Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Il paese di cuccagna
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16 - IL TESTAMENTO DI PASQUALINO DE FEO

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16 - IL TESTAMENTO DI PASQUALINO DE FEO

 

Don Gennaro Parascandolo, lo strozzino, veniva da qualche tempo, molto spesso nel portone di via Nardones e saliva per la scala grande, al secondo piano, dove egli filava il perfetto amore con una povera e buona ragazza, un fiore di delicatezza e d’ingenuità, che egli aveva raccolto sopra un marciapiedi, una sera in cui questa misera creatura era per perdersi: ed egli, con la sua solita prudenza di usuraio, anche nelle cose di amore, le aveva fatto credere di esser un impiegatuccio, vedovo e senza figliuoli, che l’avrebbe sposata certamente, se ella si mostrava buona e fedele. La disgraziata Felicetta, il cui nome era una irrisione, menava una vita di reclusa. servita da una fantesca grossolana, che era la sua unica compagna: e passava il tempo a desiderar la presenza del suo padrone e signore, di cui ignorava finanche il vero nome: e malgrado la sua ripugnanza fisica, si sentiva piena di gratitudine per questo buon don Gennaro, che l’aveva liberata dal pericolo di una caduta infame, promettendole di sposarla, poi, più tardi, quando ella avesse finito il suo alunnato di virtù e di fedeltà. Era una personcina minuta e svelta, dai lineamenti assai fini, con una massa di capelli biondi, che le tormentava la piccola testa: dispersa per il mondo, così, dalle bizzarre complicazioni del destino, ella sarebbe certamente rotolata in un abisso, se non avesse incontrato, nell’ora tremenda, don Gennaro che le aveva parlato con bontà, le aveva dato da mangiare, l’aveva accompagnata in un albergo e aveva finito per affittarle un modesto quartino, in via Nardones, dove la povera figliuola passava il suo tempo a lavorare all’uncinetto, preparandosi il modesto corredo, attendendo la visita quotidiana di don Gennaro, a cui ella sorrideva dalle labbra e dagli occhi, la buona figliuola. Del resto, lo strozzino, che per andarla a trovare si levava gli anelli di brillanti, i bottoni d’oro e nascondeva i suoi portasigarette di argento niellato, si mostrava paterno con lei.

Ogni piccola elargizione, poiché egli la faceva vivere in una decente, solamente decente agiatezza, era fatta con tale accompagnamento di bei modi, che a Felicetta gliene venivano le lacrime agli occhi: e malgrado che ella fosse la sua amante, don Gennaro la trattava con sì profondo rispetto, che ella andava cercando, nel suo cuore ingenuo e riconoscente, quale grande atto di devozione avesse potuto fare, per mostrargli tutto il suo affetto. Don Gennaro, il durissimo strozzino che aveva visto tanti pianti e tante disperazioni. senza mai commuoversi, era con lei di una tenerezza infinita; le parlava spesso, malinconicamente, dei suoi tre bei figliuoli che erano partiti, tutti per l’oscuro mondo degli spiriti. Egli diventava sentimentale, portandole dei fiori, come un innamorato timido e giovinetto, raccomandandosi che pregasse per lui, nelle sue preghiere. E anche per i piccini, che erano morti, - egli soggiungeva, volendo unire bizzarramente quei due amori così diversi.

- Per essi, non serve, - rispondeva Felicetta umilmente, - sono angioli.

A poco a poco, don Gennaro si era addentrato moltissimo in questo amore, più di quanto avesse voluto, e pur usando tutte le precauzioni, perché nulla trapelasse dell’esser suo a Felicetta e perché nessuno venisse a sapere i suoi amori con la fanciulla povera, non si poteva vincere: il suo cuore di uomo maturo, esperto della vita, fiammeggiava di una passione giovanile, e veniva adesso ogni giorno, nella casa di via Nardones, variando le ore, ma passandone molte nella compagnia semplice e tenera di Felicetta. In quella fine di estate tempestosa, egli aveva anche rinunziato al suo consueto viaggio autunnale e veniva dimenticando la prudenza, portando dei doni più ricchi alla ragazza, che li riceveva un po’ meravigliata: ma egli le aveva spiegato che aveva fatta una piccola eredità, piccolissima.

- E allora, sposiamoci, - aveva detto timidamente la giovane, che sentiva la pena della sua posizione.

- Faccio venir le carte dal mio paese, - aveva risposto don Gennaro, sospirando, rimpiangendo, nel fondo dell’anima, di essere ammogliato.

Ma in un giorno festivo, in cui egli dopo aver fatto vani giri, era sceso da Sant’Anna di Palazzo a via Nardones, portando in mano una cartata di dolci per la sua innamorata, mentre saliva le scale, si era sentito alle spalle come un richiamo, come un sibilo che lo inducesse a volgere la testa. E si volse, infatti, sebbene non avesse ben definito se fosse un fischio o una voce o un forte cenno che avesse attratta la sua attenzione: era stata una chiamata misteriosa, ecco tutto, una di quelle voci che sorgono dal fondo dell’anima. Ma per quanto guardasse, intorno, sotto e sopra, affacciandosi alla ringhiera, egli non vide nulla, non scorse nulla: e seccato di essersi trattenuto in quella scala, dove temeva sempre di essere scoperto, affrettò il passo ed entrò rapidamente in casa di Felicetta. Pure, durante tutto il tempo della visita, fu turbato: gli parve che la sua felicità, di cui il segreto era la base, fosse crollata, per quella voce che lo chiamava. Difatti, il giorno seguente, proprio sotto il portone, incontrò il marchese di Formosa, che usciva dalla scaletta del quartino e aveva l’aria di un trasognato. Giusto, non si parlavano più, sebbene si conoscessero: e in quel giorno, entrambi, imbarazzati, si fermarono, uno di fronte all’altro, sogguardandosi con sospetto.

- Sempre in affari, - mormorò il marchese Cavalcanti, con la sua voce rauca che produceva un effetto di emozione, poiché pareva sempre che egli avesse perduto la voce, per la collera.

- Come voi, del resto, - rispose ambiguamente don Gennaro.

- Io non ho affari, - replicò Formosa, sempre più incerto e diffidente. - E... sta bene, la signora Parascandolo?

- Benissimo, - disse subito don Gennaro, supponendo una insidia in questa domanda. - E la marchesina Cavalcanti, come sta?

- Sta un po’ male, un po’ male, - disse il vecchio, curvando la testa.

- Buongiorno, marchese, - replicò subito Parascandolo, profittando di quel minuto per allontanarsi.

- Buongiorno, cavaliere, - salutò il vecchio, seguendo macchinalmente con l’occhio l’usuraio.

Costui saliva lentamente per la scala grande, orribilmente annoiato da quell’incontro, pensando già a fare cambiar casa a Felicetta, trasportandola in un quartiere remoto: e rallentava il passo per udire se il marchese s’informasse dal portiere, dove saliva don Gennaro Parascandolo. Ma il marchese era sparito via. E arrivato al secondo pianerottolo, per la seconda volta, Parascandolo ebbe come uno zufolìo nelle orecchie, come un barlume innanzi agli occhi, quasi che il mistico avvertimento gli si ripetesse, più insistente, poiché la prima volta non lo aveva curato. Di nuovo, affacciato alla ringhiera, speculò d’onde potesse venir quella chiamata e si accusò di fantasticaggini, poiché nulla vi era intorno. Quell’amore, nascosto con tanta preziosa cura, lo rendeva superstizioso come una femminetta.

- In questa casa vi debbono essere degli spiriti, - egli disse a Felicetta, nella sua visita, in cui non arrivò a dominare la sua preoccupazione. - Due volte, salendo le scale mi sono sentito chiamare e non ho potuto capire donde venisse la voce e se fosse veramente una voce.

- Ci credete agli spiriti, voi?

- Eh!… chissà!…

- Certo che questo palazzo è male abitato, - disse la ragazza. - Di giorno e di sera, vanno e vengono una quantità di facce sospette. L’altra sera, stando sul terrazzino a innaffiare i fiori, mi parve udire delle grida e dei lamenti, che uscissero dal quartino del primo piano. Poi finirono; non udii più niente.

- Vi sono gli spiriti! - mormorò ridendo di mala voglia, don Gennaro Parascandolo. - Vi piacerebbe di andare in un’altra casa?

- Sì, moltissimo: una piccola casa, con più sole...

- Sul Corso Vittorio Emanuele, nevvero?

- Sarebbe troppo bello, per me!

Pure, don Gennaro restò pensoso: e quando andò via, dal pianerottolo del primo piano, gli parve scorgere due persone di conoscenza, scendere dalla scaletta del quartino: l’avvocato Marzano e Ninetto Costa. Costoro, infervorati in una discussione, non lo videro, o finsero di non vederlo, perché gli dovevano molti denari e già la carta bollata si ammucchiava contro loro. Ma l’usuraio fu sconcertato: sentì aggravarglisi intorno il mistero, mentre un’ardente curiosità lo vinceva, di sapere la verità. Tanto che il giorno seguente, dopo aver girato tutta la mattina, per trovare un nido, in quel campestre quartiere fra il Corso Vittorio Emanuele e Piedigrotta, ritornando a dirglielo, si fermò apposta per le scale, aspettando il fenomeno. E lo stridio, lo zufolio, la voce segreta si manifestò, come un richiamo soffocato. Egli aguzzò la vista, intorno: questa volta, vide.

Vide, dalle due finestre del quartierino che davano sul cortiletto, una sbarrata e l’altra con uno scuretto socchiuso, donde, un minuto secondo, attraverso il cristallo, gli apparve un volto emaciato e disperato, che gli dardeggiò un’occhiata supplichevole: poi il viso sparve subito e restò una mano magra che agitava un fazzoletto bianco, in atto di chiamata: anche la mano sparì, lo scuretto si chiuse violentemente e la finestra fu sbarrata come l’altra. Don Gennaro si voltò per scendere subito, giù, per andare al quartierino isolato: ma si fermò, poi, perplesso. E che gliene importava, a lui, di quello che accadeva colà? Chi era colui che appariva, carcerato, dentro? Se ne ricordava vagamente la fisonomia, appena intravvista. Non sapeva. Si trattava di un estraneo; ma estraneo o no, la naturale prudenza di don Gennaro prendeva il sopravvento. Forse era meglio andare a denunciare il fatto alla questura? Anche questo proposito subì un pentimento: con la questura, per tante ragioni, era meglio non averci da fare. Ma infine quell’idea che qualcuno era chiuso colà, che da giorni invocava il suo soccorso, che forse sarebbe perito senza il suo aiuto, gli dava un gran rovello: si trattava di un delitto misterioso, la sua curiosità di meridionale ardeva e il suo sangue freddo di uomo che ha visto molte brutte scene, lo incoraggiava ad aiutare quell’infelice. Finalmente, discese: e attraversando il cortiletto, salì quella scaletta tutta umida e smussata.

Dopo averci pensato un minuto, bussò: e il campanello stridette, lugubremente, senza che nessun rumore venisse di dentro. Bussò di nuovo: silenzio profondo. Allora, alle tirate di campanello, alternò delle bussatine, col pomo d’argento della sua mazzetta di ebano. Il silenzio era veramente di casa disabitata. Due volte abbassandosi al buco della serratura, gridò:

- Aprite, perdio, o vado a denunziarvi alla questura!

Alla seconda volta, quando aveva gridato più forte, gli era parso udire un susurrio, dentro. Aspettò ancora: nessuno venne ad aprire alla fortissima scampanellata che diede. E allora si mise a scendere gli scalini, deciso a far intervenire l’autorità. Fu all’ultimo scalino che incontrò, nuovamente, il marchese Cavalcanti. Costui levò la testa, e riconoscendolo, impallidì. Pure, ebbe il coraggio di chiedere:

- Come, qui?

-Vi è un guaio, qua sopra, marchese, - disse freddamente l’usuraio, accendendo una sigaretta. - Io me ne vado dal questore.

- Che questore, che questore... - balbettò il vecchio, preso da tremore nervoso.

- Vi dico che quassù è accaduta o va ad accadere una disgrazia: e siccome sono un galantuomo, non posso permetterla. Volete venire anche voi dal questore? - e lo guardò nel bianco degli occhi.

- Don Gennaro, non esageriamo. Forse si tratta di uno scherzo fra amici, o di una giusta punizione, - disse Cavalcanti, esaltandosi.

- Io non voglio saper niente. So soltanto che un uomo mi ha cercato aiuto, so che ho bussato e non mi hanno voluto aprire. Che esagerazioni mi andate contando? Queste sono cattive azioni!

- Andiamo, andiamo, vi farò aprire io, - disse il marchese, decidendosi a rendere meno aspra la catastrofe, oramai accaduta.

E silenziosi, risalirono insieme. Formosa bussò, a due lunghi squilli: il segnale di riconoscimento.

- Chi è? - domandò una voce soffocata, parlando nel buco della serratura.

- Io, dottore, aprite pure.

- Ma non siete solo?

- Non importa, dottore, aprite.

- Se non siete solo, non apro, capite! - disse collericamente Trifari, il carceriere, di dentro.

- Aprite, che è meglio per tutti, dottore, - parlamentò ancora il marchese di Formosa. - Se non aprite, la rovina è peggiore. Qui don Gennaro Parascandolo sa tutto: e vuole andare dal questore.

- Tanto, non me ne vado, dottore, - disse di fuori, Parascandolo. - Non faccio che mandare a chiamare le guardie e i carabinieri.

- Gesù, Gesù, Gesù, - mormorava Formosa, preso da un tremore senile.

Si udì un passo che andava e che veniva, poi un lento smuovere di catenacci negli anelli e la faccia rossastra, dal lungo pelo rossastro incolto, cresciuto inegualmente, comparve dalla fessura della porta.

- Aprite, aprite, dottore, - ghignò lo strozzino, entrando, senza vedere la truce occhiata che gli lanciò Trifari.

Entrando, vi afferrava alle nari un puzzo di petrolio fumicante, di cucina fatta in un posto senz’aria, di persone poco pulite, che vivono chiuse da molto tempo. L’anticamera e il cosidetto salotto erano più che mai sporchi di polvere, di fumo di lampada, di molliche di pane, di bucce di frutta. Pareva, la casa, il covo di due animali ricacciati per giorni e per settimane nella loro tana, dalla paura del cacciatore. Sopra una seggiola, smunto, con le guance scavate, le nari assottigliate, le orecchie senza sangue, con le livide labbra schiuse quasi gli mancasse il respiro, l’assistito giaceva disteso, le membra rilasciate, la barba diventata più lunga e più sudicia, i capelli che gli piovevano a cernecchi brizzolati sul collo. Trifari, per farlo star su, gli dette due pugni, in un braccio e in una spalla; una novella espressione di dolore si disegnò sulla faccia del disgraziato impostore.

- Ma che fate, dottor Trifari, non vi vergognate? - gridò don Gennaro, scandalizzato.

- Mi fa sempre così, in tutte le ore del giorno, - mormorò l’assistito, con un filo di voce.

- Fatevi coraggio, ora verrete via con me, - disse lo strozzino, porgendogli una fialetta di cognac, che portava sempre addosso.

- Ah non ne avrò la forza, cavaliere mio, - disse l’altro fiochissimamente. - Mi hanno ammazzato. Chiuso, senz’aria, senza luce, in questa puzza che muove la nausea: spesso digiunando, o mangiando malamente; tormentato ogni ora, per dare i numeri certi: spesso bastonato da questa iena del dottore che il Signore ha fatto nascere per i miei peccati, è un’agonia, don Gennaro, io sono in agonia...

- Come avete potuto far questo a un uomo, a un cristiano? - disse severamente don Gennaro, guardando gli altri due.

- Vedete chi predica! - gridò Trifari, la cui sfacciataggine era indomita.

- Voi, marchese, che siete un gentiluomo? - chiese Parascandolo, fingendo di non voler parlare con Trifari.

- Che volete? la passione è troppo grande… - disse il vecchio, tutto raumiliato, fremendo anche per altri ricordi.

In questo erano entrati nel gabinetto, dalla porta lasciata aperta, Colaneri, il vipereo professore, e don Crescenzo, il postiere. Nel vedere un estraneo, nel riconoscere don Gennaro, intesero tutto: si guardavano, turbati, specialmente don Crescenzo che era un ufficiale del Governo, come egli diceva. L’usuraio, freddo, continuava a fumare le sue sigarette, mentre l’assistito stremato di forze, aveva abbandonato la testa sulla spalliera della sedia. Quella casa che era stata il carcere di un mese, aveva adesso anche l’orrido aspetto della sordidezza, e quella luce artificiale di lampada, in pieno giorno, stringeva il cuore, simile a fiamma di cerei intorno a una bara. In realtà, don Pasqualino pareva un morto.

- E vi siete messi in tanti, contro uno? - domandò lo strozzino, senza rivolgersi direttamente a nessuno.

- Perché non ha dato prima i numeri? - strillò Colaneri, raggiustandosi il colletto con un moto pretino. - Nessuno gli avrebbe fatto niente.

- Queste sono cosa da galera, capite? - disse l’usuraio, assai freddamente.

- Non parlate di galera, voi! - fischiò la voce dell’ex-prete, - voi ci dovreste andare venti volte.

L’altro si strinse nelle spalle e: - Don Pasqualino, avete la forza di levarvi? - chiese all’assistito. - Vi voglio portar via.

I quattro si guardarono, subitamente pallidi. Era naturale che, scoperta la cosa, l’assistito se ne andasse: ma l’idea che egli venisse tratto all’aria aperta, in libertà, potendo andare e venire, raccontando quello che gli era accaduto, sfuggendo alle loro vessazioni, li gettava in un profondo sgomento.

- Non ho la forza di muovermi, cavaliere, - disse don Pasqualino, lamentandosi. - Se mi volevano uccidere, non potevano trovare un miglior modo.., eh, Dio glielo renderà, a tutti - e sospirò profondamente.

Bussarono, due volte, alla porta. E le altre due coppie entrarono, Ninetto Costa e l’avvocato Marzano, Gaetano il tagliatore di guanti e Michele il lustrino. Non contenti di venire ogni giorno, ogni due ore, per turno, a domandare i numeri all’assistito, con la insistenza monotona del trappista che dice all’altro trappista, bisogna morire, al venerdì vi era sempre riunione plenaria: era la tortura in massa, la tortura di coloro che sono caduti in fondo all’abisso e ancora vogliono sollevarsi: la tortura di tutti coloro in cui imperversa una passione e che più non vedono lume.

Anzi, la loro ostinazione feroce era cresciuta in ragione della mala azione che avevano consumata e che consumavano contro don Pasqualino: invece di sentir rimorso, provavano una collera profonda, che neanche questa loro violenza fosse riescita a nulla, poiché non uno dei numeri, dati simbolicamente o dati proprio come cifra dall’assistito durante la sua cattività, era venuto fuori. La prima doccia fredda, sulla loro aberrazione, fu la presenza di don Gennaro Parascandolo: fu allora solamente che videro la tristezza e la sudiceria del carcere dove avevano tenuto chiuso quell’uomo, e la crudeltà dipinta nella faccia del carceriere dottor Trifari, e le sofferenze dipinte nella faccia e nella persona di quel disgraziato sequestrato: allora solo intesero che tutti loro potevano esser processati per tale delitto e che erano alla mercè di don Pasqualino de Feo e di don Gennaro Parascandolo. Muti, freddi, attoniti, con gli occhi bassi, non chiedevano neppure come fosse stato scoperto quel carcere. Sentivano adesso quel grave peso sul cuore che è il castigo primo, morale, intimo della colpa. Più di tutti era avvilito il marchese Cavalcanti, egli si rammentava di aver condotto colà l’assistito, vedeva già il suo nome trascinato dalla questura alle carceri, dalle carceri al tribunale. Adesso i cabalisti volgevano delle occhiate supplichevoli ai due arbitri del loro destino. Don Gennaro, flemmaticamente, fumava la sua sigaretta.

- Anzi tutto, dottore, - egli disse, buttando in aria il fumo, - smorzate questo lume e aprite le finestre.

- Io non accetto ordini! - gridò Trifari, che era il solo indomito ed era furioso di vedersi sfuggire la preda.

- Volete proprio andare a San Francesco? - domandò quietamente l’usuraio, accennando alla maggior prigione napoletana.

- Dovrebbero metterci voi! - urlò lo sfegatato cabalista, che era diventato mezzo pazzo, a furia di sorvegliare don Pasqualino.

- Aspetto prima che mi paghiate quelle molte lire che mi dovete, - osservò lo strozzino.

- State fresco, - mormorò Trifari, sfacciatamente.

- Eh, qualcuno pagherà, vostro padre, vostra madre, di fronte alla querela per truffa… - soggiunse lo strozzino, senza turbarsi.

Tutti si guardarono, gelidi. Ognuno di loro doveva dei denari allo strozzino: finanche don Crescenzo. I soli due esenti erano Gaetano il tagliatore di guanti e Michele il lustrino, ambedue torturati dalla usura egualmente spietata di donna Concetta. Lo stesso Trifari tacque: l’idea del disonore, nel suo paesello, a quei vecchi contadini di cui già egli era il segreto tormento, lo faceva dolorare come una bestia ferita. Macchinalmente andò ad aprire le finestre e spense il lume che fumicò, mandando un orribile puzzo di lucignolo carbonizzato. Le palpebre degli astanti batterono, a quella viva luce del giorno: tutte le facce erano pallidissime; e l’aspetto del miserabile assistito apparve simile a quello di un morente. L’usuraio gli dette ancora un sorso di cognac, che questi bevve a goccia a goccia, non potendo resistervi.

- Ora faccio venire una carrozza, - disse don Gennaro.

- Come, lo porti via? - osò chiedere disperatamente Ninetto Costa.

- Vuoi che lo lasci qui, perché lo portiate via cadavere?

- Che esagerazione, - mormorò l’altro, vagamente.

- Don Pasqualino è abituato a star chiuso. . . e tu ci rovini, Gennarino

- Pensa agli altri guai tuoi, - disse seriamente lo strozzino.

L’altro, colpito, tacque. Tutti quanti tremarono, vedendo che l’assistito tentava di alzarsi, lentamente, appoggiandosi al tavolino e che a furia di sforzi, pigliando fiato ogni minuto, aprendo quella sua bocca livida, dai denti corrosi e neri, vi riesciva. L’incanto era spezzato, totalmente. Adesso l’assistito sfuggiva loro, per sempre: sarebbe andato a denunziarli per sequestro di persona, per sevizie, per maltrattamenti, ma in fondo questo finiva per parer loro meno grave della libertà dell’assistito, che per vendicarsi non avrebbe loro dato mai più un numero, mai più. Ah fosse pure venuto il carcere, ma prima i numeri, col denaro della vincita avrebbero corrotta la giustizia, sarebbero scappati via! Il sogno era fuggito: la sorgente delle ricchezze fuggiva via, s’involava. Niente, niente più avrebbe indotto l’assistito a fornir loro i numeri certi, infallibili. Ogni passo che egli, sulle sue gambe magre e vacillanti, tentava di fare, era uno strappo al cuore che essi provavano.

- Se non vi fate coraggio, don Pasqualino, restiamo qua fino a stasera, - osservò don Gennaro, che aveva premura di andar via.

Certo, la sua posizione fra quei cabalisti non era rassicurante: tutti gli dovevano del denaro e se avevano già avuta l’audacia di consumare un sequestro, potevano bene consumarne un altro, più utile, più proficuo. Don Gennaro, è vero, li dominava con la sua freddezza e con la sua forza; ma non erano dei disperati, costoro? E anche essi provavano quella spezzatura di forze fisiche e morali, quella debolezza che sopravviene anche nei più raffinati malfattori, quando hanno compiuta la loro opera malvagia e vi hanno buttato tutta la loro potenza, vera e fittizia. A ogni modo, era meglio uscire.

- Signori miei, vi saluto, - egli disse, prendendo il cappello e la mazzetta, vedendo che l’assistito strisciava con le scarne mani sui vestiti, tentando di pulirli.

- Vorrei dire una parola a ognuno di questi signori, - chiese l’assistito.

Vi fu un mormorio, tutti si affollarono attorno a colui che parlava con gli spiriti, mentre Parascandolo era già nell’anticameretta e aveva aperta la porta di uscita, per precauzione.

- A uno alla volta, - disse l’assistito. - È una specie di testamento che fo: voglio lasciare un ricordo a tutti. E si appartarono, uno alla volta, con lui, nel vano della finestra. Egli li guardava in faccia, toccava loro la mano, con le dita deboli e fredde. Il primo fu Ninetto Costa:

- Senti, Ninetto, non ti disperare: rammentati che alla fin dei fini, vi è sempre una rivoltella.

- È vero, - mormorò quello pensando, cercando i numeri di quella parola.

Il secondo fu Colaneri, l’ex-prete.

- Per te ci sta il Vangelo, esso ti apre le braccia, - sussurrò l’assistito.

- Grazie, - rispose l’altro con una espressione fra lieta e dolorosa, intendendo nella sua duplice forma il consiglio.

Il terzo fu Gaetano, il tagliatore di guanti.

- Perché sei ammogliato? Ti avrei consigliato di sposare donna Concetta, quella che ha tanti denari.

- Tanti, ne ha?

- Oh, moltissimi!

- Avete ragione: sorte infame!

Il quarto fu Michele il lustrino, lo sciancato gobbo.

- Se tu non fossi così storto e vecchio, ti consiglierei di sposare donna Caterina, quella che fa il gioco piccolo.

- Ma sono storto. . . - disse desolatamente il lustrino.

- Eh, industriati.

Il quinto fu il vecchio avvocato Marzano, dalla testa crollante, ma ancora arso dalla passione.

- Sapete che di carta bollata se ne vendono centinaia e migliaia di fogli, in Napoli. Perché non cercate una privativa?

Il vecchio a cui queste parole erano state susurrate più che dette, guardò con meraviglia e diffidenza l’assistito: si allontanò, chinando il capo.

Il sesto che si avvicinò, fu il dottor Trifari: era esitante, aveva troppo maltrattato l’assistito, in quei giorni di carcere. Pure, costui lo trattò con molta soavità:

- Per liberarvi dalle noie, perché non vendete tutto al paese, facendo venire qui i vostri genitori?

- Non vi ho mai pensato: vi penserò.

Il settimo fu don Crescenzo, il tenitore del Banco lotto al vicolo del Nunzio, con cui don Pasqualino aveva antica relazione di amicizia. Si parlarono sottovoce, nessuno potette udire nulla.

- Quanto è stupido il governo! - disse l’assistito, dardeggiando uno sguardo suggestivo a don Crescenzo.

- Che dici? - chiese costui, sgomento.

- Dico: quanto è stupido il governo!

- Non ti capisco...

- Mi capisci perfettamente.

L’ottavo ad accostarsi, fu il marchese Cavalcanti, anche costui un po’ timido, sentendosi in maggior colpa verso don Pasqualino.

- Lo spirito mi ha parlato ancora, marchese.

- E che vi ha detto?

- Mi ha detto che la marchesina Bianca Maria è un anima perfetta, lucida, veggente: ma che, come vi ho già detto, il contatto con l’uomo la deturperebbe, la renderebbe ottusa e infelice, incapace di aver più qualunque visione.

- La marchesina Bianca Maria morirà vergine, ditelo allo spirito, - rispose fieramente il folle vecchio.

- Ebbene, don Pasqualino, vogliamo restare qui sino a stasera? - disse lo strozzino, rientrando. - Avete finito, con questi signori?

- Sì, sì, ho finito, - rispose l’altro, con voce più forte, come se stranamente avesse ripreso le forze.

Mentre l’assistito si cercava nelle tasche per vedere se avesse un lacero fazzoletto e certe carte sudicie che portava sempre addosso, e poi si metteva l’ignobile cappellaccio, i cabalisti si erano riuniti in un gruppo, ma non parlavano fra loro. Ciò che egli aveva detto loro, nel suo senso vero e in quello simbolico, come insinuazione, come consiglio, li aveva profondamente turbati.

- Signori miei, Iddio vi perdoni, - esclamò con un bizzarro accento e con un lieve sorriso l’assistito, andandosene. Fu appena appena se lo salutarono, dandogli un’occhiata di rimpianto; nessuno di loro osò scusarsi, per il male che gli avevano fatto: ognuno di loro sentiva nell’anima ribadirsi il chiodo che l’assistito vi aveva messo.

I due scendevano pian piano la scaletta, poiché l’assistito minacciava sempre di cadere. Fino a dargli braccio l’usuraio non vi era giunto, poiché l’assistito era troppo, troppo sporco. Quando costui apparve sulla soglia del portone e si guardò intorno, assorbendo l’aria libera, gli vennero le lagrime agli occhi.

- Credevo che non sarei più uscito, - disse, salendo nella carrozza.

- Dove volete andare? - chiese Parascandolo.

- Alla questura, - disse l’altro, nuovamente, con voce fioca, sdraiato nella carrozza come un infermo grave.

Don Gennaro aggrottò lievemente le sopracciglia, e per non darsi in spettacolo alla gente, fece sollevare il soffietto della carrozza: si avviarono a via Concezione.

- Volete denunziarli? - domandò freddamente.

- Voi non sapete che torture mi hanno inflitto… - mormorò l’altro, battendo col capo contro il mantice, a ogni scossa della carrozza, come se non reggesse il capo sul collo.

- Dunque, li denunziate?

- Per trenta giorni, un infelice, ammalato, chiuso, senz’aria, con un lume a petrolio puzzolente: mentre anche quelli che hanno commesso dei delitti, escono a passeggiare!

- Ma perché non avete loro dato i numeri?

- Per questo, - disse l’altro, enigmaticamente.

- Don Pasqualì, voi i numeri non li sapete! - disse don Gennaro, ridendo.

- E a voi, che ve ne importa?

- Proprio niente. Ma con me dovete parlar franco.

- Sissignore, sissignore, - disse l’assistito umilmente, - ma essi perché mi hanno buttato alla morte? Che avevo fatto di male, io, povero innocente?

- Don Pasqualì, voi vi siete mangiato varie migliaia di lire, di quei signori, - continuò, sullo stesso tono, ridendo, l’usuraio.

- Elemosine, cavaliere mio, elemosine!

- Proprio tutte elemosine, proprio? - ghignò satanicamente don Gennaro.

- Qualche piccola cosa, per me… - sospirò don Pasqualino, con un lampo di acquiescente malizia negli occhi.

- Allora è inutile salire alla questura...

- Andiamoci, don Gennaro, andiamoci lo stesso, che sarete contento di me.

Scesero innanzi al gran portone, nella via Concezione, dove andavano e venivano le guardie di Pubblica Sicurezza: una fatica enorme fu salire le scale: all’assistito gli mancava il fiato a ogni scalino.

- Un poco di forza, eh! - ripeteva l’usuraio.

- Non mi lasciate, non mi abbandonate, - sospirava l’assistito.

Alla fine giunsero al primo piano, dove don Gennaro, salutato rispettosamente dagli uscieri, chiese se vi era il questore. Non vi era: vi era il suo capo di gabinetto, che li fece entrare subito, che si sprofondò in cerimonie.

- Vi è qui il signor Pasqualino de Feo che vuoi fare una dichiarazione, - disse l’usuraio mettendosi a fumare una sigaretta, dopo averne offerta una al capo di gabinetto, guardando negli occhi l’assistito.

- Volevo conoscere, - disse costui, flebilmente, - se qualcuno è venuto a dichiarare la mia sparizione

L’ispettore prese un grosso registro e lo sfogliò fumando.

- Sissignore, - disse, - è venuta Chiara Stella de Feo, abitante alle Centograde, moglie di Pasqualino de Feo, a dichiarare l’inesplicabile assenza di suo marito, temendo un sequestro o una disgrazia...

- Ma che sequestro, che disgrazia! - esclamò l’assistito, sorridendo ironicamente. - Le donne fantasticano sempre...

- Ha detto che foste sequestrato, altre volte, senza volere o saper precisare le circostanze

- E perché mi avrebbero sequestrato?

- Per strapparvi i numeri del lotto.

- Mia moglie ha detto che io so i numeri del lotto? - disse, con un lieve riso, l’assistito.

- Non gli credete, ispettore, sono frottole, - soggiunse Parascandolo, ridendo.

- Volevo dichiarare, a scanso di equivoci, che trovandomi a Palma Campania, qui, in villa del cavalier Gennaro Parascandolo, mi ero così ammalato da dovervi restare un mese, senza aver modo di poter scrivere a mia moglie. Poi… contavo di tornare ogni giorno

- Voi testimoniate che è la verità, cavaliere? - disse sbadatamente, senza darvi importanza, l’ispettore.

- Sissignore.

- Allora, tutto va bene. Vi avrà dato i numeri, eh cavaliere, in questo mese di malattia? - chiese, sempre ridendo, l’ufficiale di polizia.

- Sicuro! - affermò Parascandolo in pieno buon umore.

- Ma a voi, che servono! Non dico di noi, poveri impiegati

- Don Pasqualì, se avete la forza, date i numeri all’ispettore.

- Voi mi volete burlare, - mormorò l’assistito.

Si licenziarono, mentre l’ispettore raccomandava a De Feo di andar subito da sua moglie, che doveva stare in pensiero.

- Avete visto se vi ho servito bene, cavaliere? Ho perdonato a quelli che mi hanno offeso… - e scendevano le scale.

- Siete troppo buono, - rispose l’altro, con una velatura d’ironia.

- Non voglio farmi un merito, che non ho: non avrei mai denunziato quei signori

- Ah! - disse l’altro, fermandosi. - E perché?

- Non mi conveniva

- Capisco. Allora perché siamo venuti?

- La dichiarazione era necessaria, la questura mi cercava.

- Così ingenua è vostra moglie?

- Mia moglie? Quella mi vuol tanto bene, che trema sempre per me e dice sempre che ci dobbiamo ritirare dalla professione

- E che professione fa?

- Non lo sapete? è la famosa fattucchiara delle Centograde, Chiara Stella

- Ah… sì, sì, mi ricordo… e le sue fatture sono come i vostri numeri?

- Le sue fatture sono vere, - disse pensosamente, sinceramente, don Pasqualino.

- E lei ci crede alla vostra assistenza?

- Sì, ci crede, - disse l’altro, chinando il capo, - mia moglie ha per me una grande passione.

- Per voi?

- Per me.

- Siete curiosi, voi altri, - disse lo strozzino, filosoficamente. - Intanto li avete salvati, quegli otto furfanti

- Che… salvati, salvati! Avete inteso i consigli che ho dato, a tutti loro?

- No, - rispose don Gennaro, sorpreso dal tono perverso di quel discorso.

- Ho lasciato loro un ricordo, a ognuno - continuò lo spiritista, la cui voce si era fatta stridula.

- E vi obbediranno, credete?

- Come è certa la morte, - disse l’assistito, lugubremente.

Salutò don Gennaro e, quasi rinvigorito, si avviò prestamente verso piazza Municipio. Quello, lo guardò andar via: e per la prima volta sentì il ribrezzo che la glaciale malvagità.

 

 

 


 

 


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