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I.
Come Maria Vitale schiuse il portoncino di casa, fu colpita dalla gelida brezza mattutina. Le rosee guancie pienotte impallidirono pel freddo; il corpo giovenilmente grassotto rabbrividì nell’abituccio gramo di lanetta nera: ella si ammucchiò al collo e sul petto lo sciallino di lana azzurra, che fingeva di essere un paltoncino. Nella piazzetta dei Bianchi non passava un’anima: la bottega del fabbro era ancora chiusa, la tipografia del Pungolo era sbarrata: per i vicoli di Montesanto, di Latilla, dei Pellegrini, dello Spirito Santo che sbucavano nella piazzetta, non compariva nessuno. Una nitida luce bigia si diffondeva sulle vecchie case, sui vetri bagnati di brina, sui chiassuoli sudici: e il cielo aveva la chiarezza fredda, la tinta metallica e finissima delle albe invernali. Allora Maria Vitale, mentre si avviava, sorpresa dal silenzio e dalla solitudine, fu côlta da una vaga inquietudine.
— Sono forse uscita troppo presto, — pensò.
Battè il piede in terra, pel dispetto. Non avevano orologio, in casa, e alle sette meno cinque minuti, ella si doveva trovare in ufficio. Così, alla mattina, cominciava il fastidio: la madre si destava prestissimo e dall’altra stanza la chiamava:
— Mariè?
— Mammà?
Ella si riaddormentava, col buon sonno delle fanciulle sane e tranquille. Dopo cinque minuti la madre la chiamava di nuovo, a voce più alta:
— Ho inteso, mammà, ho inteso: mi sto alzando.
Ma poichè il sonno riabbatteva sul lettuccio quella fanciullona robusta, la madre taceva, vinta: e qui interveniva il padre, l’ebanista, con la sua grossa voce:
— Mariettella, alzati: se no, paghi la multa.
Ella, allora, si decideva, si buttava giù di un colpo, sbadigliando, non osando voltarsi al letto, per timore di ricadervi, accanto alla sorella Serafina: camminava piano, in camicia e gonnella, per non isvegliare i due fratellini, Carluccio e Gennarino, che dormivano nella stessa stanza, dietro una tenda. Andava a lavarsi la faccia in cucina: invece del caffè, che non si usava in casa, mangiava un frutto, avanzato alla cena della sera prima e un pezzo di pane stantìo: si vestiva presto presto. Malgrado questa sua premura, quattro o cinque volte era giunta in ufficio dopo le sette, perchè non aveva l’orologio; la direttrice aveva segnato questo ritardo sul registro, e Maria Vitale aveva pagato una lira di multa. Accadeva che dalle novanta lire di mesata, tra le sei che se ne prendeva il Governo per la ricchezza mobile e altre due o tre che se ne pagavano per le multe, si scendesse a ottanta, come niente. Così, ogni mattina, ella era presa da una gran tremarella: e talvolta usciva troppo presto.
— Che ora sarà? — pensava Maria Vitale, contristata dall’idea che fosse prestissimo.
Nel vicolo dei Bianchi, per dove si va a Toledo, incontrò il caffettiere ambulante, che portava in giro il suo fornelletto, con le cogome sepolte nella cenere calda, e tre o quattro tazzine infilate alle dita.
— Galantò, che ora sarà? — domandò ella.
— Sono le cinque e mezzo, signorina mia. Lo pigliate un tocchetto?
Un’ora, ci voleva un’ora; ella era uscita un’ora prima. Se ne andava, con le lagrime agli occhi pel dispiacere, pensando a quel buon tempo di sonno che aveva perso: un dolore ingenuo, puerile, le saliva dal cuore alle labbra, come se le avessero fatto una grande ingiustizia, come quando, piccoletta, la battevano per una colpa non sua. Che avrebbe fatto in quell’ora? Oh come sarebbe volentieri tornata a casa, a ricacciarsi nel suo lettuccio caldo, con la guancia affondata nel cuscino e le braccia piegate alla cintura! Era inutile, oramai: era uscita troppo presto, non avrebbe mai ritrovato quella bella ora di sonno perduta. Dove andare? Il venticello gelido la infastidiva, mandandole in faccia la polvere di via Toledo, non ancora spazzata: non poteva passeggiare a quell’ora, sola, come una pazza, fra i venditori di frutta che scendevano dai giardini alle vie centrali di Napoli, e fra i carri dello spazzamento che trabalzavano cupamente sul selciato. Andar a prender Assunta Capparelli che abitava ai Ventaglieri? Assunta era di servizio nel pomeriggio, quel giorno non aveva obbligo di levarsi presto: certo, felice lei, dormiva profondamente. Andare a prendere Caterina Borrelli che abitava alla Pignasecca? Che! Caterina Borrelli era una dormigliona impenitente, che si alzava alle sette meno un quarto, si vestiva in sei minuti e arrivava all’ufficio correndo, ridendo, sbadigliando, col cappello di traverso, la treccia che si disfaceva, la cravatta a rovescio, e rispondeva vivamente all’appello: presente! Tutte, tutte dormivano ancora, le fortunate. Un’amarezza si diffondeva nella buona anima di Maria Vitale: le pareva di esser sola sola, nel vasto mondo, condannata a dormire scarsamente, condannata ad aver sempre freddo e sonno, mentre tutte le altre dormivano, al caldo, nella felicità intensa e profonda del riposo. E l’amarezza era anche senso di abbandono, disgusto della miseria, dolore infantile: chinando il capo come a rassegnazione, entrò nella chiesa dello Spirito Santo, macchinalmente, per rifugio, per conforto.
Subito, quella penombra sacra, quell’aria molle e umida, non fredda, la calmarono. Sedette in uno dei banchi di legno dipinto, quello dei poveri che non hanno il soldo per la sedia di paglia, e appoggiò il capo alla spalliera del banco che aveva innanzi. Ora pregava quietamente, dicendo un Gloria, tre Pater, tre Ave, tre Requiem, come è prescritto, quando si entra a caso in chiesa e non vi sono funzioni sacre. Poi raccomandò a Dio l’anima della nonna che era morta l’anno prima, la salute di sua mammà, di suo papà: nominava i fratelli, le sorelle, il compare, i superiori, i viaggiatori sul mare in tempesta, le anime abbandonate. Per sè non chiedeva nulla: in quel torpore fisico, non provava nessun desiderio spirituale e personale: nulla le si precisava, come bisogno, nell’anima. Solo, confusamente, avrebbe voluto pregare la Madonna che la lasciasse dormire, al mattino, sino alle nove: bella felicità, che non aveva mai goduta. Sentiva solo un sonno tenace scenderle sul capo e dalla nuca diffondersi lentamente per il corpo: dormiva, con la faccia tra le mani, il cappello venuto giù sulla fronte, con le gambe immobili e il busto penosamente inchinato: dormendo, udiva lo scaccino andare e venire, scostare le sedie, spazzare il pavimento marmoreo. A un tratto una voce le mormorò nell’orecchio:
— Ecco, mammà, — borbottò Maria, svegliandosi.
Giulietta Scarano, una fanciulla dai bei capelli castani, dalla testina piccola sopra un corpo grasso, dagli occhi chiari e sempre estatici, sorrideva mitemente, accanto a lei, guardando l’altare maggiore, dove lo Spirito Santo risplendeva in una raggiera d’oro.
— Mi sono addormentata: hai anche sbagliata l’ora, tu?
— No, esco presto, perchè devo venire a piedi da Capodimonte. Entro sempre in chiesa, passando.
— Andiamo?
— Sì, sì: è ora.
Si avviarono, Maria Vitale, tutta indolenzita, con un gran freddo addosso e un formicolìo nelle gambe: Giulia Scarano camminando come una sonnambula, senza parlare.
— Niente, — disse l’altra, con la malinconia di una voce giovanile che i singhiozzi hanno velato.
— Sempre Mimì, eh? — insistette Maria, con la sua aria saggia e compassionevole di donnina invulnerabile.
— Sempre.
— Ci perderai la salute, Scarano.
— Così fosse!
— Non dir queste brutte parole. Oh che cattiva cosa è l’amore! Io non ho mai voluto fare all’amore, per questo.
— Già: si dice sempre così, quando non si vuol bene a nessuno. È che Mimì è ammalato, io non posso vederlo e mi sento morire, — scoppiò a dire l’altra, non potendone più.
— Oh poverello, poverello! speriamo che non sia niente, — mormorò Maria, che si contristava subito.
Scendendo per la via di Monteoliveto, erano giunte presso la fontana, Giulietta Scarano assorbita nella desolazione della sua idea amorosa, Maria Vitale crollando il capo sulle miserie umane. Ecco, ella non era una testa forte come Caterina Borrelli, che scriveva continuamente un romanzo in un suo quaderno, grosso grosso: ella non sapeva fare i versi come Pasqualina Morra; ma capiva che l’amore è un grande tormento.
— Non posso vederlo.... — ripeteva ancora Giulia Scarano.
— Gliene ho scritte tre, di quattro foglietti l’una, da ieri, ma non so come mandargliele: mammà ha cacciato Carolina, la serva che mi voleva bene e mi aiutava....
— Impostale.
— Non ho soldi pei francobolli: e mi vergogno di mandarle senza. Chissà, Galante, la nostra inserviente, potrebbe aiutarmi....
Erano innanzi al palazzo Gravina: severo palazzo bigio, di vecchio travertino, di architettura molto semplice. Pareva, ed era, molto antico: certo aveva visto succedersi, dietro le sue muraglie profonde, casi lieti e casi truci, feste di amore e congiure di ambizione, dolci affetti umani e feroci passioni umane. Ora le sue stanze terrene sbarrate ermeticamente sulla via, si aprivano al pubblico, sotto il portico, nell’interno del cortile e servivano da uffici postali: intorno ai suoi finestroni larghi e alti, sugli spigoli dei suoi muri oscuri era una fioritura verticale di funghi bianchi, gli isolatori telegrafici di porcellana, da cui partivan tutti quei fili sottilissimi, dieci, dodici da una parte, tre da un’altra, quattro o cinque da una terza, trama leggera che si stende sul mondo. Sul balcone di mezzo, dietro il largo scudo di metallo, dove si legge: Telegrafi dello Stato, un uomo fumava, appoggiato all’inferriata, guardando il cielo mattinale.
— Chi è, quello? — chiese Maria Vitale.
— È Ignazio Montanaro: sarà stato di servizio questa notte.
Per il largo scalone, Cristina Juliano le raggiunse, le salutò, senza fermarsi. Sembrava un brutto uomo vestito da donna, col suo grande corpo sconquassato, troppo largo di spalle, troppo lungo di busto, senza fianchi, con le mani grandi, i polsi nodosi e i piedi enormi. Portava ancora il cappello di paglia bianca, dell’estate, abbassato sulla fronte per mitigare lo spavento che produceva il suo occhio guercio, bianco, pauroso: e per scoprire la dovizia meravigliosa di due treccioni neri, una ricchezza strabocchevole di capelli, che le tiravano la testa indietro, pel peso.
— È inutile, questa Juliano mi è antipatica, — disse la Vitale.
— Non è cattiva, però, — rispose la Scarano, con la mitezza delle anime innamorate.
Sul pianerottolo le raggiunse Adelina Markò e si unì a loro.
— Che freddo! — disse ella con la voce molle e seducente.
Si lisciava, con la punta delle dita, i capelli biondissimi, ondulati, che il vento aveva scomposti; ma il vento aveva reso più vivida la bella bocca dalle labbra delicatamente rialzate agli angoli, aveva colorito piacevolmente quella fine carnagione dorata di bionda. La leggiadra e flessuosa persona diciottenne, era ben riparata in un vestito caldo ed elegante di panno verde cupo. Una piuma bianca volitante sul cappello di feltro verde, le dava un aspetto di amazzone giovanile, una figura di fanciulla inglese, aristocratica, pronta per montare a cavallo. Non era povera nè popolana, Adelina Markò: era una delle due o tre felici signorine, che lavoravano solo per farsi i vestiti, per comperare la biancheria del corredo. Quando entrava in ufficio, Adelina Markò, col suo sorriso benevolo, col suo passo ritmico, portando i suoi vestiti fini e ricchi, i suoi cappelli bizzarri, i suoi profumi squisiti, pareva una giovane duchessa che si degnasse visitare quella casa del lavoro, una infante reale e benigna e umana, che si compiacesse passare una giornata fra le umili operaie del telegrafo.
Parlavano ancora del freddo, innanzi alla porta bianca su cui era scritto: Sezione femminile. Venne ad aprire Gaetanina Galante, l’inserviente, mostrando il suo viso appuntito e olivastro di volpe maligna.
— È venuta la direttrice? — chiesero, quasi in coro, le tre ausiliarie, entrando.
— Ma che! è ancora a messa, — rispose quella sogghignando nella sua sfacciataggine di servetta viziata.
Respirarono. Era sempre meglio giunger prima della direttrice, per dimostrar zelo e amore all’ufficio. Come entravano in quell’anticamera tetra, la burocrazia avvinghiava l’anima di tutte quelle ragazze, il frasario di ufficio, sgrammaticato e convenzionale, fioriva sulle loro labbra. Quelle già arrivate, chi seduta, chi presso la finestra per avere un po’ di luce, parlavano già di linee, di guasti, d’ingombri sui circuiti diretti. Lo stanzone era cupo ed esse sbassavan la voce per istinto. L’unica finestra dava sullo stretto vicolo dei Carrozzieri; l’oscurità dell’anticamera era aumentata dal grande armadione diviso in tanti armadietti, dove le ausiliarie riponevano i cappelli, gli ombrellini, i mantelli: quelle più poverine, la colazione portata da casa: quelle meno povere, il ricamo o l’uncinetto: le più studiose o le più romantiche, i quaderni. In mezzo allo stanzone, un grande tavolino di mogano: a una parete un divano di tela russa: nessun altro mobile. Negli spazi liberi delle pareti, chiusi in sottili cornici di legno nero, senza cristallo, pendevano l’indice alfabetico delle ausiliarie e delle giornaliere, il regolamento interno, l’ultimo editto direttoriale, una carta geografica e telegrafica dell’Italia. Nessuno li leggeva più questi stampati polverosi, insudiciati dalle mosche: l’interesse di tutte era quel foglio di carta che circolava di mano in mano e che le destinava, per quel giorno, a una speciale linea. La direttrice, con la sua scrittura rotonda e tutta svolazzi, scriveva da una parte in colonna, il numero d’ordine che porta la linea, dirimpetto il nome dell’ausiliaria che doveva lavorarvi, in quel giorno, per sette ore. Appena entrate, tutte cercavano questo foglio, avidamente, mentre ancora si cavavano il cappello e si sbottonavano il paltoncino. E come ci erano linee buone e linee cattive, linee senza lavoro e linee con molto lavoro, linee dove ci vuole una pazienza infinita e linee dove è richiesta una sveltezza singolare, così le esclamazioni piovevano.
— È vero che sono una scema e che non so ricevere ancora bene, — mormorava Maria Vitale, — ma mettermi ogni due giorni a Castellamare, è insopportabile. Se faccio cinquanta telegrammi in sette ore, è un gran che: imparerò presto, a questo modo.
— E non ringrazi Dio? — le diceva Emma Torelli, una biondona alta e bianca, dalla forte pronunzia piemontese, — io vorrei non saper ricevere, come te. Oggi mi hanno dato Salerno, quella linea indiavolata: è sabato e ci saranno i biglietti del lotto che i salernitani giuocano a Napoli. Centottanta dispacci, come niente! Ho l’emicrania, io: vedrai che lite, oggi fra me e il corrispondente, se non ara diritto!
— Ma come le viene in mente alla direttrice, di consegnarmi Avellino? — esclamava Ida Torelli, la seconda sorella. — Io con quel vecchione del corrispondente non posso lavorare: figurati, cara Markò, una mummia di settant’anni, che non può soffrire la sezione femminile. Lo chiamate, non risponde: dopo un’ora, vi chiama precipitosamente e vi fa una sfuriata. A ogni parola trasmessa, interrompe: a ogni dispaccio, chiede spiegazioni. È irascibile, cocciuto e insolente: una linea da crepare.
— Io sto con Genova, — rispondeva la Markò con una voce che pareva un canto, — il che non è divertente. La linea è così lunga che la pila non basta mai: la corrente è variabilissima: ora forte forte, che unisce e confonde tutti i segni, ora tanto debole che i segni non arrivano. Chiami il corrispondente, non ti sente: ti chiama lui, non lo senti. Corrispondi per dieci minuti bene e respiri. Che! all’undecimo minuto la linea si guasta. I dispacci crescono: il ritardo è sempre di tre ore.
Le più scontente erano le hughiste, le migliori ausiliarie che avevano imparato a lavorare sulla macchina stampante Hughes. Ci si lavora in due a questa macchina complicata che pare un cembalo: e vi è bisogno di forza e di attenzione, in ambedue le impiegate. Ora in queste coppie, la direttrice non univa mai due che fossero amiche, per impedire il soverchio chiacchiericcio; univa sempre una brava, a una più debolina. Così queste coppie mancavano di simpatia fra loro: l’una disprezzava l’altra, e l’altra sentiva il disprezzo. Queste galeotte del lavoro non si lagnavano ad alta voce, per superbia; ma se ne stavano ognuna in un cantuccio, imbronciate, senza parlarsi e senza guardarsi. Maria Morra si ripassava la parte di Paolina nei Nostri Buoni Villici che doveva recitare, da filodrammatica, al teatro di San Ferdinando; la sua compagna, Sofia Magliano, una brunetta, dal lungo viso caprino, covava il dispetto, lavorando a una sua stella all’uncinetto; Serafina Casale, piccola, fredda, orgogliosa, pallida e taciturna, prendeva del citrato di ferro in un’ostia bagnata, per guarire dall’anemia che la minava; e Annina Pescara aveva la bella faccia rotonda tutta conturbata, dall’idea di dover lavorare con quella noiosa di Serafina Casale.
In un angolo scuro, Giulietta Scarano pregava e supplicava l’inserviente, Gaetanina Galante, che le facesse questo favore, per amore della Madonna, che mandasse per qualcuno la lettera a Mimì. La Galante diceva di no, protestando che di codesti affari non si voleva più mischiare, che aveva avuti troppi dispiaceri, che le ausiliarie erano tante sconoscenti, che lei, l’inserviente valeva molto meglio di tante che portavano superbia, perchè erano impiegate alle macchine e poi dovevano umiliarsi a lei, per ogni genere di favori. Giulietta Scarano impallidiva, le tremava la voce innanzi a quella serva che la torturava, con un rifiuto villano, affogato in un profluvio di trivialità: giunse sino a prenderlo la mano, raccomandandosi.
A un tratto, sulle voci irose, lamentose e strascicate nella noia, sugli sfoghi dei rancori amorosi e di invidie di uffizio, un zittìo passò: entrava la direttrice. Subito, in coro, a voci digradanti, più basse, più alte, acute, lente, frettolose o in ritardo, queste parole si udirono:
— Buon giorno, direttrice.
Ella salutava col capo, con un sorriso amabile sulle labbra di rosa morta. I fini capelli di un biondo cinereo erano tirati indietro, precisamente, non uno fuori di posto: tutto il volto aveva la grassezza molle, il pallore di avorio delle zitelle trentenni, vissute in monastero o in educandato, in una castità naturale di temperamento e di fantasia. In verità, ella aveva qualche cosa di claustrale, in tutto: nel vestito di casimiro nero, nel goletto bianco, nella cautela del passo, nella bassezza della voce, nella morbidezza delle mani che pareva si dovessero congiungere solo per la preghiera, nella limpidezza inespressiva degli occhi bigi, in certi reclinamenti del capo, per pensare. Ella toglieva i guanti e il mantello, chetamente e guardava le ragazze, osservando che Ida Torelli non aveva il busto, al solito, che Peppina De Notaris portava un anello d’uomo al dito mignolo, che Olimpia Faraone portava troppa veloutine sul viso. Le ausiliarie si davano un contegno disinvolto, ma si sentivano sotto quello sguardo freddo e l’imbarazzo le vinceva. Ella, la prima, entrò nel salone delle macchine e si sedette al suo posto, dietro la scrivania, scrivendo in certi suoi registri, pian piano, con la testa inclinata, come si farebbe il còmpito di scuola.
— Burrasca, in direzione, — disse Caterina Borrelli, che era la miope più insolente, rialzandosi le lenti sul naso rincagnato.
Le ausiliarie si trattenevano ancora in anticamera, visto che mancavano cinque minuti alle sette: ogni minuto squillava il campanello elettrico, qualcuno sopraggiungeva. Era Peppina Sanna, una magrolina e snella, tutta inglese, col vestito a quadrettini bianchi e neri, con gli stivaletti a punta quadrata e senza tacco, col grande velo azzurro che le avvolgeva il cappello e la testa, con un ombrello da pioggia, un sacchetto di pelle nera e un volume dell’edizione Tauchnitz sempre sotto il braccio. Era Maria Immacolata Concetta Santaniello, una fanciullona bianca, grassa e grossa, che ondeggiava, camminando, come un’oca, di cui tutti si burlavano, che era piena di scrupoli religiosi, che prima di trasmettere un telegramma, invocava il nome di Gesù e Maria. Era Annina Caracciolo, brunissima, coi capelli neri e ricciuti, la bocca rossa e schiusa come un garofano, gli occhioni languidi, l’andatura indolente di una creola: impiegata svogliata, che nessun rimprovero e nessuna emulazione poteva risvegliare. Si parlottava, in un gruppo di due o tre, sogguardando verso la direttrice, che scriveva sempre, con la sua posa composta di alunna calligrafa; appena ella udiva una voce troppo forte, o una risata troppo alta, levava il capo e faceva:
— Sts!
Poi, uno squillo del timbro e la voce liquida della direttrice:
In silenzio, esse sfilaron avanti alla sua scrivania e si diressero alle macchine. Nella piena luce del salone, rischiarato da tre finestre, si vedevano le facce assonnate di quelle che avevano troppo poco dormito, le faccie smorte di quelle colpite dal freddo, le faccie scialbe di quelle malaticcie; e da tutte si diffondeva un senso di pacata rassegnazione, di noia indifferente, di apatia quasi serena. Cominciavano la loro giornata di lavoro, senza ridere, tutte occupate meccanicamente in quei primi apparecchi: curve sulle macchine, chi svitava il coltellino d’acciaio che imprimeva i segni, chi metteva un rotolo nuovo di carta, chi bagnava d’inchiostro, con un pennello, il cuscinettino girante, chi provava la elasticità del tasto. Poi, nella quiete mattinale, principiò il ticchettio dei tasti sulle incudinette, e ogni tanto, queste frasi suonavano monotonamente:
— Direttrice, Caserta non risponde.
— Direttrice, si va bene con Aquila.
— Direttrice, al solito, Genova chiede un rinforzo di pila.
— Direttrice, Benevento vuol sapere l’ora precisa.
— Direttrice, Otranto ha un dispaccio di quattrocento parole, in inglese.
— Direttrice, Salerno dice che vi è guasto sulla linea di Potenza.
Il sole d’inverno, ora, entrava in ufficio. Nessuna levava la testa, a guardarne, sui vetri, la striscia sottile.