forte uomo, soffriva per tutti quegli spasimi e non poteva più domare il purissimo istinto di salvazione, che era il segreto della sua nobiltà d’animo.
- Perdona, figlia mia, perdona al tuo vecchio padre; calpestami, me lo merito, ma perdonami, - andava ripetendo il marchese di Formosa, in preda a un furore di umiliazione.
- Non dite questo, non lo dite, io sono una misera peccatrice: cercate perdono all’Ecce Homo che avete offeso, o la nostra casa è maledetta, o noi moriamo tutti e ci danniamo...ci danniamo...per la salute eterna, padre mio, cercate perdono all’Ecce Homo.
- Quello che tu vuoi, figliuola mia, quello che tu m’imponi, così sia, - egli replicò, umiliandosi ancora, tendendo le braccia in atto di supplicazione, - ma l’Ecce Homo mi aveva abbandonato, Bianca Maria, egli mi aveva tradito, ancora una volta, capisci? - finì di dire, lui, di nuovo in preda alla collera che lo aveva indotto all’atto sacrilego, sciagurato e grottesco.
- Voi mi fate spavento, - gridò lei, indietreggiando e stendendo le braccia per non farsi toccare da lui, - voi, uomo, avete voluto punire la Divinità di Gesù!... cercate perdono, cercate perdono, se non volete che moriamo tutti dannati...
- Hai ragione, - mormorò lui, sgomento, umiliato di nuovo. - Fa di me quel che vuoi, farò penitenza, ti ubbidirò come se tu fossi mia madre, sono un assassino, sono un infame!
Il marchese si era buttato sopra un seggiolone, accasciato, col petto ansimante, col capo chino, con lo sguardo vitreo fisso al suolo: e la sua figliuola ritta in piedi, nel bianco accappatoio che castamente la copriva dal collo ai piedi, coi neri capelli disciolti sulle spalle, aveva l’aria trasognata e dolorosa delle sonnambule, svegliate dalle loro errabonde e soavi visioni. Il medico intervenne:
- Che vuoi? - ella rispose, fievolmente, mentre il padre era immerso in un profondo abbattimento.
- Tuo padre è assai turbato, tu soffri: bisogna che ambedue dimentichiate questa dolorosa scena. Vuoi ascoltare un mio consiglio, umano, buono?
- Tu sei la bontà e la umanità, - sussurrò ella, levando gli occhi al cielo. - Parla, ti obbedirò.
- Quest’ora è stata assai triste, Bianca, ma forse essa potrà aver frutto di bene. Avete pianto, insieme, tu e tuo padre: le lacrime lavano. Per le comuni sofferenze, per il bene che vi volete, tu devi chiedere a tuo padre, non già che egli si umilii fino a chiederti perdono, ma che ti prometta, in nome di tutto quello che hai sofferto, di fare quello che tu gli domanderai, più tardi, quando sarete calmi: diglielo così, Bianca.
La mobilissima faccia della fanciulla, alla parola imperiosa, calma e benevola del medico, a quella voce che aveva il magico potere di ridarle la quiete e la fede nella vita, la faccia sino allora contratta e spasimante, si andava rasserenando. L’anima sua, sconquassata e stanca, si posava.
- Così sia, - ella mormorò, come se compisse ad alta voce una preghiera interiore.
E avvicinandosi al seggiolone, dove giaceva disfatto suo padre, si piegò verso lui e con una tenerissima voce, gli disse:
- Mio padre, voi mi volete bene, non è vero?
- Sì, - disse lui.
- Voi mi volete fare una grazia?
- Una grazia sola, per il mio bene, per la salute e la felicità del mio avvenire, promettete di farla?
- Tutto quello che vuoi, figliuola, sono il tuo servo...
- ... È una grazia singolare, ve la dirò più tardi quando saremo ritornati in grazia di Dio, quando saremo più tranquilli.., ho la vostra parola, mio padre, voi non avete mai mancato...
- Hai la mia parola, - egli disse, affannato, come se non reggesse a quel dialogo.
Ella intese. Si piegò e con quel suo consueto atto di sommissione filiale, gli sfiorò la mano con le labbra: egli le toccò la fronte, lievemente, in segno di benedizione. Ella si appressò al dottore, gli tese la mano e lo guardò con tale intensità di amore, che egli impallidì, e per nascondere la sua emozione, si abbassò a baciarle la mano. Lentamente, trascinando la persona sottile di cui le forze mancavano, ella si allontanò, uscì dal salone, lasciando i due, soli. Il vecchio pareva concentrato in profonde e tristi riflessioni, poiché ogni tanto levava la faccia al cielo in atto di angoscia e la riabbassava, crollando il capo, quasi scorato. Ma il medico vedeva che l’ora era giunta.
- Potete ascoltarmi? - gli domandò, freddissimamente.
- Preferirei… preferirei un altro giorno..., - gli rispose, con voce fioca, il marchese.
- Meglio oggi, - insistette Amati, con la stessa freddezza dominatrice.
- Sono assai turbato… assai…
- Forse in quello che vi dirò, avrete modo di placarvi. Voi sapete se vi sono devoto…
- Sì, sì..., - rispose l’altro, vagamente.
- Io non so dire molte parole, per dimostrare la mia devozione. Cerco, quando posso, di agire devotamente. Vi sono sinceramente, sinceramente affezionato... affezionato a entrambi...
- Lo sappiamo: il nostro debito di gratitudine è grande…
- Non parlate di ciò. È da tempo che volevo dirvi una mia speranza e non osavo. Sapete meglio di me, che nessun interesse materiale può guidarmi. Vedete, marchese… Non vorrei richiamarvi alla memoria il passato, è troppo doloroso, ma è necessario il farlo. Voi e questa fanciulla, da anni, siete in dolorose condizioni… oh! non per colpa della fanciulla, certo! Le vostre intenzioni sono affettuose, sono sante, hanno uno scopo alto che tutti gli uomini onesti debbono approvare, la rifazione della vostra casa e della vostra fortuna, la felicità offerta a vostra figlia, sante intenzioni, non lo nego: io stesso vi ammiro in questo desiderio così nobile…
Il marchese aveva levato la testa e ogni tanto sogguardava il dottore, approvando con un battito di palpebre tutto quanto egli andava dicendo, cautamente, delicatamente, per non offendere, per non abbattere di più quel vecchio, la cui umiliazione tanto lo aveva fatto soffrire.
- Ma i mezzi, certo, - riprese il dottore, continuando, con la stessa cautela, - erano rischiosi, azzardati, pericolosissimi e l’ardore con cui desideravate la fortuna, vi ha fatto trascendere, vi ha fatto dimenticare tutte le sofferenze, che inconsciamente seminavate intorno. Non vedete, marchese? Avete intorno la malattia, la miseria, l’avete intorno e in voi: la passione vi ha portato via, e nel precipizio cade con voi la più pura, la più bella, la più cara fra le donne, vostra figlia!
- Povera figliuola, povera figliuola, - mormorò pietosamente il marchese.
- Voi amate vostra figlia, non è vero? - chiese il dottore Amati, volendo far risuonare tutte le corde del sentimento.
- Io non amo che lei sopra tutte le cose, - disse subito il vecchio marchese Cavalcanti, con le lagrime agli occhi, nuovamente.
- Ebbene, marchese, vi è un mezzo, per porre quella giovine esistenza innocente al coperto di tutte le angosce fisiche e morali che la consumano; vi è un mezzo, per toglierla dall’ambiente di malattia, di tristezza, di decente ma penosa miseria, in cui ella soffre per tutte le sue fibre; vi è un mezzo, per assicurarle un avvenire di salute, di agiatezza, di pace, di serenità come merita quell’anima purissima; vi è un mezzo, per cui ella può rivivere e questo mezzo è nelle vostre mani...
- Ho tentato, lo sapete, - disse desolatamente il marchese Cavalcanti, fraintendendo, - ma non sono riescito.
- Voi non m’intendete, - riprese il medico, frenando a stento la sua impazienza, poiché vedeva sempre acciecato il marchese. - Non vi parlo del lotto che è stato il gran disastro della vostra famiglia, che è il cruccio di vostra figlia, che è il tormento di tutti coloro che vi amano. Come potete supporre, che io vi parli del lotto?...
- Eppure, è il solo mezzo per far denari, molti denari: solo con esso, io posso salvare Bianca Maria.
- V’ingannate, - replicò sempre più freddamente il dottore. - Vi parlo di altro: si può trovare altrove la quiete e la fortuna.
- Non è possibile: le fortune che si possono guadagnare al lotto, non hanno limite...
- Marchese, qui si parla seriamente. Queste follie cabalistiche mi lasciano freddo, anzi mi esasperano, quando penso ai dolori che cagionano: posso ammetterle come intenzioni nobili, ma esse rappresentano una passione imperdonabile, non ne parlate giammai con me, giammai!
Cavalcanti aveva levato la testa e la fisonomia, fino allora molle e disfatta, si era fatta glaciale e dura. Quel giammai, pronunciato con fermezza da Antonio Amati, gli aveva fatto aggrottare un po’ le sopracciglia.
- Di che mezzo parlavate voi? - egli domandò con una voce strana, dove Amati udì nuovamente l’ostilità.
- Forse oggi siamo troppo alterati... tralasciamo, - mormorò il dottor Amati, che si vedeva in procinto di perdere una grave partita. - Domani.
- Non ritardiamo, - insistette con fredda cortesia, il marchese Cavalcanti, - giacché si tratta di Bianca Maria, sono pronto.
- Datemi vostra figlia in moglie, disse rapidamente ed energicamente il dottor Amati.
Il marchese Cavalcanti chiuse gli occhi; un momento, quasi che una vivida luce lo abbagliasse, come se volesse nascondere il suo sguardo lampeggiante: non rispose.
- Credo di poter offrire a vostra figlia una posizione degna del suo nome, - riprese subito il medico, deciso ad andare in fondo, - poiché il mio lavoro mi ha dato denaro e reputazione, è inutile esser modesto: lavorerò ancora, molto di più, perché ella sia ricca, ricchissima, felice, inattaccabile, protetta dal mio amore e dalla mia forza...
- Voi amate Bianca Maria? - disse il marchese, senza guardare in viso il suo interlocutore.
- Io l’adoro, - disse l’altro, con semplicità.
- Ed ella vi ama?
- Sì.
- Voi mentite, signore, - rispose con voce profonda, il marchese Cavalcanti.
- Perché insultarmi? - chiese il medico, deciso a sopportar tutto. - Un insulto non è una risposta.
- Vi dico che mentite e che nulla vi autorizza a credervi amato.
- Vostra figlia mi ha detto d’amarmi.
- Bugia!
- Me lo ha scritto.
- Bugia! Dove sono le lettere?
- Ve le porterò.
- Domandate a lei.
- Non lo domanderò. Mia figlia non può amare,senz’averlo detto a suo padre.
- Non si è confidata con me: voi mentite.
- Domandate a lei.
- Mi avrebbe già parlato: mia figlia è obbediente, mi dice tutto.
- Voi lo avete spesso dimenticato: essa, qualche volta, lo avrà dimenticato.
- Dottore, non vogliate insistere, - fece il marchese, con la sua fredda, ironica cortesia.
- Insisto, perché è il mio diritto. Non ho mentito. Del resto, io ho parlato chiaro. Mi offro a vostra figlia che è ammalata, povera, triste, come marito, come protettore, come amico, per guarirle l’anima e il corpo, per amarla e per servirla, come ella merita. Volete darmi vostra figlia? A questo dovete rispondere.
- Non ve la voglio dare.
- Perché?
- Non ho dovere di spiegarvi le mie ragioni.
- Siccome il rifiuto mi offende, ho diritto di chiederle. Forse perché non sono nobile?
- Non è per questo.
- Neppure per questo.
- Avete una particolare disistima di me?
- No.
- E perché, allora?
- Ripeto, non debbo dirvi le ragioni. Non posso rispondervi che questo: no.
- Neppure aspettando?
- Neppure.
- Senza nessuna speranza?
- Nessuna.
- Per nessuna circostanza?
- Giammai, - conchiuse il marchese Cavalcanti.
Tacquero. Ambedue, diversamente straziati, erano straziati.
- Voi volete veder morta la vostra figliuola, - disse il medico, dopo aver pensato.
- Non temete, non morrà; vi è una forza che la sostiene.
- Domani, essa sarà all’elemosina, una Cavalcanti!
- Io la farò ricca a milioni, signore; ma io soltanto ho il dovere di arricchirla.
- Nulla può agguagliare la mia tenerezza.
- Ma il destino delle donne, delle fanciulle è l’amore, è il matrimonio, sono i figli!
- Delle donne comuni, volgari, non di Bianca Maria Cavalcanti. Ella ha un’altissima missione, la compirà.
- Marchese, voi perderete quella fanciulla.
- Io la salvo: e le assicuro una fama immortale e una vita immortale.
- Marchese. io ve ne prego, vedete come ve ne prego, io che non ho mai pregato nessuno: non dite di no, così, ostinatamente, senz’aver neanche interrogata Bianca. Voi le preparate un nuovo grandissimo dolore: voi togliete, a me la possibilità di vivere per lei e offendete un galantuomo, così, senza una ragione. Ve ne prego, pensateci, non vi decidete in questo momento.
- O domani, o poi, è lo stesso. È un no, sempre un no, niente altro che un no. Non avrete la marchesina Bianca Maria Cavalcanti, - e sghignazzò diabolicamente.
- Ripensateci ancora, marchese. Se mi dite ancora di no, io dovrò allontanarmi, per sempre. Non recidete così bruscamente i nostri legami.
- Siete libero di allontanarvi, non ci vedremo più; forse, era meglio che non ci fossimo mai visti.
- Andate pure. Addio, signore.
- Prima di andarmene, però, io voglio interrogare la vostra figliuola, qui, voi presente. Non siamo più nel Medio Evo: anche la volontà della fanciulla, conta.
- Non conta.
- V’ingannate. Io la interrogherò. Andrò via, quando essa mi dirà di andare. Chiamatela, se siete uomo leale, se siete gentiluomo.
Il vecchio signore, interpellato in nome della lealtà, si rizzò e suonò il campanello, dicendo a Giovanni di far venire la figliuola. I due nemici stettero in silenzio, fino a quando ella comparve. Con la facilità dei temperamenti estremamente nervosi, ella aveva riacquistata tutta la sua calma: ma un’occhiata rivolta alle due persone che amava, sconvolse il suo spirito, immediatamente.
- Lascio a voi la parola, - disse con gentilezza il medico, inchinandosi al marchese.
- Bianca Maria, - cominciò con voce grave il padre, - il dottor Antonio Amati dice di amarvi: lo sapete voi?
- Sì, mio padre.
- Ve lo ha detto?
- Sì, mio padre.
- Avete tollerato che ve lo dicesse?
- Sì, mio padre.
- Voi avete commesso un grave errore, Bianca Maria.
- Tutti erriamo, - ella mormorò, guardando Antonio Amati, per prender coraggio.
- Ma vi è qualche cosa di molto peggio. Egli dice che voi lo amate. Io, in volto, gli ho ripetuto che egli mentiva, che voi non potevate amarlo.
- Perché lo avete chiamato mentitore?
- È mai possibile che tu abbia smarrito ogni pudore, amando costui e dicendoglielo?
- Anche mia madre vi amava, e ve lo ha detto, ed era una donna pudica!
- Non divergere, non chiamare testimonianze, rispondi a me, a tuo padre: tu ami questo dottore?
- Sì, - ella disse, aprendo le braccia.
- Io non ti perdonerò mai questa parola, Bianca Maria.
- Che Dio sia più misericordioso di voi, mio padre.
- Dio castiga i figliuoli disobbedienti. Il dottore Antonio Amati mi ha cercato te in isposa. Gli ho risposto di no, di no, per adesso, di no, per domani, di no, per sempre.
- Voi non volete che io sposi il dottor Amati?
- No, non voglio. È vero che neppure tu lo vuoi?
Ella non rispose: due grosse lacrime le rigarono le guance.
- Rispondete, signorina, - disse il medico, con tale angoscia nella voce, che la poveretta fremette di dolore.
- Non ho nulla da dire.
- Ma non avete detto che mi amate?
- Sì: l’ho detto: lo ripeto. Vi amerò sempre.
- E mi rifiutate?
- Non vi rifiuto: è mio padre che vi rifiuta.
- Ma voi siete libera, non siete una schiava; ma le fanciulle hanno diritto di scelta; ma io sono un galantuomo.
- Voi siete l’uomo più buono e più onesto che io abbia mai conosciuto, - diss’ella, congiungendo le mani gracili, in atto di preghiera. - Ma mio padre rifiuta, io debbo ubbidire.
- Voi sapete, che mi date il più grande dolore della mia vita?
- Voi sapete che spezzate la mia esistenza?
- Lo so: non posso fare altrimenti, mia madre mi maledirebbe dal cielo, mio padre mi maledirebbe sulla terra. So tutto: debbo ubbidire.
- Rinunziate alla salute, alla felicità, all’amore?
- Rinunzio, per obbedienza.
- E tal sia! - gridò lui, con un atto energico, quasi buttasse via tutta la sua debolezza. - Non diciamo più che una parola: addio.
- Voi ve ne andate? - disse ella, tremando come un albero scosso dalla tempesta.
- Partite?
- Sì: addio.
- Non tornerete più?
- Mai più.
Ella guardò suo padre: egli era impassibile. Ma tanta disperazione ella sentiva in sé, ella sentiva nel cuore di Antonio Amati, che tentò ancora:
- Poc’anzi, mio padre, mi prometteste in un momento di pentimento e di confusione, che avreste fatto tutto quello che voglio io, e io vi chiesi di fare una sola cosa, una sola. È questa. La parola di un gentiluomo, di un Cavalcanti, è cosa sacra. Manchereste?
- Ho le mie ragioni: Dio le vede, - disse misteriosamente il marchese.
- Negate?
- Sempre.
- Nulla può indurvi? Né le nostre preghiere, né il bene che mi volete, né il nome di mia madre, nulla v’induce?
- Nulla.
- Egli dice di no, amore mio, - mormorò ella, guardandosi intorno, con l’occhio smarrito.
Ma Antonio Amati era troppo mortalmente ferito, per provare più compassione delle sofferenze altrui. Adesso non lo teneva che un solo desiderio, quello delle persone forti che, chiusa nell’anima la gran catastrofe di tutta la loro vita, non pensano che a fuggire, a fuggire nella solitudine, sdegnose di sterile conforto. Aveva bisogno dell’ombra, del silenzio, dove nascondersi per piangere, per urlare di dolore. La fanciulla innanzi a lui era l’immagine della desolazione, ma egli non vedeva più, non sentiva più: ogni compassione era sparita dal suo cuore, egli provava tutto l’implacabile egoismo delle immense sofferenze.
- Amore mio, amore mio, - ripetette ancora lei, cercando di dar forma alla passione che l’angosciava.
- Non pronunziate queste parole, Bianca Maria, - egli disse con l’amaro sogghigno dei delusi, - non servono, non ve le chiedo. Abbiamo parlato anche troppo. Lasciatemi andare.
- Restate ancora un minuto, - diss’ella, come se si trattasse di arrestare, per un momento, la morte.
- No, no, subito. Addio, Bianca Maria.
Egli s’inchinò davanti al marchese, profondamente: il feroce e impassibile vecchio che niente aveva potuto scuotere, i cui occhi non vedevano più altro che le sue pazze visioni, gli rese il saluto. Quando il medico passò innanzi alla fanciulla, per uscire dal salone, costei gli tese la mano, umilmente: ma il dottor Amati non prese quella mano. Ella fece un atto di rassegnazione e guardò il medico con tanta infinita passione, quanta ne può mettere, nello sguardo, l’esiliato che abbandona per sempre la patria. Ma non era più tempo di parole e di saluti, fra loro: violentemente divisi, si lasciavano per sempre, le parole e i saluti erano inutili.
Egli si allontanò, seguito dallo stesso magnetico sguardo di Bianca Maria, senza voltarsi indietro, andandosene solo, al suo amaro destino. Ella tese l’orecchio per ascoltare quel passo adorato, che non avrebbe più udito, mai più: udì anche la porta di entrata che si richiudeva, discretamente, come la porta di un carcere misterioso. Tutto era finito, dunque. Il padre suo era seduto nel seggiolone, pensoso, ma calmo, appoggiando la fronte a una mano. Quietamente, ella venne a inginocchiarsi presso suo padre e chinando il capo, gli disse:
- Beneditemi.
- Dio ti benedica, come io ti benedico, Bianca Maria, - disse piamente il marchese Cavalcanti.
- La vostra figliuola è morta, - ella mormorò, e aprendo le braccia, cadde indietro, riversa, livida, fredda, immobile.