Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Il romanzo della fanciulla
Lettura del testo

TELEGRAFI DELLO STATO (Sezione femminile)

III.

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III.

 

 

L’editto del direttore, in forma di lettera alla direttrice, diceva così: — che pel giorno di domenica, 8 aprile, erano indette le elezioni generali politiche e pel giorno di domenica, 15 aprile, le elezioni di ballottaggio: che in quelle due settimane, ma specialmente sabato, domenica, lunedì, vi sarebbe stato un grandissimo affollamento di telegrammi, su tutte le linee, importanti e non importanti: che quindi si rivolgeva allo zelo delle ausiliarie, per sapere se volessero prestarsi a un servizio straordinario, di due, tre, quattro ore, oltre le sette del servizio ordinario: che tutte quelle che volessero dare questa prova di amore al lavoro, si firmassero sotto quella carta; che si lasciava, per questo, intiera libertà, non volendo obbligare nessuno. — Questo editto era stato letto in forma solenne, alle due e mezzo, innanzi tutte le ausiliarie riunite, presenti direttrice e vice-direttrice. Le fanciulle ascoltavano, trasognate, con la sensazione di un grosso colpo nella testa, incapaci di decidersi: vi era tempo due giorni. E il fermento di ribellione nacque subito, si sviluppò in ufficio, nella strada, nelle case. No, non volevano prestar servizio straordinario. Era una oppressione, un martirio anche quell’ordinario: farne dell’altro? Niente affatto. Perchè, per chi? Le trattavano come tante bestie da soma, con quei tre miserabili franchi al giorno, scemati dalle tasse, dalle multe, dai giorni di malattia: e invece, esse avevano quasi tutte il diploma di grado superiore e al telegrafo prestavano servizio come uomini, come impiegati di seconda classe, che avevano duecento lire il mese. Farsi un merito? Ma che, ma che! Chi le avrebbe considerate? Non erano nominate con decreto regio, con decreto ministeriale: un semplice decreto del direttore generale, revocabile da un momento all’altro. Se le telegrafiste facevano cattiva prova, le potevan rimandare a casa tutte, senza che avessero diritto di lagnarsi. L’avvenire? Quale avvenire? Erano fuori pianta, non avevano da aspettar pensione: anzi, diceva il regolamento, che a quarant’anni il Governo le licenziava, senz’altro: — cioè se avevano la disgrazia di restar telegrafiste sino a quarant’anni, il Governo le metteva sulla strada, vecchie, istupidite, senza sapere far altro, consumate nella salute e senza un soldo. Tutte quelle lagnanze sorde che correvano negli animi giovanili, incapaci di sopportare il giogo burocratico, salivano alle labbra, amarissime, e tentavano lo spirito delle più serene: tutti i piccoli torti, tutte le piccole ingiustizie, tutte le piccole sofferenze, prendevano voce, si rinfocolavano nel ricordo, gli spiriti depressi si sollevavano in quel flusso di parole, in quelle frasi che venivano ripetute venti volte, in quelle doglianze monotone come un ritornello. In casa di Caterina Borrelli discutevano Annina Pescara, Adelina Markò, Maria Morra, Sofia Magliano; in casa di Olimpia Faraone complottavano Peppina Sanna, Peppina De Notaris, Ida Torelli. Le amiche si davano convegno, per mettersi d’accordo. Si litigava dapertutto, fra quelle feroci e quelle miti: fra le ribelli aggressive che consigliavano di non andarci punto in ufficio, per lasciare i superiori nell’imbarazzo, e le ribelli passive che intendevano solo prestare il servizio ordinario. I parenti, i fidanzati, gli amici s’interessavano a quella grande questione, parteggiavano chi per una ribellione intiera, chi per un contegno indifferente, nessuno consigliava il servizio straordinario. Le ausiliarie si sentivano pregate dalla direzione, si sentivano le più forti: volevano mostrare di aver carattere.

Ma quando fu il giorno e l’ora della firma, sotto quel grande foglio bianco, avvenne un curioso fenomeno psicologico, tutta una rivoluzione in quegli spiriti. E in processione, silenziose, con un’aria decisa e un contegno fiero, ognuna andò a scrivere qualche cosa. La prima, Rachele Levi, una israelita, piccola, bruttissima, sempre piena di gioielli, scrisse che avrebbe ogni giorno prestato un’ora di più di servizio. Grazia Casale, la bruna grassotta, tutta profumata di muschio, scrisse che avrebbe prestato servizio per e per sua sorella Serafina, che era inferma. Adelina Markò, sarebbe rimasta di giorno sino alle cinque e ogni sera sino a mezzanotte. Emma Torelli: farebbe cinque ore di servizio straordinario ogni giorno. Ida Torelli: come sua sorella. Peppina De Notaris: sarebbe venuta alle sette, andata via a mezzogiorno; ritornata alle quattro, andata via a mezzanotte. Peppina Sanna: farebbe il servizio completo dalle sette del mattino alle nove della sera: chiedeva solo due ore per andare a pranzo. Maria e Pasqualina Morra: sarebbero venute dalle sette del mattino a mezzanotte, chiedevano due ore per andare a pranzo. E così tutte le altre, di ambedue i turni, senza eccezioni, salirono di offerta in offerta, sin a che l’ultima, Caterina Borrelli, scrisse col suo grosso carattere storto, questa dedizione completa: sono a disposizione della direzione. Ma sotto queste ultime parole fu attaccato un pezzettino di lettera: Maria Vitale scriveva da casa sua, dal letto, dove la bronchite l’aveva gettata per la terza volta, che sentendosi meglio, avrebbe fatto tutto il possibile, per venire a fare il suo dovere.

 

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Che giornata fu quella di domenica, otto aprile! Alla mattina piovvero, come fitta gragnuola, telegrammi di candidati ai grandi elettori, ai sindaci, ai segretari comunali, raccomandandosi: le ultime, ferventi, pie raccomandazioni: — telegrammi umili, ardenti, pieni di concessioni precipitose e di promesse disperate. Poi una circolare politica, del Ministero dell’interno, l’ultima, a tutti i prefetti e sottoprefetti del regno, in cifra, quattrocentosettantadue gruppi di numeri, una fatica immensa, con la paura continua di un errore di cifra che avrebbe guastato il senso del dispaccio: e per ogni cifra sbagliata, l’impiegato paga sei lire di multa. Ma l’accesso di febbre telegrafica fu a mezzogiorno. Da tutti i comunelli, da tutti i grossi comuni, da tutti i capoluoghi, da tutte le sottoprefetture e prefetture, arrivavano i risultati delle frazioni, al ministro, alla Stefani, ai giornali, ai candidati, agli amici dei candidati, ai capopartiti, alle associazioni politiche: e subito dopo, telegrammi privati di commenti, di sfiducia, d’incoraggiamento, di speranze moribonde, di trionfo, di congratulazione, di aspettazione, di bestemmie, di amarezza, di scetticismo. Alle tre del pomeriggio l’accesso febbrile divenne furioso. Nella sezione maschile erano attivati quattro fili con Roma, due più dell’ordinario, e il ritardo era di tre ore; con Firenze, con Milano, con Torino, vi era un ingombro tale di dispacci, che si contavano a serie di dieci. Tutte le macchine, Morse, Siemens, Hughes, doppia Hughes, Steele, erano in movimento: i due capoturni erano presenti, andando e venendo, come sonnambuli, col sigaro spento, un fascio di telegrammi in mano. La porta di comunicazione con la sezione femminile era semiaperta, caso nuovissimo, ma nessuno si voltava. Nella sezione femminile erano presenti tutte le ausiliarie, ognuna a una macchina; la direttrice andava e veniva. La vice-direttrice, piccolina, coi capelli corti, una testolina simpatica di garzoncello svelto, correva da una macchina all’altra, riordinando dispacci, regolando i sistemi di orologeria, dando l’inchiostro, lesta come uno scoiattolo, le mani pronte, l’occhio vivo, la parola alta e breve. I telegrammi nascevano, sgorgavano, spuntavano da tutte le linee; su tutte il ritardo era di tre ore, i telegrammi da trasmettere si ammonticchiavano, formavano fasci, manipoli, cumuli; mentre se ne trasmetteva uno, ne arrivavano cinque da trasmettere, mentre si finiva di trasmettere una serie di dieci, ne restavan fermi cinquantadue. Le ausiliarie erano prese dalla febbre, che ogni ora saliva di grado. Alta, seduta sul seggiolone, col vestito coperto da un grande grembiale nero, Adelina Markò lavorava alacremente alla macchina Hughes, con Genova, trasmettendo con una lestezza di dita di pianista emerita, con uno scricchiolio rapidissimo di tutto quell’ingranaggio, dando la corda al congegno con certi colpi potenti del piede diritto, i capelli rialzati sulla testa per non aver fastidio sulla nuca, le maniche rimboccate per poter trasmettere più facilmente: accanto a lei, Giulietta Scarano aveva appena appena il tempo di registrare i dispacci. Maria Morra sedeva sull’alto seggiolone, anche a lei, alla linea di Bari: un ciuffo di capelli le scendeva sopra un occhio, aveva una macchia d’inchiostro azzurro sul mento, il goletto sbottonato perchè si sentiva soffocare, due macchie rosse sui pomelli: ogni tanto, Emma Torelli le dava il cambio, per farla riposare un po’, registrando i dispacci, classificandoli, facendo tutto il servizio di segreteria. Fra le coppie di hughiste, ambedue egualmente responsabili della linea, vi erano questi brevi dialoghi, senza lasciar di trasmettere e di scrivere.

— Quanti ce ne sono ancora?

Quarantatrè.

— E che ritardo?

— Due ore e cinquanta.

Madonna santissima!

Sulla linea poi, col corrispondente:

— Quanti ne avete?

Sessantaquattro, — era la risposta recisa.

Esse impallidivano. La moltiplicazione dei telegrammi era miracolosa, tutti telegrafavano, ora. Si era dovuto attivare un quinto filo con Roma e — onore insperato — lo aveva la sezione femminile, che sin’allora non aveva mai corrisposto con la capitale. A quel filo, macchina Morse, si riceveva soltanto: vi era stata messa quella che riceveva meglio, la Borrelli. Con le lenti fortemente piantate sul naso, una gamba incavalcata sull’altra, come un uomo, con un movimento nervoso della bocca, senza mai levar la testa, senza muoversi, senza voltarsi, ella riceveva sempre, indovinando le parole dalla prima sillaba, finendo di scrivere il telegramma prima che il corrispondente finisse di trasmetterlo. Dopo averne ricevuti quindici o venti, ella lo interrogava:

— Ne avete molti, ancora?

— Moltissimi.

— Quanti saranno?

— Una settantina.

Date.

E ricominciava a ricevere, con la bocca arida, le dita sporche di inchiostro sino alla prima falange. Poi, presa da una specie di delirio telegrafico, diceva al corrispondente: trasmettete più presto, io so ricevere. Quello affrettava la trasmissione, rapidissima, di una velocità quasi irraggiungibile e quella lo aizzava, lo spronava, come il fantino al cavallo da corsa, dicendogli ogni tanto: più presto, più presto, più presto.

Sulla linea Napoli-Salerno, lo spettacolo era diversamente meraviglioso. Il corrispondente di Salerno era il migliore impiegato di quell’ufficio: e corrispondeva con Peppina Sauna, una delle più forti, se non la più forte, della sezione femminile. La mattina si erano scambiata una sfida gioconda, da campioni valorosi, si erano salutati come due schermitori di prima forza: e il torneo era cominciato. Alternavano trasmissione e ricevimento, a partite eguali, di un dispaccio: appena il corrispondente dava la firma del suo dispaccio, Peppina Sanna aveva la mano sul tasto per dare il proprio. Era un alternarsi di rumori: ora il tasto di Napoli, rapidissimo, saltellante, sotto la ferma mano di Peppina, ora il coltellino che riceveva la trasmissione di Salerno, che ballava, ballava con un ticchettìo infernale. Si eccitavano, a vicenda: che tartaruga siete! — esclamava Peppina Sanna. — Ah, sono tartaruga? — gridava il corrispondente e correva correva come un indiavolato, per vedere di sbigottirla. — Credete di spaventarmi? — esclamava lei e precipitava talmente la propria trasmissione, che non pareva possibile egli arrivasse in tempo a riceverla.

Svelte, signorine, svelte, — strillava la vice direttrice.

— Abbiamo un grave ritardo, — mormorava la direttrice, girando attorno ai tavoli.

Anche il direttore, andava e veniva, ma muto, serio, senza fare osservazioni, passeggiando come un leone nella gabbia. Non diceva niente, vedeva tutto: la faccia pallida di Annina Pescara che sedeva da dieci ore alla linea di Reggio e crollava ogni tanto il capo, come se non potesse reggerlo; la pazienza angelica di Clemenza Achard, che combatteva con sette piccoli uffici sulla sua linea, che tutti avevano telegrammi e tutti volevano avere la precedenza; il tormento di Ida Torelli che si dannava alla linea Napoli-Ancona-Bologna, ella aveva sessanta dispacci, Ancona e Bologna perdevano il tempo a litigare fra loro; la perizia di Peppina De Notaris che arrivava a intuire, più che a leggere, la trasmissione del corrispondente di Catanzaro, una bestia che non sapeva trasmettere. Egli dava le volte come il leone, ma non diceva niente: le ausiliarie erano tutte svelte, tutte intelligenti, quel giorno: quell’ambiente, quell’eccitamento avevano sviluppato in loro qualità nuovissime. Si soccorrevano, con amore, scambievolmente, d’inchiostro, di penne, di carta; le più disadatte alla corrispondenza, registravano, mettevano l’ora ai dispacci, contavano le parole, mettevano i rotoli di carta, raccoglievano i telegrammi trasmessi. Non vi erano più distinzioni di turno, di antipatie, di valori: si assistevano fraternamente, arse dal desiderio di far bene. Alle otto della sera di quella domenica, le ausiliarie telegrafiche, tutte presenti, senza aver fatto colazione, senza aver pranzato, seguitavano a trasmettere, a Hughes, a Morse, seguitavano a ricevere, fra un fascio di telegrammi già dati e un fascio da darsi, con gli occhi lustri, le trecce disfatte, la mano nervosa che forte stringeva il tasto, e la voce velata che chiedeva, ogni tanto

— Vi è ingombro, ancora?

 

 

 


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