Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Il romanzo della fanciulla
Lettura del testo

TELEGRAFI DELLO STATO (Sezione femminile)

II.

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

II.

 

 

A un tratto, nella taciturnità delle macchine che pareva dormissero, in quel riposo festivo pomeridiano, una lieve chiamata telegrafica s’intese. Nessuna la udì: le poche ausiliarie, malinconicamente condannate a venire in ufficio, dalle due e mezzo alle nove della sera, di Natale, facevano altro. Maria Concetta Immacolata Santaniello, con le mani in grembo, nascoste sotto il grembiule di ufficio, diceva silenziosamente il rosario; Pasqualina Morra, la poetessa, leggeva un volumettino di versi di Pietro Paolo Parzanese, libro permesso dalla direttrice; Giulietta Scarano scriveva, rapidamente, sopra un foglio di carta da telegrammi; Adelina Markò con le mani ficcate nel manicotto, una piccola pelliccia al collo, sonnecchiava; Annina Caracciolo, la indolente, guardava in aria, col suo contegno di distrazione che le risparmiava il lavoro; e le altre, chi dormicchiava, chi chiacchierava sottovoce con la vicina, chi fingeva di non aver inteso, per non muoversi. Ma la chiamata risuonò, più viva: veniva da una macchina solitaria in un angolo di tavolino. Concetta Santianello interruppe un mistero doloroso, e disse, con un tono di orazione:

Foggia chiama.

Pure non si mosse; non rendeva servigio a nessuno e non si moveva mai, senza l’ordine della direttrice, con un egoismo placido di beghina scrupolosa. E come le chiamate si facevan sempre più precipitose, le ausiliarie, per dire qualche cosa, per interrompere quel noioso silenzio, per far chiasso, dissero ognuna:

Foggia chiama, Foggia chiama, Foggia chiama, chi sta a Foggia, chi risponde a Foggia?

Zitto, zitto, eccomi qua, — disse Annina Pescara, entrando dall’anticamera e correndo alla macchina di Foggia. — È un bel seccante, Foggia!

E si mise a ricevere, tenendo alta con due dita della mano sinistra la striscia di carta e scrivendo il telegramma che era per Napoli, sul foglio bianco. Dopo le prime parole ella chiamò la sua indivisibile amica.

Borrelli, vieni qua.

La Borrelli piegò un giornaletto letterario che stava leggendo di nascosto, la Farfalla, se lo cacciò in tasca, si raddrizzò le lenti sul naso con quel moto istintivo dei miopi e corse dalla sua amica. La Borrelli, ora, leggeva anch’essa sulla striscia di carta, attentamente:

— Che imbecille! — esclamò a un tratto.

Scusa, mi pare che non sia un imbecille: vuol molto bene a questa sua innamorata; — rispose Annina Pescara, offesa nelle sue tendenze sentimentali.

— Sì, ma un uomo non si umilia così; — ribattè Borrelli, facendo la dottoressa.

Il telegramma d’amore continuava, era di cinquantanove parole, veniva da Casacalenda ed era diretto a una Maria Talamo, in Napoli, alla Riviera di Chiaia. Era un telegramma dolcissimo: l’uomo effondeva il suo amore in quel giorno di festa familiare, dolendosi della solitudine che nulla veniva a confortare, desiderando una parola di affetto dalla persona amata, giurando che nulla lo avrebbe fatto desistere da questo amore, la guerra degli uomini, le avversità del destino, il medesimo disprezzo di lei, donna adorata. Tutto questo era letto da Maria Morra che era accorsa anche lei, da Peppina Sanna che passando, si era fermata, da Caterina Borrelli e da Annina Pescara che riceveva sempre.

— Quanta rettorica! — esclamò la Borrelli.

— Questo telegramma viene da Casacalenda? — chiese la De Notaris, avvicinandosi.

— Sì, sì, — le fu risposto.

— Oh è il solito: ne giunge uno quasi ogni giorno: ne ho ricevuto anch’io, — disse la De Notaris.

— Questo è quel tale che si sdilinquisce sempre, — gridò Ida Torelli, dal suo posto; — aspetta aspetta, che voglio leggere anche io.

Erano aggruppate in dieci, attorno alla macchina di Foggia. Annina Pescara, tutta fiera, rizzava la piccola persona sulla poltroncina di tela e leggendo sulla zona, ripeteva ad alta voce, con tono solenne quelle parole appassionate. Le ragazze stavano a sentire, tutte intente: Ida Torelli, la scettica, sogghignava: Caterina Borrelli, lo spirito forte, si stringeva nelle spalle, come seccata di tante scioccherie. Ma le altre erano un po’ commosse da quella prosa telegrafica incandescente, e sottovoce già parlavano dei loro amori, più o meno sfortunati. Adelina Markò, la bellissima, aveva due o tre pretendenti che ella non poteva soffrire e invece amava un alto impiegato telegrafico, vedovo con due figli, troppo vecchio per lei, che i suoi genitori non le avrebbero mai lasciato sposare: e si torturava per questo amore, non potendo parlargli, scrivergli mai. Peppina Sanna pensava al suo bell’ufficiale di marina, dai mustacchi biondi e dai capelli ricciuti, che navigava allora nelle acque del Giappone e che sarebbe ritornato solo fra due anni. Maria Morra, la filodrammatica, amava fedelmente da cinque anni un impiegato che aspettava sempre un maggiore avanzamento per sposarla e che intanto si consolava, recitando insieme con lei la Celeste di Marenco e la farsa: Un bagno freddo. Annina Pescara, terminando di ricevere il dispaccio, pensava al suo studente di legge di secondo anno, che ne doveva studiare altri due per la laurea, altri tre per il diploma di procuratore e aspettare altri quattro o cinque per avere un po’ di clientela, o il posto di pretore in qualche paesello della Basilicata. Questi umili, onesti, ferventi amori sgorgavano da quelle anime giovanili, in quel giorno di festa, che dovevano passare in quello stanzone pieno di macchine, lontane dalla gente che amavano, lontane dai semplici piaceri famigliari. Ma, subito le discussioni cessarono. La direttrice era venuta dall’altra sala delle macchine, dov’era stata a conferire col capoturno della sezione maschile.

— Che è questo attruppamento, signorine? Ai posti, ai posti; non è permesso lasciare gli apparati. Torelli, vedete, Napoli-Chiaia vi sta chiamando e voi siete qui a discorrere! — Sanna, avete finito di copiare quel registro che vi ho dato? — De Notaris, vi è un telegramma per Potenza, datelo. — Markò, anche voi imparate a lasciare il posto? Che smania di complottare!

Direttrice, era un telegramma, — disse Caterina Borrelli, con la sua improntitudine.

— Che telegramma?

E toltolo dinanzi ad Annina Pescara, la direttrice lo lesse. Le ausiliarie che erano ritornate, tutte umiliate ai loro posti, la guardavano per leggere sul suo viso monacale, l’impressione di quel telegramma amoroso. Ma ella non fece atto di nulla e, voltate le spalle, andò a buttare il telegramma nella buca della porta, che divideva la sezione maschile dalla femminile. Ritornando, si fermò in mezzo alla stanza e disse severamente:

Signorine, ho creduto sempre di esser qui a dirigere un ufficio di fanciulle serie, di impiegate solerti che dimentichino, in questo luogo, la storditaggine e l’imprudenza giovanili. Vedo di essermi ingannata, vedo che un nulla, una scempiaggine vi distrae, v’interessa, vi fa abbandonare il lavoro. Se non mettete giudizio, le cose andranno male. Ricordatevi, signorine, che con giuramento avete promesso di non rivelare il segreto telegrafico: il miglior mezzo, è di non interessarvi punto a quello che i privati scrivono nei dispacci. Siamo intese per un’altra volta.

Un silenzio profondo: nessuna osava rispondere. Ella aveva parlato lentamente e senza riscaldarsi, senza guardare in volto a nessuna, con gli occhi abbassati. Ella non era cattiva, ma sentiva moltissimo la sua responsabilità e tremava continuamente che la sua sezione sfigurasse innanzi ai superiori. Profondo silenzio, penoso: tutte pensavano, non riprendevano le loro occupazioni, come intorpidite. Solo il tasto di De Notaris strideva, trasmettendo a Potenza le parole del dispaccio.

— Che ore sono? — domandò la De Notaris.

— Le diciassette e trenta, — mormorò lieve lieve, Clemenza Achard, la sua vicina.

E dopo:

— Le diciassette e trentuno, — gridò Ida Torelli.

Grazie, — disse la De Notaris, e segnò l’ora sul dispaccio trasmesso.

Cioè le cinque e mezzo. Era notte da mezz’ora: eppure per arrivare alle nove, ci volevano altre tre ore e mezza. Erano state accese le fiammelle di gas, ma visto che non vi era lavoro, la direttrice aveva dato ordine che si abbassassero: il direttore predicava sempre l’economia del gas. Così in quella penombra, poco si poteva leggere e poco fare l’uncinetto: le ombre della macchine si profilavano stranamente sui tavolini, con la loro ruota dove si svolgeva la carta, col piccolo braccio movibile di acciaio, con la chiave per dare la corda che pareva l’elsa a croce di una spada. Qualche punto lucido, qua e : la campanella di vetro che proteggeva il piccolo parafulmine: il bottoncino di un tasto; gli orecchini di strass di Olimpia Faraone; gli spilloni di pastiglia nera che Ida Torelli portava nei capelli biondi. Silenzio profondo: non potendo scrivere, leggere, ricamare, le ragazze pensavano.

— Che voleva poi, Napoli-Chiaia, da voi Torelli? — domandò la direttrice, dal suo posto.

— Niente, direttrice: abbiamo scambiato un niente.

— Vi ha parlato, dopo?

— Sì: ha detto che era Natale e che si seccava.

Spero che lo avrete messo al silenzio!

— Non gli ho risposto, direttrice.

Va bene.

La conversazione sulla linea, salvo affari urgenti di ufficio, era severamente proibita. Si era indulgente pei ritardi, per gli errori, per la incapacità; per la conversazione col corrispondente, non mai. Chi parlava e veniva sorpresa sul fatto, era punita prima con l’ammonizione, poi con la censura, una pena gravissima; al corrispondente, si faceva una lettera risentita dalla Direzione, per avvisarlo che non ci ricadesse mai più. Eppure era questo il peccato più frequente, commesso con maggior gusto, perchè più pericoloso. Difatti anche in quel silenzio, in quella penombra, pianissimamente, Annina Pescara parlava col corrispondente di Foggia. Costui, dopo trasmesso il telegramma amoroso, aveva subito esclamato:

— Che moccoletto si regge noi, nevvero, signorina?

E Annina Pescara aveva risposto subito che non le dispiaceva di reggere il moccolo, che l’amore era una bellissima cosa: il corrispondente aveva risposto che l’amore rende infelici tre quarti del genere umano. La discussione sentimentale ferveva sulla linea: Annina Pescara, che indovinava le parole del corrispondente, a udito, col semplicissimo rumore del coltellino che fa i segni, non aveva bisogno di lasciar correre la carta; poi, per non far udire le sue risposte in ufficio dal rumore del tasto, aveva stretta moltissimo la vite del tasto, che così non faceva più chiasso. Immersa nell’ombra, con le spalle appoggiate alla poltroncina, ella parea dormisse con una manina bianca allungata e immobile sul tasto: le sue amiche, le sue colleghe vedevano che ella parlava con Foggia, per averlo fatto altre volte anch’esse, altrove; ma chi avrebbe osato tradirla? Laggiù, anche Olimpia Faraone parlava con Reggio, come al solito: ma più imprudente, più inesperta, lasciava correre la carta, strappandola pezzo a pezzo e mettendosela in saccoccia: da venti giorni, ogni giorno parlava con quel corrispondente calabrese, che le aveva già scritto due lettere d’amore. I giorni di festa erano fatti apposta per la corrispondenza proibita: gli impiegati si seccavano nei loro uffici solitari, senza lavoro, e veniva loro la voglia di chiacchierare; le ragazze si seccavano egualmente, e quel parlare con un ignoto, a tanta distanza, lusingava la loro fantasia. Questo accadeva chetamente; ma sul volto della peccatrice si leggeva la compiacenza dell’ingannuccio che commetteva.

Pescara? — chiamò la direttrice.

Direttrice? — trabalzò colei, spaventata appoggiando la mano al tasto fortemente, per far tacere il corrispondente.

— Che, dormite?

— No, direttrice.

Domandate a Foggia, se ha niente.

Annina Pescara sorrise nell’ombra. Dopo un minuto, monotonamente:

Direttrice, niente con Foggia.

Ma Caterina Borrelli, che aveva sempre la malizia in risveglio, disse a Olimpia Faraone:

Faraone, domanda anche tu a Reggio, se ha niente.

E Faraone, tranquilla, con la voce strascicata:

— Si va bene con Reggio: non vi è niente.

La direttrice non si accorgeva di nulla. Scriveva una lettera a una sua compagna di scuola, che ora faceva la maestra rurale, in un piccolo villaggio del Molise. Le augurava buon capodanno, ricordandole i bei tempi del convitto, dicendole che era contenta del suo posto: pure la lettera era malinconica. Anche su lei, povera donna, cadeva la stessa tristezza di tutte quelle fanciulle, riunite a far nulla in uno stanzone in penombra, innanzi a una macchina silenziosa, nel giorno sacro di Natale, mentre i parenti, i cari, gli amici erano riuniti a pranzo, a giuocar la tombola e si preparavano per un ballonzolo famigliare. Ella stessa che non aveva più nessuno, sola al mondo, era presa da una nostalgia della casa, delle persone amate. Levava la testa e guardava tutte quelle ragazze immobili, chi sonnecchiando, chi con la fronte fra le mani, chi discorrendo con la vicina a voce bassa, — e non le sgridava più, sentendo la mestizia di quelle lunghe ore fredde scendere su quella gioventù: non le sgridava: le nasceva in cuore una pietà profonda di loro, di medesima.

Maria Vitale starnutò due volte.

Salute, — le disse, lieve lieve, la voce di Clemenza Achard.

Grazie, — e si soffiò fortemente il naso, — sei qui tu? Neppure ti avevo visto. Non sei dell’altro turno?

— Ho dato il cambio a Serafina Casale che preferiva venir di mattina, essendo Natale.

— E ti sei sacrificata tu?

— Non è un sacrifizio.

Era una soavissima creatura, magra, bruttina, gracile e timida, che poco sapeva lavorare e che restava sempre in silenzio, alle peggiori linee, dotata di una pazienza angelica, non lagnandosi mai, non alzando mai la voce, cercando di ecclissarsi quanto più poteva. Ella rendeva alle sue amiche una quantità di piccoli servigi, naturalmente: portava un disegno di tappezzeria per pianelle a una, un figurino di mode all’altra, un romanzo alla terza, un pezzo di musica alla quarta; si sedeva a una linea che andava male, in cambio della compagna nervosa che non ne poteva più; era sempre pronta a cambiar di turno per una, a restar due o tre ore di più in servizio per un’altra, a cedere financo il suo giorno di festa, che le toccava ogni due mesi, a qualcuna che ne la pregava; ella prestava il suo ombrello e se ne andava sotto la pioggia a casa sua; prestava il suo scialle e tremava di freddo, andandosene. Tutto questo senza pompa, con una dolcezza silenziosa, con una naturalezza affettuosa tale che le compagne finivano per non esserle più riconoscenti. Sapevano che bastava dire, per ottenere da lei qualunque di questi sacrifici:

— O Achard, te ne prego, fammi, fammi questo favore....

Ella non resisteva, diceva di sì, subito. Talvolta esse diventavano brutali con lei, che era molto educata. Infatti, Serafina Casale, il giorno prima le aveva detto:

Achard, te ne prego, lasciami venire di mattina, domani. È Natale, abbiamo gran pranzo in casa e dopo si va al teatro. Tu certo non vai in nessun posto e del Natale non te ne importa niente: dammi il cambio.

Ebbene, la mite creatura non aveva osato risponderle, che il Natale le importava molto e che da un mese pensava di andare al San Carlo quella sera: e aveva fatto il favore, a chi glielo chiedeva con poca delicatezza. Quando la direttrice lo aveva saputo, aveva detto:

Povera Achard! voi ne abusate.

Così Clemenza Achard era , accanto a Maria Vitale che aveva il naso rosso e lacrimava da un occhio pel forte raffreddore. Maria sfogava un malumore ingenuo, fisico e morale, perchè non poteva respirare e perchè doveva stare in ufficio di Natale.

Figurati, cara Achard, che ho avuto appena il tempo di ascoltare le tre messe di Natale alla chiesa dei Pellegrini, poi siamo andate con mammà, mia sorella e Gennarino, dalla comare, donna Carmela, che è panettiera e ha tanti denari. Ci ha dato il caffè: ma che caffè! mi pareva veleno: questo catarro non mi fa provare più nessun sapore e poi il pensiero di dover venire in ufficio alle due e mezzo! Ho pranzato sola, all’una e mezzo, sopra un angolo di tavola: un piattino di maccheroni ed un pezzetto di stufato: poi un mostacciuolo, che la comare mi aveva regalato. Tutta la famiglia mia avrà pranzato insieme, verso le tre, poi sono andati al teatro di giorno, al Fondo: si fa La figlia di madama Angot. Beati loro che si divertono! Alle nove saranno già a casa e andranno a dormire, essi che hanno avuto la consolazione di godersi il Natale.

— Se papà tuo ti viene a prendere alle nove, perchè non ti fai condurre a teatro?

— Sì! A quell’ora? con tutta la buona volontà, sono così stanca, che ho un solo desiderio: dormire. O Achard, il lavoro mi è piaciuto sempre, anche per portare a casa quei quattrini, per sollevare papà che ha l’asma, dalla soverchia fatica, per confortare mammà che ha perso la salute coi figli; ma questa è una vita troppo dura. Quando tutti si godono la festa, noi in ufficio: il Padre Eterno si è riposato il settimo giorno, e noi non riposiamo mai. Se cadiamo ammalate e manchiamo all’ufficio, ci trattengono le giornate alla fine del mese, come non si fa colle serve; se manchiamo per volontà, non ci pagano e ci sgridano. Noi non sappiamo più che siano Pasqua, Natale, carnevale. Ci danno le ottantaquattro lire, alla fine del mese? E tutto questo lavoro? Niente, niente, questa è la schiavitù.

Perchè non hai fatto la maestra? — domandò Achard, dopo aver sospirato.

— Ero troppo stupida, — disse Maria chinando il capo, — facevo sempre degli errori di ortografia nel cómpito di lingua italiana e non capivo l’aritmetica.

— E che vuoi farci, allora? Pazienza ci vuole. O Natale o un altro giorno, non è la stessa cosa? Poi, chi soffre per un dolore, chi per un altro.

— Anche tu, povera Achard, avrai dei guai. La matrigna ti tormenta?

— No, no, — disse quella subito, ma con voce tremante, — la matrigna è buona.

— Non hai un fratello militare?

— Sì, sì, a Pavia.

— È venuto in permesso?

— Non ha potuto averlo.

— Avrà anche lui fatto il Natale solo, poverino. È per lui che ti dispiace?

Clemenza Achard scosse il capo, come per dire di no, ma le lacrime le scendevano per le guancie, lente lente, senza singulti. Maria Vitale vedendola piangere, contristata per , per la compagna, affogata dal raffreddore, cominciò a singhiozzare fortemente.

— Che avete, Vitale? Perchè piangetedomandò la direttrice.

— Niente, niente, — borbottò quella fra i singhiozzi, lamentandosi, tossendo, soffiandosi il naso.

— Come, niente? Perchè piangete? Dite.

Piango perchè ho il raffreddore, ecco, — fece l’altra, con un dispetto bambinesco.

Fortunata te, che non hai altri motivi di piangere, — mormorò Giulietta Scarano.

— Sei una fanciullona, Vitale, — intervenne Annina Pescara, — respira dell’ammoniaca per guarire.

— Ma che! è meglio una buona tazza di thè, — suggerì Peppina Sanna.

— Non dare ascolto, Vitale, — gridò Ida Torelli, — cacciati sotto le coperte e cerca di sudare questa notte: domattina sarai guarita.

Vitale, non far nulla di questo, figlia mia, — disse Caterina Borelli, ridendo.

Vi fu un movimento in ufficio. Napoli-prefettura aveva comunicato una circolare all’ufficio centrale, in cui si avvisavano tutti i prefetti e sottoprefetti del regno di sequestrare il numero 358 del giornale La Spira, poichè il suo articolo intitolato: Il Monarcato, che cominciava con le parole: sino a quando, e finiva con le parole: in un mare di sangue, conteneva voti contro l’attuale ordine di cose, insultava le istituzioni ed eccitava gli spiriti alla rivolta. Subito le fiammelle del gas furono rialzate, i tasti cominciarono a stridere. Campobasso, Avellino, Cassino, Pozzuoli, Castellamare, Salerno, Caserta, Benevento, Reggio, Catanzaro, Aquila, Foggia, Bari, Bologna, Genova, Venezia, Ancona, Cosenza, Casoria, Potenza, Sora, Otranto, furono pronti a ricevere la circolare del sequestro: per cinque o sei minuti l’ufficio si rianimò, un fracasso di trasmissione si diffuse per le due stanze, come un giocondo rinascer di attività. Indi un minuto di pausa e di silenzio: quindi uno stridìo metallico dei coltellini, i corrispondenti che ripetevano tutti, a Napoli, il numero del telegramma, il titolo del giornale, il suo numero, il titolo dell’articolo, le parole con cui principiava e con cui finiva, insomma le cose più importanti, per evitare errori. Qualche voce domandò che ora fosse e fu risposto: ore diciannove. Le fiammelle furono riabbassate, le ausiliarie si distesero di nuovo nelle poltroncine, riprendendo il filo del loro discorso o dei loro pensieri. Il corrispondente di Catanzaro aveva subito detto a Maria Morra, dopo il telegramma del sequestro:

Valeva la pena di scomodarci per così poco!

— Che, scherzate? Chissà che vi sarà in quell’articolo, — aveva risposto Maria Morra.

Discussero di politica: Maria Morra odiava i repubblicani, li chiamava straccioni, il corrispondente era socialista. Il corrispondente di Cassino anche aveva mandato al diavolo il telegramma, dicendo a Clemenza Achard che per rispondere presto, aveva ingoiato di traverso un bicchierino di rosolio e che ora tossiva come un dannato. Clemenza Achard era tutta confusa, non osando intraprendere una conversazione proibita e temendo di sembrare ineducata al corrispondente, se non gli rispondeva. Non sapendo che fare, battè un colpettino sul tasto, un puntino solo, timido timido: e Cassino, visto che la conversazione non attecchiva, si tacque. In quel momento dalla piazza della Posta, dove già si udivano i primi scoppi di trictrac e delle bombe natalizie, salì alla sezione femminile un lungo, dolcissimo fischio. Peppina De Notaris, malgrado la sua presenza di spirito, arrossì nel suo delicato volto di bruna, e tutte le ausiliarie, più o meno, chi trasalì, chi sorrise. La sapevano tutte, quella appassionata leggenda dell’innamorato di Peppina De Notaris. Era un giovanotto bruno e sottile come lei, impiegato al municipio: adorava Peppina. Restava in ufficio fino alle cinque: e se ella era libera nel pomeriggio, andava da lei e vi restava fino alle sette, l’ora del suo pranzo: vi ritornava dopo pranzo, subito. Ma quando ella di servizio nel pomeriggio, egli pranzava in fretta e si andava a ficcare nel piccolo caffè della Posta, dirimpetto al palazzo Gravina. Ogni mezz’ora fischiava lungamente, dolcemente, come a dire: eccomi, sono qui, ti voglio bene. In quel piccolo caffè non vi era mai nessuno e l’innamorato di Peppina che vi restava tre o quattro ore, leggeva tutti i giornali, parlava col padrone, col cameriere, si era fatto amico con tutti. Di estate sedeva sulla porta e parlava coi conduttori dei trams, che aspettavano i passeggieri per partire per Posillipo. E, puntuale, non si dimenticava mai di fischiare, ogni mezz’ora, come per dire: consolati, bella mia, io son qua, ti voglio bene, non ho il coraggio di andare a divertirmi, mentre tu lavori, io ti aspetto, abbi fede, abbi pazienza. La soave leggenda sentimentale circolava nella sezione femminile: e il fischio lo aspettavano tutte, come se fosse un interesse affettuoso proprio. Alle nove Peppina De Notaris era la prima ad andarsene, salutando in fretta: fuori trovava suo padre che l’aspettava, per ricondurla a casa: ma giù, sotto i portici del cortile, per non dare all’occhio, l’innamorato passeggiava. Si scambiavano un buonasera, sottovoce: e se ne andavano in tre, discorrendo piano di quello che era avvenuto il giorno nella sezione femminile e nell’ufficio municipale. Egli non mostrava impazienza, stanchezza per aver tanto atteso, in un caffè solitario, a non far nulla: ella lo guardava con una tenerezza infinita, senza ringraziarlo.

Signorine, — avvertì la direttrice, — non dormite, perchè a momenti sarà qui il direttore.

Quelle che facevano l’uncinetto, lo riposero, avvolgendolo in un pezzetto di giornale: quelle che leggevano, chiusero i libri. Pasqualina Morra riportò il volumettino delle poesie di Parzanese alla direttrice, che glielo aveva prestato: ella era la prediletta, perchè non parlava, perchè non si muoveva dal suo posto e per aver pubblicato dei versi a una viola, in una strenna religiosa. Maria Immacolata Concetta Santaniello, detta la bizzochella, per farsi merito, si mise a leggere la convenzione di Pietroburgo, per il servizio telegrafico internazionale. La prima a muoversi dal suo posto per andare dalla direttrice, fu Cristina Juliano.

Direttrice, — disse ella piegandosi sulla scrivania e fissandola col suo occhio tondo, bianco e guercio, — ora che viene il direttore, ditegli che mi faccia andar via mezz’ora prima.

— E perchè?

— È Natale: e debbo andar a ballare.

Andate a una festa? — chiese la direttrice guardando il vestito di lanetta bigia, poverissimo, e la sciarpa al collo scarno, di ciniglia rossa.

Balliamo a casa mia, — rispose l’ausiliaria,— siccome affittiamo stanze a certi studenti

— Quando verrà il direttore, glielo dirò.

Cristina Juliano tornò al suo posto, dimenando il lungo corpo mascolino. Venne la volta di Caterina Borrelli:

Direttrice, ora che viene il direttore, ditegli che vorrei andar via mezz’ora prima.

— Anche voi ballate?

— Io debbo andare al Sannazaro, alla prima rappresentazione della Marini.

— Che si recita?

— La Messalina, di Cossa.

La direttrice aggrottò le sopracciglia.

— .... glielo dirò, — soggiunse poi, con voce secca.

— Anche per Annina Pescara? Io non vado in nessun posto, senza lei.

— Mi pare che ne vogliate troppo, Borrelli.

Due o tre altre andarono a chiedere questa mezz’ora, miserabili trenta minuti implorati come una grazia. Adelina Markò andava a S. Carlo; Olimpia Faraone andava a ballare anche lei. La direttrice prometteva di dirlo, d’intercedere: non poteva far altro; ma erano troppi i permessi. Tutte quelle che li avevano chiesti, ora, guardavano continuamente verso la porta donde soleva entrare il direttore. Era un piemontese severo, talvolta duro, che comandava alle telegrafiste come a un plotone di soldati, e la cui collera fredda e il rigore settentrionale, sgomentava le più audaci. Egli pranzava da vero allobrogo, al Wermouth di Torino in piazza Municipio, e dopo capitava sempre in ufficio, per il controllo serale: entrava sempre di sorpresa, arrivava alle spalle, non salutava che la direttrice e ronzando attorno ai tavolini delle macchine, vedeva tutti i ritardi, le disattenzioni, le trascuranze, le macchine insudiciate di inchiostro azzurro stampante, i tasti troppo alti, quelli troppo bassi, i registri mal tenuti, i fogli di carta telegrafica disordinati. A bassa voce, guardando bene negli occhi l’ausiliaria, egli faceva in pochissime parole l’osservazione: l’ausiliaria chinava gli occhi, non rispondeva, cercava subito di riparare il proprio errore. Sulle prime, qualcuna aveva tentato scusarsi; ma egli girava sui tacchi, le voltava le spalle e tirava via, come se non avesse udito, non ammettendo, per principio, che si discutesse con lui. Di giorno, col sole, questo direttore pareva meno terribile; ma di sera, nella penombra, con quegli occhi nerissimi e fieri d’inquisitore, con quel suo ronzare fra le macchine, con quella voce cheta cheta che non voleva risposta, con quel suo abbrancare improvviso del registro, del tasto, dei dispacci fermi, egli aveva qualche cosa di fantastico, egli faceva terrore. Di giorno lo chiamavano il papa per l’infallibilità; lo chiamavano mammone, che è lo spauracchio dei bimbi napoletani; ma di sera non lo chiamavano che il direttore, e queste quattro sillabe, soffiate più che dette, facevano agghiacciare il sangue. Ma giungevano sino a desiderare la sua presenza: almeno per guadagnare mezz’ora!

Vedrai che questa sera il direttore non viene e noi schiatteremo qui, sino alle nove, — disse Caterina Borrelli ad Annina Pescara.

Dove sarà, che non viene?

Festeggerà il Natale; pranzando con la vice-direttrice.

Borrelli, sei maligna.

— Che maligna? si sposano: non lo sai?

Annina Pescara confidò subito la notizia a Ida Torelli, la diceria circolò a voce sommessa. La discussione era: la vice-direttrice può conservare il suo posto, maritandosi? Le ausiliarie, secondo il regolamento, non potevano; ma il regolamento si estendeva alla direttrice e alla vice-direttrice? Chi opinava di sì, chi negava.

Vedrete, vedrete che si marita e resta qui; — sostenne Olimpia Faraone. — Ci divertiremo assai, fra il marito e la moglie.

— Ma che? la vice-direttrice è un po’ nervosa ma non è cattiva, lo sapete; — disse Peppina Sanna.

— È buona, è buona, — soggiunse Caterina Borrelli; — bisogna conoscerla bene, per apprezzarla: io sono stata nel suo turno e lo so.

— Ma non rimarrà qui, dopo il matrimonio, — disse Peppina De Notaris; — si farà un concorso fra le migliori, per il posto di vice-direttrice.

Chi, chi poteva riescire? Quale nuova volontà avrebbero dovuto subire? Serafina Casale, forse, superba, sdegnosa, prepotente? O se fosse riescita Adelina Markò, così bella, così gentile, quello sarebbe stato un piacere grande per tutte: ma ella non avrebbe accettato, doveva maritarsi, un giorno o l’altro, era una impiegata provvisoria, di passaggio. Caterina Borrelli? svelta, intelligente, ma troppo vivace, troppo tumultuosa, faceva troppe satire contro i superiori, non l’avrebbero mai nominata. Pasqualina Morra, la poetessa? Troppo giovane, molle, floscia, senza energia, senza prestigio.

Signorine, signorine, un po’ di silenzio.

Erano le otto e un quarto: questa ultima ora, dalle otto alle nove, sembrava di una lunghezza interminabile. Quelle che avevano chiesto il permesso, erano prese da una esasperazione nervosa: il direttore non veniva, no, e avrebbero dovuto agonizzare sino alle nove.

— O direttrice, quando viene il direttore.! — esclamò, con accento desolato, la Borrelli.

— Eccolo qua: vuole qualche cosa? — le chiese una voce, alle spalle.

La Borrelli, malgrado la sua improntitudine, rimase interdetta. Il direttore si arricciava il mustacchio, come aspettando, guardandola freddamente, con la dominazione tranquilla degli uomini che non subiscono la femminilità.

— .... nulla, grazie; — mormorò stupidamente la Borrelli.

Il direttore, come al solito, girava attorno ai tavolini, con una lentezza che faceva fremere d’impazienza quelle che volevano andar via prima: leggeva i registri, a lungo, come se li studiasse; leggeva l’ora di tutti i telegrammi fermi, per la chiusura festiva degli uffici. Markò, Borrelli, Juliano, Pescara, le altre, guardavano supplichevolmente la direttrice, quasi la implorassero di alzarsi dal suo posto, di raggiungere il direttore, di chiedergli quel benedetto permesso. Erano le otto e mezzo. La direttrice non capiva o fingeva di non capire: ella sapeva di non dover interrompere il direttore nel suo controllo. Quei minuti che passavano, sembravano eterni. Ad un momento disperarono: il direttore aveva preso un telegramma di transito, alla linea di Terracina e se n’era andato verso la porta a tamburo della sezione maschile.

— Se ne va e non abbiamo il permesso, — pensarono.

Era un falso allarme: egli ritornò subito, e questa volta, andò direttamente alla scrivania della direttrice. Le parlava sottovoce, senza gestire, ma con una forza e una intensità che trapelavano: ella ascoltava tutta intenta, con gli occhi abbassati, una mano bianchissima allungata sulla scrivania, l’altra che le reggeva la guancia: ogni tanto le palpebre le battevano, come se approvasse. Ella non rispondeva, però: ed egli seguitava a discorrere, energicamente, senza alzar la voce. Le ragazze che avevano chiesto il permesso fremevano, come se quell’ultimo quarto d’ora rappresentasse la loro salvazione. Ogni volta che la direttrice apriva la bocca, trasalivano: ma ella diceva due e tre parole, come se fosse una obbiezione, che il direttore subito ribatteva, ricominciando la sua perorazione. Alle otto e cinquanta, Caterina Borrelli, non potendone più, disse sottovoce:

— Al diavolo Galvani, Volta, la bottiglia di Leyda, la pila di Daniell, il solfato di rame e la emancipazione della donna....

Aquila la buona notte, — disse Adelina Markò, forte.

Rispondetegli subito che va male il suo orologio, che mancano dieci minuti alle nove, che, per sua regola, non si permetta più di dare la buona notte, e che l’aspetti da Napoli, — ribattè il direttore.

Otto e cinquantacinque. Addosso a tutte quelle fanciulle era piombata la grande stanchezza finale, l’aridità di sette ore passate in ufficio a compire un lavoro scarso e ingrato. Stavano immote, senza aver più neanche la forza di levarsi su per andarsene: avevano intensamente desiderata quell’ora delle nove, si erano consumate in quel desiderio e adesso, esaurite, senza vibrazioni nervose, stracche morte dall’aspettazione, dall’ozio e dalle chiacchiere vane, non desideravano più niente. Quelle che dovevano ritirarsi a casa, pensavano alla cena e al letto, con un bisogno tutto animale di mangiare un boccone e di sdraiarsi: quelle che dovevan andare al teatro, a ballare, rifinite, esauste, spezzate in tutte le giunture, non avevano più nessuna vanità, non provavano più nessun stimolo.

— Io resto qui sino a mezzanotte, — borbottò Borrelli a Annina Pescara.

— E perchè?

— Per gusto.

Napolj-Chiaja la buona notte.

Mancano tre minuti alle nove: aspetti, — rispose il direttore, con una grande severità, questa volta.

Finalmente la voce liquida della direttrice:

Ore ventuno: signorine, date pure la consegna.

Le telegrafiste sfilarono, a una a una, senza fretta salutando solo la direttrice, poichè il direttore non voleva essere salutato. Nell’anticamera, rischiarata da una vacillante fiammella di gas, innanzi agli armadietti aperti, esse s’infilavano i paltoncini, si avvolgevano al collo le sciarpe, mute, il viso concentrato e chiuso nella indifferenza, in un abbrutimento dello spirito. Olimpia Faraone, innanzi allo specchio di mezzo, con certi colpi di piumino, si metteva della cipria nei capelli biondi e le altre non la invidiavano: la guardavano, un po’ meravigliate, che avesse ancora voglia di acconciarsi. Ma la sua civetteria, tutta languori, si compiaceva di quello stato di abbattimento. Adelina Markò aveva portato un corpetto di velluto nero, per indossarlo alla fine del servizio; ma, ora, il desiderio le era passato, e, tolte da un bicchiere d’acqua due camelie bianche, se le aggiustava sul petto, nella ricca cravatta di merletto; e tutta la bella persona, dalle dita molli e fiacche, che non giungevano a conficcare uno spillo al leggiadro collo biondo e flessuoso, indicava una stanchezza infinita. Esse uscivano di , salutandosi fiocamente, senza baciarsi, come istupidite, con la faccia rilasciata nella fatica: fuori le madri, i padri, i fratelli le aspettavano, per ricondurle a casa.

— Che è? — chiedeva la madre di Giulietta Sorano alla figliuola.

— Niente, mammà.

— Ti senti male?

— No: sono stanca.

Maria Vitale se ne andava, col padre, tutta incappucciata nella mantiglia che le aveva prestata Clemenza Achard: Maria Vitale piegava la testa sotto il peso plumbeo del raffreddore e respirava profondamente, per vincere l’oppressione del petto. Le ausiliarie si allontanavano per le vie della Posta, di Monteoliveto, di strada Nuova Monteoliveto, di Trinità Maggiore, strette nei paltoncini, ombre dileguantesi nell’ombra, un po’ curve, come se una improvvisa vecchiezza le avesse colpite.

 

 

 


«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on touch / multitouch device
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2011. Content in this page is licensed under a Creative Commons License