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La prima parola a me, di grazia, per non essere fraintesa o malintesa: i critici poi si scervellino pure liberamente, e si battano contro il mio libro, o tra loro, o contro la comune matrigna, la critica. La prima parola a me, per alcune semplici e umili spiegazioni, agli uomini, cui presento una materia ad essi sconosciuta, alle donne, cui raccomando una materia ad esse ben cara.
Voi avrete letto Chérie di Goncourt, romanzo e prefazione; la prefazione è ambiziosa, il romanzo è povero. La prefazione promette assai e il romanzo mantiene poco o nulla. Come va questo? Io me lo sono domandato più volte. Come il potente analizzatore di Germinie Lacerteux, di Manette Salomon, della Faustin ha potuto così miseramente fallire nell’anatomia spirituale e fisiologica di Chérie? L’ambiziosa prefazione spiega il mistero: Goncourt non ha potuto studiare la fanciulla nel vivo, come ha potuto fare della serva nevrotica, della modella, dell’attrice: ha dovuto ricorrere alle confessioni delle fanciulle. Come se la fanciulla si confessasse mai a nessuno, madre o amica, fidanzato o romanziere sperimentale! Chiusa come un baco da seta in un bozzolo filato dal rispetto umano, dalla educazione strana e variabile, dalla modestia obbligatoria, dalla ignoranza imposta, dalla inconsapevolezza a ogni costo, e trascinata poi da una forza contraria d’impulsione a gravitare intorno al sole del matrimonio, la fanciulla si sviluppa in condizioni morali difficilissime. Ella deve vivere a contatto con gli uomini, senza che tra essi e lei s’apra una corrente di comunione; deve indovinare tutto, dopo aver tutto sospettato, e sembrare ignorante; deve avere un’ambizione cocente e consumatrice, un desiderio gigantesco, una volontà infrenabile di aggrapparsi a un uomo, e deve essere fredda e deve essere indifferente. Il romanzo della Rosa si trasforma nel dramma della Rosa, poichè il dolce fiore, nascosto dietro le trincee e le fortezze della virtù, invoca con ardente desiderio un conquistatore.
In questo dramma interiore, imposto alla fanciulla dalla necessità della nostra vita, ella diventa profonda, pensosa, malinconica spesso, scettica sempre. Nessuno più dalla fanciulla, apprende quotidianamente i dolori e le disfatte della lotta per l’esistenza. Ella vive guardinga, move i passi con precauzione; e la sua anima non si dà facilmente, i misteri del suo spirito restano impenetrabili. Niuno più della fanciulla sente acutamente la vita, in un contrasto talvolta comico, talvolta doloroso: quegli occhi abbassati o distratti hanno sagacità di osservazione insuperabile: quelle testine bionde che a nulla dovrebbero pensare, hanno una intuizione potente, e una favolosa tenacità di memoria: quelle belle angelette sognanti debbono, per necessità di difesa, essere implacabili raccoglitrici di documenti umani. Aspra è la battaglia nella vita femminile, ma il motto sconfortato di Giobbe è fatto per la fanciulla.
Ora, anch’io ho traversato questo drammatico tratto della vita, anzi la varia fortuna mi ha fatto passare per più anni di seguito, a traverso un meraviglioso poliorama di fanciulle d’ogni classe, d’ogni indole, d’ogni razza. Quello stupendo erbario umano, ove le sottili gramigne aristocratiche s’intrecciano coi grassi garofani borghesi, ove l’erbuccia malaticcia è sopraffatta dalla pianta florida, io l’ho visto vivere, crescere, ramificarsi, insinuandosi e penetrando dapertutto. Tutte quelle fanciulle, mi son passate accanto: son passate, si sono allontanate, sono scomparse, sono entrate nella felicità o nella morte, alcune nella felicità per la morte; — ma l’immagine loro è rimasta in me, vivente.
E se io potessi realmente evocare tutti, tutti i fantasmi che nella mia mente s’incalzano e si affollano, quale sfilata di fanciulle! Accade ciò perchè i ricordi si fan tanto più vivi, quanto più s’allontana l’oggetto? o perchè la memoria fanciullesca è più sveglia, più alacre, più fresca? o per quella potente virtù osservativa che le fanciulle hanno? I filosofi positivisti risolvano il problema: quanto a me, in questo libro, la mia psicologia è fatta di memoria. E in me, nell’anima, tutte avete lasciato un solco, una impronta, un fantasma, o voi, creature femminili che viveste meco, un’ora, un giorno un anno. Voi vivete in me, come eravate un tempo, nei corridoi e nelle aule della scuola Normale, negli uffici del Telegrafo, ai balconi provinciali di Santa Maria ove fioriscono le gaggie e gli amori, sulle terrazze napoletane ove giunge la malinconìa del mare lontano e delle chitarre preganti. Ogni volta che io tento di costruire lo schema ideale e generale della fanciulla, per farne l’eroina di un romanzo, tutte quante le vostre voci, o amiche, felici o infelici, lontane, lontane tutte, mi risuonano nella testa, in coro. È un chiasso confuso come una volta: rammentate? Io rammento con tanta vivezza, con tanta intensità, che tutti i miei nervi tremano, che una commozione di tenerezza e di pianto mi scuote l’anima: tutte queste voci che vengono dal passato, tutte queste braccia che si stendono verso me dal tempo lontano, questa parvenza così viva di cose che più non sono, o che non sono più tali, mi trascinano, mi turbano, mi tolgono la serenità necessaria a comporre un romanzo conforme alle regole stabilite.
Perciò, io non voglio fare un romanzo, non voglio creare un tipo, non voglio risolvere un problema di psicologia sperimentale. Io scavo nella mia memoria, dove i ricordi sono disposti a strati successivi, come le tracce della vita geologica nella crosta terrestre, e vi do le note così come le trovo, senza ricostruire degli animali fantastici, vi do delle novelle senza protagonisti, o meglio, dove tutti sono protagonisti. Se ciò sia conforme alle leggi dell’arte, non so: dal primo giorno che ho scritto, io non ho mai voluto saputo esser altro che un fedele, umile cronista della mia memoria. Mi sono affidata all’istinto, e non credo che mi abbia ingannata. Mi pare infatti di aver sentito dire che nelle tragedie antiche il protagonista vero era il coro, e di aver letto che nelle commedie di Aristofane il protagonista è il popolo. L’istinto, dunque, mi ha guidato e consigliato bene.
Ripensandovi su, ora, e correggendo le stampe del mio libro, io sento di amare queste novelle e di prediligerle sopra tutto ciò che ho scritto. Ho fatto delle novelle corali, ove il movimento viene tutto dalla massa, ove l’anima è nella moltitudine: e non me ne pento. Invece di fabbricare una fanciulla, ho rievocato tutte le compagne della mia fanciullezza: invece di costruire un’eroina, ho rivissuto con le mie amiche del tempo lontano. È un sogno amaro e pietoso, fissato sulla carta.
Così, pochi libri sono stati scritti con più amore, con più tenerezza, con più passione di questo. Mentre queste pagine passavano sotto la corsa nervosa della mia penna, voi passavate nell’anima mia, con la faccia di un tempo, con la voce di un tempo, o bellezze. Avevo anche io un’altra faccia, un’altra voce, quella d’allora, scrivendo: le cose mutate erano di nuovo come furono, le cose finite ricominciavano, il dolore rideva, la morte parlava. Poichè voi che la vita ha dolorosamente colpito, avevate l’allegrezza antica; e voi che siete morte, mi sembravate vive. Insieme vivemmo la vita di questo libro. Io l’ho scritto, e ve lo dono. Beata chi di voi può leggerlo senza lacrime!