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IV.
Dopo un ottobre dolcissimo, con un sole tepido di primavera, e una grande fioritura di rose, il primo novembre, giorno dei Santi, un bianco strato di nuvole aveva coperto il cielo e nel pomeriggio era venuta la fine pioggia autunnale, la pioggia che bagna sempre il pietoso pellegrinaggio della gente che va al camposanto, il giorno dei morti. E per tutta la prima settimana di novembre piovve sempre, con qualche intervallo in cui la pioggia smetteva, come per stanchezza: ma insensibilmente, dopo mezz’ora le goccioline ricominciavano a cadere, lente, rade, poi s’infittivano venendo giù, per due o tre ore, con una monotonia di rumore che addormentava. Nell’anticamera della sezione femminile, gli ombrelli aperti lucidi d’acqua, gocciolavano dalle punte delle balene appoggiate al suolo: sulla spalliera del divano di tela russa e su qualche sedia si asciugavano certe mantelline bagnate, certi scialletti che la pioggia faceva stingere; finanche sopra una macchina Hughes che serviva per l’istruzione, era disteso un waterproof nerognolo, chiazzato da larghe macchie nere di acqua. Le più prudenti, appena entrate, si cambiavano gli stivaletti, mettendone un paio di vecchi, che conservavano nell’armadietto: ma alla fine dell’orario, era difficile calzare nuovamente quelli che l’umidità aveva fatto restringere. Da che erano venute le pioggie, la colazione di quelle che potevano spendere, non era più composta della granita di limone che si risolveva in un liquido acidulo e verdastro, in cui s’intingeva un panino da un soldo: col novembre si prendeva il cioccolatte, una bevanda nerastra, pesante, caldissima, che bruciava la lingua e lo stomaco. Gabriella Costa, la piccola Lavallière, detta così pel suo bianco volto ovale e malinconico, per i riccioli biondi della fronte e delle tempia, diceva, lamentandosi dolcemente, che in quel cioccolatte vi era del mattone pesto. Questo incidente delle colazioni era un eterno soggetto di lite fra Gaetanina Galante, la inserviente, e le ausiliarie: esse non pagavano giorno per giorno, facevan conto, mangiavan biscotti e paste; alla fine del mese, quando essa presentava il conto di dieci, quindici lire, financo, esse torcevano il muso: le più educate tacevano, le più pettegole dicevano che vi doveva essere errore certamente, non avevano mangiato mai tutta quella roba. Ma con Gaetanina Galante era difficile di averla vinta, tanto era insolente e ineducata: aveva già fatto un bel gruzzolo coi guadagni delle colazioni e a certune aveva prestato dei quattrini, con l’interesse: poco, venti, trenta lire, cinquanta lire, che esigeva a rate mensili di cinque lire, di dieci, secondo la somma. Il giorno in cui dall’amministrazione scendevano le mesate, ella si tratteneva più a luogo in ufficio, per esigere. Non pagarla, era impossibile, tanto era il terrore che la direttrice o il direttore venissero a sapere di questo debito: e lei si avvaleva di questo terrore, per esercitare un certo dominio su quelle che le dovevano dei denari. Una le faceva i cappellini, un’altra le regalava un paio di guanti, una terza le prestava il suo medaglione d’oro, quando ella doveva andare a ballare: e questa serva le trattava da compagne, da amiche, dava loro del tu, di che esse arrossivano e si vergognavano.
Dal primo giorno della pioggia, si erano manifestati i guasti di linea, il tormento autunnale e invernale dei telegrafi. Procida aveva subito inviato un telegramma di servizio, dicendo che per la pioggia non vedeva più le isole di Ponza e di Ventotene; immediatamente dopo, Massalubrense telegrafò che non vedeva più Capri; le comunicazioni semaforiche erano dunque interrotte. Dopo tre giorni, la linea delle isole che parte da Pozzuoli, tocca Ischia, Forio d’Ischia, Casamicciola e Procida, un po’ sottomarina, un po’ aerea, e poi di nuovo sottomarina, principiò a soffrire: la corrente giungeva a intervalli, si corrispondeva con grande stento. Alla sera, si guastò addirittura, non rispose più nessuno. Tutta pensosa la vice-direttrice andò alla porta della sezione maschile, chiamò il capoturno e gli disse:
— Con le isole, è guasta ogni comunicazione.
— Sette.
— Poco male, li manderemo per posta.
Sotto quella pioggia continua, in quella umidità che impregnava l’aria, le strade, le persone, i vestiti, le anime, il servizio telegrafico era tutto un lavoro di pazienza. Quando entravano in servizio, le ausiliarie guardavano il cielo, facevano una smorfia di sfiducia e chiamavano il corrispondente. Talvolta, sul principio, il servizio procedeva bene, per un’ora, per due: a un certo momento i segni scomparivano e l’ausiliaria pensava: ci siamo: Madonna, assistimi. Ma più spesso il guasto si dichiarava dal mattino, il tormento si manifestava subito dal buongiorno del corrispondente che Napoli non sentiva, e dal buongiorno di Napoli che il corrispondente non sentiva. Le sette ore di servizio passavano, consumate in tentativi vani di farsi sentire, battendo forte il tasto, facendo i segni lunghi, chiari, lentissimi.
— Per carità, direttrice, — mormorava l’ausiliaria, — la nostra pila è troppo debole, aggiunga qualche cosa d’altro.
— Avete già trenta elementi di più: che posso farvi? — rispondeva la direttrice, desolata.
— È inutile, è inutile, — soggiungeva l’ausiliaria. — Otranto non mi sentirà mai.
La corrente partendo o giungendo, soffriva un morbo capriccioso e strano che la prendeva a sbalzi, che le dava tregua per due ore e la prostrava per una giornata, che la faceva balzare, subitamente ringagliardita o la immergeva in una debolezza mortale: il fluido possente che un po’ di rame, un po’ d’acido solforico, un po’ di zinco fanno sviluppare, il fluido fortissimo che niuno ha ancora spiegato, — la grande efficienza naturale, inesplicabile e grande come il calore, come la luce, — la corrente elettrica, forza, volontà, pensiero, era ammalata, attaccata nella sua forza e nella sua potenza. La torcevano per dolore, certe convulsioni strane, per cui le macchine parea dovessero spezzarsi sotto il suo impeto: essa batteva, batteva sul metallo certi colpi duri, secchi, ripetuti fittamente, come bussasse per aiuto, come se chiamasse al soccorso: e nell’abbattimento che susseguiva questi impeti, il coltellino della macchina aveva un tremolìo indistinto, un movimento così lieve che pareva un soffio.
— Direttrice, direttrice, — diceva lamentosamente Annina Pescara, — certamente, Bologna mi sta dicendo qualche cosa, ma i segni non arrivano.
— Rendete sensibile la macchina.
Si smontava la macchina, si regolava più delicatamente il sistema di orologeria, si accorciava la spirale per farle sentire meglio la corrente, si accostava il coltellino a un capello della carta. La macchina, così regolata, pareva uno di quei raffinati temperamenti umani, in cui la vibrazione è immediata, in cui i nervi frizzano a qualunque piccolissima sensazione: l’apparato era sensibile. Allora, pallidamente, qualche segno compariva, parole spezzate, frasi monche: pareva un delirio fioco ed indistinto di persona morente. E il guasto era dichiarato, per non avere responsabilità.
— Vi è dispersione su Bologna.
Pure la telegrafista restava alla sua linea, tentando ancora, tentando sempre, sperando sempre di poter corrispondere. La malattia della corrente era così bizzarra! da un istante all’altro essa poteva guarire, per un’ora, o per una giornata. E con questa incertezza, la telegrafista passava le sue ore in sforzi inutili, provando, riprovando, con una costanza di coraggio, con una rassegnazione tutta giovanile. Ogni tanto si udiva qualche sospiro profondo:
— Che hai? — domandava la Caracciolo che ci si divertiva ai guasti, perchè non si lavorava.
— Questa linea di Catanzaro mi fa morire, — rispondeva Grazia Casale.
E ogni tanto:
— Non si corrisponde più con Benevento.
— Che guasto vi è?
Ma il guaio maggiore erano i contatti. Per la pioggia, per le strade cattive, per la pessima manutenzione dei fili, per un uccello che vi si posava, per un caso qualunque, frequentissimo in inverno, due linee che andavano nella stessa direzione, si univano, e accadeva il contatto. A un tratto, mentre si parlava con Reggio, saltava fuori, sulla linea, Torre Annunziata, e le trasmissioni s’imbrogliavano, si confondevano, i corrispondenti litigavano, le correnti s’intrecciavano. E la voce triste di Clemenza Achard, lieve, lieve, diceva:
— Non si va più con Reggio: vi è contatto con Torre Annunziata.
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In quel giorno, il dodici novembre, aveva cessato di piovere, dalla mattina: ma il cielo era rimasto chiuso e grigio, quasi nero alla linea dell’orizzonte, dietro la collina di San Martino. E nelle nuvole il tuono rumoreggiava sordamente, continuo; un lampeggio folgorava azzurrino, all’orizzonte. Alle quattro il capoturno, che aveva la faccia stanca e annoiata, si presentò alla porta della sezione femminile, chiamò la vice-direttrice e le disse:
— Non comunico più con la Sicilia.
E si guardarono tutti e due, avendo sul viso l’aria preoccupata di chi subisce un guaio irreparabile. La direttrice ritornò in mezzo alle ausiliarie e comunicò la notizia.
— Non si corrisponde più colla Sicilia.
Le fanciulle si guardarono fra loro, crollando il capo: a poco a poco, l’ufficio di Napoli pareva s’isolasse da tutti gli altri paesi con cui era legato. Da quattro giorni non si avevano notizie di Venezia che dava i suoi telegrammi a Roma; Campobasso mandava i suoi telegrammi per posta; di Ancona non si sapeva nulla; con Benevento non si comunicava: ora questo isolamento dalla Sicilia, che era il più importante, sembrava l’abbandono completo, l’isolamento assoluto. In quel giorno, tutte le altre linee andavano male non per l’umidità, ma per le scariche elettriche dell’aria che colpivano la linea e spezzavano i segni della trasmissione.
— Signorine, non toccate con le dita il metallo del tasto: potreste prendere una scarica, — aveva raccomandato la direttrice.
Ma qualcuna ci si divertiva a quel giuoco, di prender una scarica. Bastava toccare uno dei reofori, o il manico del tasto, o un bottoncino esterno della macchina per sentire una piccola vibrazione, passante dalle dita al polso, dal polso alla nuca.
— Borrelli, Borrelli, non scherzate con le scariche elettriche: potreste essere fulminata
— Sono cose che si raccontano, vice-direttrice.
Maria Immacolata Concetta Santaniello si segnava a ogni tuono più forte e si vedevano le sue labbra muoversi, come per la preghiera. Peppina De Notaris, a ogni scarica elettrica si arrestava con un lieve movimento di paura. Peppina Sanna aveva una smorfia nervosa della faccia, come se tutta quell’elettricità le si scaricasse nei nervi. Sofia Magliano, cercando invano di farsi rispondere da Cosenza, parlava con Maria Morra di quella bella Adelina Markò, che nel mese di luglio aveva date le dimissioni e nel mese di agosto si era felicemente maritata con un giovanotto di Salerno, un negoziante; ella aveva dato un addio alle fisime sentimentali, per cui si attaccava al vedovo di quarant’anni ed era felice, adesso, come aveva scritto alla direttrice. Ora la più bella della sezione era Agnese Costa, una alta, snella, con un bel collo bianco, una nuca grossa e due grandi occhi grigi. Anche Emma Torelli si era fidanzata con un impiegato telegrafico e il matrimonio si doveva fare tra cinque o sei mesi. Discorrevano di questo, un po’ nervosamente, eccitate dalla fatica inutile di poter avere una risposta dai corrispondenti, dalle scariche elettriche e dalle cose che dicevano. La verità, sul caso della Juliano, non si era mai potuta sapere: era mancata a un tratto; ma tre o quattro volte era stata chiamata in direzione, l’avevano vista salire dall’altro scalone, col suo grande corpo slogato da uomo mal fatto. E anche la direttrice era stata tre o quattro volte in direzione, per molto tempo a conferire col direttore; n’era venuta via con la faccia stravolta e le labbra di rosa morta, anche più pallide. Una disgrazia, quella della Juliano, che colpiva tutta la sezione: una disgrazia non chiara, ma di cui si sentiva il malessere latente. E pensare che ella era così brutta! Ma tutto un farfuglio di segni comparve sulle linee di Cosenza e di Catanzaro dove stavano Maria Morra e Sofia Magliano, e poco dopo la vice-direttrice annunziava:
— Un palo è stato fulminato, verso Salerno: contatto su Cosenza, Catanzaro, Reggio, Potenza, e Lagonegro.
Sei linee erano abbattute nello stesso tempo: ma non tacevano: su quelle macchine vi era un garbuglio di correnti, di trasmissioni, di colpi forti che l’elettricità dell’aria tagliava in due. Il tuono rombava più forte: in tutti i punti di contatto, fra metallo e metallo delle macchine, vi era una lieve scintilla.
Gli isolatori, a punte metalliche, come i denti di un pettine, anche scintillavano, a riprese. In questo la direttrice entrò, vestita di nero, con un velo di crespo nero sul cappello e i guanti neri: aveva gli occhi rossi e gonfi. Si mise a discorrere piano con la vice-direttrice: le ausiliarie la guardavano, subitamente diventate pallide a quel lutto, senza curarsi più dell’elettricità: certo ella ritornava di lassù, dove era andata con le altre ausiliarie. Non osavano chiamarla e chiederle che era accaduto lassù. Un lampo guizzò nel cielo livido: e un forte tuono scoppiò, un fulmine era caduto in città. Tutte le macchine scricchiolarono, a tutti i reofori, a tutti i bottoncini, vi fu un fioco scintillìo: negli isolatori parve un fiammeggiamento. Il capoturno si presentò alla porta della sezione maschile e gridò:
— Temporale: vi è pericolo: linee alla terra!
La vice-direttrice esitò un momento, innanzi a una misura così grave, che si prende rarissimamente: ma un nuovo fulmine cadde più vicino.
— Linee alla terra! — comandò il capoturno.
Subito dopo una quiete si allargò nell’ufficio. Napoli era isolata: i tasti, le macchine, gli isolatori, parevano colti da una improvvisa morte: la corrente era morta. E attorno alla direttrice, che veniva dal cimitero, le ausiliarie, aggruppate, rimpiangevano Maria Vitale che era morta.