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PER MONACA.
I.
Canterellando una canzoncina popolare, Eva Muscettola girava intorno al bruno tavolone oblungo, su cui erano posati tanti cestini da lavoro, piccoli e grandi, frugava con le dita irrequiete dentro questi cestini, cavandone dei lembi di tela o di mussola già cucita o semplicemente impuntita, aguzzando gli occhi vividissimi, ma miopi, per vedere se nulla vi mancasse: i rocchetti del filo, l’agoraio, le forbici; facendo una quantità di smorfiette carine, secondo che il contenuto del cestino le sembrava ordinato o disordinato. Un bocciuolo di rosa era passato nella cintura del suo vestito di seta nera, un bocciuolo rosso rosso, già quasi schiuso, simile alla bellezzina ancora incompleta, ma già prepotente, di Eva. Ella canticchiava, mettendo degli aghi da una cartina, nell’agoraio di argento di Giulia Capece, a cui mancava sempre tutto per cucire, quando Tecla Brancaccio entrò, la prima, col suo fermo passo virile, portando anche quel giorno la sua giacchetta da uomo, il goletto bianco, alto e chiuso, la cravatta maschile e lo spillo a ferro di cavallo.
— O caro, caro il mio fidanzato, — gridò da lontano Eva, vedendo arrivare Tecla, — sei puntuale come un giovanotto a un ritrovo! Sei ancora uscita a cavallo, stamane? Come va Gipsy?
— Benissimo, non si era che sferrata, ieri l’altro; — rispose Tecla con la sua voce un po’ dura, cavandosi i guanti lunghi di camoscio, arrotolandoli e buttandoli in fondo al suo cappellino di feltro.
— E Carlo, come va? — domandò sottovoce, con una inflessione affettuosa, Eva.
— Malissimo, naturalmente; egli è ancora partito per Parigi, per seguirla, iersera.
E si affibbiava uno strano braccialetto di ferro.
— Ma perchè ti ostini, Tecla? Carlo ti vuoi bene, ma ella è più forte di te, amore mio.
— Chissà!
— Non vedi che vince sempre? È bella, è bionda, sa piangere, è piena di seduzione, ama Carlo da disperata....
— Sì, ma le donne maritate sono più forti di noi altre ragazze; — soggiunse Eva, con una filosofia inconscia.
— Sarà, ma io non cedo.
— E che puoi fare?
— Aspettare.
E nella breve fronte pallida, negli occhi grigi, di metallo lucido e freddo, nelle sottili labbra di rosetta smorta, nel mento un po’ quadrato, si leggeva la pazienza e la forza, la volontà indomabile che si raccoglie nell’aspettazione. Subito, senza dire altro, Tecla si sedette al suo posto, tirò a sè la cesta del lavoro che era più grande delle altre, ne cavò fuori una rude tela a righe, una fodera da piccolo materasso, un tessuto duro duro che le sue dita di ferro bucavano rapidamente: la cucitrice non levò neppure il capo, quando entrarono Giulia Capece e Chiarina Althan; il suo lavoro e i suoi pensieri l’assorbivano completamente.
— È poi giunta questa cassa da Vienna, Giulia? — domandò Eva, prendendole dalle braccia il mantello di pelliccia e sorridendo a Chiarina Althan.
— Sì, non fosse mai arrivata! — esclamò la bellissima fanciulla, snella come uno stelo; — tanta curiosità, tant’aspettazione! Non t’ho fatto leggere la lettera di mia zia da Vienna? Pareva che nella cassa vi fossero le sette meraviglie! Proprio! Ma che si burlano di noi le sarte viennesi? Non abbiamo occhi, gusto, intelligenza, che ci mandano dei vestiti azzurri carichi di rose?
— Oh Gesù! — esclamò Eva, scandolezzata.
— Più un cappellino, con un pappagallo verde impagliato; — soggiunse Chiarina, col suo sorrisetto un po’ enigmatico. — Pare che sia il pappagallo della zia di Giulia, un sacrifizio alla parentela, un’anticipazione alla eredità. Quando metti quel cappellino, Giulia, fa una circolare alle amiche, facendo appello alla loro affezione per aver pietà della tua sventura.
— Io non lo metterò mai, mai! — esclamò Giulia, quasi con le lagrime agli occhi; — lo darò a Concetta, la cameriera.
— E tua zia ti disereda; — soggiunse Chiarina, ridendo.
Giulia diede una spallata. Tanto, era povera, nobilissima, con la famiglia carica di debiti, fidando solo sulla propria bellezza per fare un gran matrimonio: e tutti i vecchi amici di casa, le zie straniere, i confessori, erano tutti in moto per trovare dei milioni a questa splendida creatura, che intanto ne spendeva in anticipazione la rendita. Giulia si mise a cucire di malavoglia una camiciolina da bimbo, dando certi punti lunghi, lunghi, spezzando il filo ogni momento, guardandosi ogni tanto nello specchio che aveva dirimpetto: e la flessuosa persona si chinava come un fiore, le lunghe ciglia castane ombreggiavano delicatamente le guancie, la bocca rossa sembrava un melagrano lucido, succoso. Chiarina Althan, accanto a lei, tagliava in un pezzo di cotonina bianca e rosea un grembialino da bimba; e la finissima fisonomia, non bella, ma traspirante intelligenza, gli occhi calmi ma profondi, la bocca pensosa, si curvavano sulla stoffa, pieni di attenzione e d’interesse, come per leggere un libro o per ammirare un quadro. Intanto Eva si era anche messa al suo posto e impuntiva l’orlo di certe fascie, a lunghi punti, canticchiando, mentre Tecla Brancaccio a grandi colpi di forbici stridenti, buttava in terra il pezzo che superava dal piccolo materasso che trapuntiva. Le due sorelline Sannicandro entrarono, tenendosi a braccetto: erano due statuine di porcellana bianca colorata di roseo, due bambolette gentiline e rotonde, con certi nasetti all’insù, i capelli ricci e l’aria infantile, malgrado che avessero quindici anni. E subito recitarono la lezioncina, come bambole ben ammaestrate.
— Buongiorno, Eva, papà ti saluta.
— Buongiorno, cara, e grazie.
— Buongiorno, Eva, mammà ti saluta.
— Buongiorno, carina, e grazie.
Si cavarono i paltoncini eguali, posarono i cappellini eguali, restarono coi vestitini di seta nera, eguali. Poi, un momento interdette, ripresero la lezione.
— Sì, cara, è stata all’Unione iersera; ora dorme.
— Sì, cara, è a Gifoni, a caccia.
— Sta bene, Riccardo, tuo fratello, Eva?
— Benissimo: ma è in Iscozia, per le corse.
E portò subito alle due bambolette che si guardavano, soddisfatte della propria recitazione, una quantità di fascie da bimbi da orlare. La specialità delle sorelline Sannicandro, in quel grande lavorìo per l’ospizio dei fanciulletti abbandonati, erano gli orli: esse orlavano ogni giorno, orlavano sempre, orlavano senza fine, chilometri intieri di orli uscivano da quelle manine pazienti di statuette meccaniche. Erano sempre contente di orlare, levando ogni tanto il capo, per domandare:
— Hai il rocchetto bianco, Eva?
— Hai le piccole forbici, Eva?
Maria Gullì-Pausania entrava lentamente, col suo passo di deità olimpica: a Eva che le corse incontro degnò sorridere, offrì la guancia bruna e fredda di Siciliana altiera, scambiò due o tre saluti con Tecla, con Giulia Capece e con Chiarina Althan e si mise al suo posto, con una misurata armonia di movimenti, strofinandosi la mano destra dove una piccola macchia rossa era comparsa, respingendo indietro i polsini di tela bianca, tirando a sè il cestino del lavoro, dove marcava di rosso, cifra e numero, tutti i capi di biancheria che le sue amiche le passavano, dopo averli finiti. E faceva il suo lavoro con una certa lentezza solenne, con un’aria di signorilità, rassegnata a un lavoro umile, con una disinvoltura affettata di spirito superiore che si piega per bontà d’animo, marcava la biancheria con tanta dignità di gesto, che pareva sempre considerasse la immensa felicità di quei bimbi, che nella loro infanzia potevano già avere la fortuna d’indossare una gonnelluccia bianca marcata da lei, Maria Gullì-Pausania, la cui casa veniva subito dopo quella del Re, a Palermo, che possedeva in famiglia due principati, tre marchesati, quattro miniere di zolfo e una intiera provincia di aranci e di limoni. Ella inarcò le ciglia quando vide entrare, quasi correndo, Elfrida Kapnist, l’ungherese dai grandi occhi neri, smorti e selvaggi, dai capelli bruni e ricciuti che nessun pettine arrivava a domare, dal viso pallidamente acceso, allungato come quello di una capra, dal paltoncino di uno strano color giallastro, dal vestito troppo corto innanzi che lasciava vedere i piedini sottili, sdutti. Elfrida fu accolta con una gradazione di sorrisi più o meno amabili, Eva stessa era un po’ imbarazzata nel riceverla: di Elfrida si diceva un grandissimo male e un grandissimo bene. Era una zingara scappata dalla tribù, — nossignore, era la figlia di un console, nobile, ma povera, — era una stracciona, — aveva una quantità di terre confiscate, in Ungheria, — era figlia di una cavallerizza, — sua madre era una Radziwill, — ella si faceva regalare i vestiti dai giovanotti — la duchessa della Mercede le faceva la carità degli abiti. — Intanto, con queste contraddizioni, con lo spirito indiavolato di Elfrida, con la sua inesauribile allegria, col suo brio di straniera un po’ libera, con la sua simpatia di tipo bizzarro, ella andava dovunque, un po’ invitata, un po’ tollerata, un po’ mal ricevuta, ma sempre presente, sempre gaia, mostrando i suoi dentini bianchi di zingarella, ballando tutta la notte, cenando in tutte le ore, noncurante dei suoi vecchi vestiti, dei suoi guanti lavati, dei suoi capelli arruffati che respingevano le forcinelle. Ella baciò vivamente, sulle due guancie, Eva, e mettendosi a cucire, annunziò:
— Olga Bariatine sposa Massimo.
Tutte levarono il capo, anche le due bambine Sannicandro.
— È certo? — domandò Tecla Brancaccio.
— Certissimo: sposano in maggio; Olga vuole andare in Russia pel viaggio di nozze.
— Sarà molto contenta, Olga, eh? — disse Eva, con la sua inflessione tenera di persona che desidera la felicità altrui.
— Contentona: iersera Massimo è restato sino alle dodici da lei, non lo ha mai fatto.
— Povera Olga! — sospirò Giulia Capece — con tutti quei denari prendere quello spiantato.
— Un giuocatore: mio fratello lo incontra ogni anno a Montecarlo — mormorò Eva, un momento pensosa.
— Un annoiato, noioso — soggiunse Chiarina Althan.
— Come è che si è deciso al matrimonio? I Daun sono molto nobili: chi conosce i Bariatine? — domandò Maria Gullì-Pausania, guardando una pila di strofinacci nuovi, da marcare, per le cucine dell’ospizio, indecisa se fare quest’altro sacrifizio alla carità.
— Naturalmente, il nobilissimo signor Massimo Daun non avrà più trovato nè un amico che gli presti cinquecento franchi, nè uno strozzino che gli creda, e ha finito per appagare l’ardente amore di Olga Bariatine che è poi bellina, ricca e buona.
— Ma di mala voglia, molto di malavoglia — riprese Elfrida Kapnist che orlava delle cuffiette, — stanotte a una cena, fra giovanotti, egli ha bestemmiato come un turco, contro il matrimonio, contro la Piccola Russia e contro tutta la razza slava.
— Che orrore! — esclamò Eva, — non mi vorrei maritare a questo prezzo, neppure per un uomo che adorassi.
— Perciò non ne adori nessuno — osservò placidamente Tecla Brancaccio.
Angiolina Cantelmo, che era entrata allora, abbozzò un debole sorriso. Era una persona delicata e alta, con certi occhioni azzurri pieni di fluido, con le guance colorite di un sangue finissimo, roseo, un roseo giapponese di porcellana trasparente. Ella apparteneva alla più nobile, più antica famiglia napoletana, la vecchia casa Cantelmo in cui erano tradizionali la bontà, la bellezza, il valore, la generosità; ma da duecento anni, nella casa, si andava perpetuando una tradizione di sventura: una grande fatalità morale e materiale discendeva per li rami, la leggenda parlava di un delitto da espiare, a redimersi dal quale non valevano l’onestà e il coraggio degli uomini, la bellezza, la virtù, la pietà delle donne: sempre un Cantelmo o una Cantelmo moriva di morte violenta. Una disgrazia terribile aveva portato via la madre di Angiolina: e già un fratello e una sorella bellissimi, biondi e rosei, erano stati colpiti dalla tisi. In quanto ad Angiolina, due anni prima l’avevano fidanzata a Giorgio Serracapriola, un giovanotto bello, ricco, elegante, scettico e indolente: ed ella, piamente, da buona ed onesta fanciulla si era messa ad amare il suo fidanzato. Il matrimonio era andato a monte, per questioni d’interesse, fra il padre di Giorgio e quello di Angiolina; Giorgio era partito per un viaggio, in yacht, un po’ indifferente in fondo, — ella aveva taciuto, non si era lagnata, non aveva detto una parola con nessuno; a chi gliene parlava, rispondeva con un sorriso pallido e si faceva sempre più sottile, sempre più rosea, come un cero. Aveva sempre freddo, però, e parlava a voce bassa. Diceva a Eva Muscettola che pel primo decembre si poteva contare per l’inaugurazione dell’ospizio: ma che intanto otto o dieci delle fanciullette da ricoverarsi, bisognava che si cresimassero. Bisognava trovar le madrine, pregar monsignor arcivescovo, scegliere una chiesa privata: il discorso divenne generale, ognuna delle lavoratrici offrì di far da madrina, anche le due Sannicandro lo dissero ambedue insieme, come una lezioncina, anche Elfrida Kapnist che molti accusavano di essere protestante, scismatica, turca o peggio: solo Maria Gullì-Pausania si rifiutò: in verità, non poteva accettare di essere la madrina di una straccioncella qualunque.
— Non potremmo fare la funzione nella cappella Cantelmo? — domandò Eva ad Angiolina.
— Sì, se volete. Ma quelle bimbe si sgomenteranno. È così triste quella nostra cappella, e poi così fredda, così fredda!
— Non ascoltate voi la messa lì dentro, ogni domenica?
— Sì, per obbligo, — rispose Angiolina, — ma io preferirei una chiesetta qualunque, dove ci entrasse il sole. Papà è sempre reumatizzato, quando esce di là, e Maria tossisce.
— Tu non tossisci mai, nevvero, Angiola? — chiese Eva, levando il capo da certi asciugamani a cui annodava la frangia.
— Io? no, mai. Sto benissimo, io, — e sorrise fievolmente, increspando una gonnelluccia.
— Ecco qui la fidanzata, ecco la sposetta, — strillò, entrando, Anna Doria, trascinando Olga Bariatine, la bionda grassottella, con la bocca simile alla rosa e i dolci occhi bigi. La sposina chinava il capo arrossendo, tutta confusa, abbracciando le sue amiche che l’avevano circondata avendo i lagrimoni sugli occhi; specialmente Eva, la buona, che le teneva un braccio al collo e le veniva ripetendo sottovoce, come se pregasse per lei:
— Iddio ti assista, Iddio ti assista, cara, cara, cara....
— Sapete perchè Olga si marita così presto e con tanto suo piacere, signorine? — strillò Anna Doria, mentre tutte riprendevano il loro posto e il loro lavoro.
— Probabilmente perchè se lo merita.... — suggerì Chiarina Althan.
— Ma che, ma che! — gridò Anna Doria, sempre ritta in mezzo alla sala.
— Perchè è tanto carina, tanto buonina — suggerì Eva Muscettola.
— Niente affatto, niente affatto, — tempestò Anna Doria. — Tutte più o meno ci meritiamo di maritarci, tutte più o meno siamo buonine, carine;... eppure, quante zitelle che si vanno maturando! Non parlo per me, che, ormai, sono andata in aceto, ammuffita. Sapete perchè? Olga si marita subito e come vuole, perchè non ci ha la mamma: a noi le nostre mamme impediscono il matrimonio.
— Oh! oh! oh! Anna, Anna! — dissero quasi tutte scandalizzate.
— Ti viene l’accesso, Anna? — domandò Chiarina Althan.
— Che accesso! Buone, le mamme, affettuose, carezzevoli, sissignore, chi lo nega? Non sono una bestia, io, malgrado le mie pretese stravaganze. Ma le mamme nostre sono le nemiche naturali del nostro matrimonio. Troppo giovani? Hanno diritto di brillare, ci chiudono in casa, ci lasciano coi vestiti corti fino a sedici anni, noi facciamo loro la concorrenza. Troppo vecchie? Allora odiano la gente, non vogliono vedere nessuno, la gioventù le secca, i ricordi sono loro fastidiosi, la felicità degli altri è loro indifferente, sono egoiste, sono vecchie! Troppo eleganti? I fidanzati diffidano delle suocere eleganti. Troppo severe? Fanno scappare a gambe levate chi voglia prendere la vita un po’ allegramente. Una, troppo pretenziosa per i titoli di nobiltà; l’altra, inesorabile sulla questione della pietà religiosa; la terza pretende che si viva insieme; la quarta esige che si vada in provincia; una ha un capriccio, un’altra ha una fissazione, a questa non piacciono gli uomini biondi, quella là detesta la persona magra: addio, matrimonio! Ve lo assicuro, care amiche, quelle che hanno ancora la madre e arrivano a maritarsi, compiono un’opera meravigliosa.
La brutta ragazza, già di trent’anni, magra, sgraziata con le guancie scarne malamente colorite con un rossetto che preparava lei stessa, — una delle sue stravaganze, — restò piantata in mezzo alla stanza con aria trionfale. Le amiche sue abbassavano il capo, senza risponderle, sorprese da un gran senso di pena, urtate nei loro buoni sentimenti, urtate nel rispetto della maternità che esse avevano. E pensavano alla tragicommedia quotidiana di casa Doria: una madre che aveva troppo amato il lusso e i piaceri e aveva confinato Anna sino ai vent’anni in una specie di adolescenza oscura: una madre a un tratto datasi alla vita austera, con tutti i difetti dell’età matura, l’avarizia, la bigotteria, la cocciutaggine, l’intolleranza: e di fronte, ogni giorno, la ribellione di Anna, Anna la pazza, che litigava con la madre, violentemente, per tutto, che si sentiva brutta e se ne vendicava, essendo sgraziata, che si sapeva antipatica, e se ne vendicava, facendo delle malignità a tutti, ma più di tutti a sua madre, alla vecchia bestia, come la figliuola la chiamava. Sì, tutte soffrivano per le brutali parole che Anna Doria aveva detto: ma le due Sannicandro che ogni sera baciavano la mano a papà, prima di andare a letto e si facevano benedire da mammà per dormire tranquillamente, si guardavano in faccia, tutte pallide, con le boccuccie rigonfie dei bambini che vogliono piangere. Nessuna parlava ed Eva, che aveva il carattere più aperto di tutte le altre, cercò di mettere una parola dolcificante:
— Ecco qui Anna che vuol farsi credere più cattiva di quello che è: hai la posa della cattiveria, cara, ma nessuno ci crede. Le mamme nostre ci amano, a loro modo: non sta in noi a giudicarle.
— E fai benissimo, tu, Eva, — rispose malignamente Anna Doria, scombussolando il suo cestino per trovare le forbici.
Eva impallidì, tacque, ferita. Un grande imbarazzo regnò fra le cucitrici, parea che nessuna osasse interrompere quel silenzio. Tecla aveva approntato coraggiosamente una seconda fodera da materasso; quando Giulia Capece domandò ad Olga:
— Donde li fai venire, Olga, i vestiti? Non da Vienna, spero, se non vuoi essere assassinata!
— Non farli venire da Vienna, Olga, — soggiunse subito Chiarina Althan, cogliendo la palla al balzo per cambiare la conversazione, — figurati che da Vienna hanno mandato a Giulia un cappellino con un gallinaccio impagliato sopra: questo per ispirarle delle idee di buona massaia.
— Oh un gallinaccio, poi, Chiarina!... — protestò Giulia, cordialmente afflitta sotto l’incubo di quel cappellino viennese.
Olga raccontava alle amiche che l’ascoltavano, che essa faceva venire tutto, tutto, da Parigi: in un convento di monache si ricamava già il corredo di biancheria, dappertutto il suo motto for ever, insieme alla iniziale del suo nome: ai vestiti non aveva ancora pensato, ma per quelli da ballo non ci era che Worth, per i vestiti da sport non ci era che Reuss, per quelli da mattino, Carolina; e le sue amiche avevano lasciato di lavorare, l’ascoltavano avidamente, avendo innanzi agli occhi tutta una visione di stoffe, di cappelli, di veli, di merletti.
— Hai pensato di farti fare delle camicie di seta? — domandò Elfrida Kapnist.
— No, — rispose Olga. — Non sapevo che usassero di nuovo.
— Usano moltissimo, di una seta floscia e leggerissima, azzurra, rosa, crema, con le trine di vera Valenciennes. Tutte le mondane…. e le altre, ne hanno.
Olga non rispose: Maria Gullì-Pausania aggrottò le sopracciglia e scostò la sua sedia, per non toccare la sedia di Efrida. Costei sapeva dunque, sempre, quello che i giovanotti dicevano alle loro cene e quello che le donnine troppo alla moda indossavano? Olga aveva ripreso a dire che Massimo avrebbe voluto farle dei regali, dei gioielli, senza dubbio, quelli famosi di casa Daun, ma che essa assolutamente non li voleva, faceva un matrimonio di amore, dei brillanti non gliene importava proprio nulla. Le ragazze che cucivano, approvavano sorridendo senza levare il capo, pensando ognuna in cuor suo quanto fosse ingenua e buona Olga Bariatine; i famosi brillanti di casa Daun, Massimo li aveva prima impegnati, poi venduti, egli era un pezzente indebitato, che non avrebbe potuto donare alla sua fidanzata neppure un anellino di argento. Poi vi fu un quarto d’ora di silenzio; tutte lavoravano, riprese da un grande zelo, pensando agli ottanta bimbi abbandonati, maschietti e femminucce che aspettavano dalle loro mani di che vestirsi. Eva, la buona, la più vivacemente affettuosa, aveva detto loro che la carità non si fa soltanto coi quattrini, ma che bisogna metterci il proprio tempo e il proprio lavoro: che, infine, le ore mattinali, due, tre, sino alla colazione potevano essere sacrificate, lavorando per le povere creature senza pane, senza tetto, senza vestiti. E quell’attività quotidiana, quel doversi occupare continuamente di altri, quell’andare e venire, soddisfaceva il bisogno di movimento e il sentimento di altruismo che era in Eva, riempiva le sue giornate un po’ vuote, un po’ solitarie, — la madre apparente e sparente fra un ballo e l’altro, che dormiva metà della giornata, spesso pranzava nei suoi appartamenti, troppo giovane per la figliola già troppo grande, — il padre che adorava ogni esercizio di sport, sempre nelle scuderie, o a caccia, o al tiro del piccione o alle corse, — il fratello sempre in viaggio o a Montecarlo o a Bàden o a Parigi. Tutti questi l’amavano Eva: madre, padre, fratello, ma a loro modo, negli intervalli di libertà che concedevano loro le passioni dominanti; e questo non bastava, non bastava al suo ardente bisogno di amore, alla sua vitalità esuberante. Così, per sfogarsi ella aveva messo su, col suo fuoco, con la sua fiamma di affetto, questa carità delle ragazze per i bimbi abbandonati e si dava a quest’opera con la voluttà infinita delle anime buone, che mai non sanno riposarsi dall’amare e dal beneficare. Ce n’era voluto per convincere le sue amiche, per poterle riunire, massime le incompatibili, quella Maria Gullì-Pausania che nessuno poteva soffrire, per le sue arie, quella Elfrida Kapnist delle apparenze così strane e così equivoche! E quelle che entravano allora, a braccetto, Giovannella Sersale e Felicetta Filomarino, non le poteva mai indurre a venir presto, capitavano all’ultima mezz’ora, distratte, discorrendo sempre a bassa voce fra loro: e il segreto di Giovannella Sersale tutte lo conoscevano, ella aveva dovuto sposare Francesco Montemiletto, ma costui dopo averla corteggiata per due anni, aveva finito per sposare la sorella maggiore, Candida: e Giovannella non si era mai data pace di questo tradimento, ella portava fieramente questo lutto, non aveva mai voluto sentir parlare di altri fidanzati, non si sarebbe mai maritata. A un tratto, non si sa come, era nata una grande amicizia fra lei e Felicetta Filomarino, stavano sempre insieme, spesso avevano gli occhi rossi, una medesima malinconia le rodeva. Qual era dunque il segreto di Felicetta? Più taciturna, più riservata, ella non lo confidava, se non a Giovannella; e certo nei loro colloqui solitari, esse piangevano insieme la loro gioventù sfiorata. La loro presenza diede un’intonazione anche più seria a quella riunione di fanciulle: ognuna di esse, piegando il capo sul cucito, pensava ai suoi crucci. Tecla Brancaccio alla sua lotta così disuguale contro una rivale preferita costantemente; Giulia Capece alla sua bellezza che trovava tanti ammiratori, ma non un marito con duecentomila lire di rendita; Chiarina Althan all’ambiente frivolo e sciocco dove si consumava la sua intelligenza; Elfrida Kapnist alla sua miseria che ogni tanto le faceva subire delle umiliazioni atroci; Angiolina Cantelmo alla fatalità che dominava nella sua casa; Anna Doria alla sua esistenza atroce, senza confronti; Eva Muscettola al suo desiderio insoddisfatto di esser molto amata, di poter molto amare; solo le due Sannicandro si consolavano, erano tutte felici, poichè in quel giorno sarebbero andate alla passeggiata della riviera, con papà e mammà; e Olga Bariatine era intimamente felice, ella che aveva amato con tanto fervore Massimo Daun e ora raccoglieva il premio del suo amore; e Maria Gullì-Pausania si sentiva molto felice, perchè non può essere altrimenti d’una discendente dei re siciliani.
— Misericordia, misericordia! — gridò Eugenia d’Aragona, entrando e buttando all’aria il cappellino, — ma che state contemplando i Quattro Novissimi? Fate la penitenza dei peccati, ragazze? Volete che piangiamo tutte insieme? O Eva, Eva, che hai fatto?
— Ma niente, cara, niente: lavoriamo.
— Ma voi morirete, a furia di lavorare. Ma volete rovinarvi il petto, gli occhi, le dita! Ma vi farete venire la nostalgia, lo spleen, con tutto questo cucito! i bimbi saranno vestiti, ma qualcuna di voi si ammazzerà, ne son certa.
Ella si gettò sopra una sedia, accavalcò una gamba sull’altra e strappò il cucito dalle mani di Angiolina Cantelmo.
— Anche tu, monachella? Ma perchè non mandate loro dei quattrini, molti quattrini a questi bimbi, invece di mortificarvi a cucire? Ti faccio dare mille lire pei tuoi bimbi, Eva mia, se smetti di cucire quel tuo grosso pezzo di tela; oggi lo dico a papà, che ti mandi queste mille lire. Smetti, Evuccia, smetti. Forse che le ragazze nobili cuciono? Io non so cucire.
— Mi pare strano, — osservò Anna Doria, malignamente.
Infatti Eugenia d’Aragona, che portava con sè i sessanta milioni di dote, che riuniva in sè la nobiltà di tre famiglie, Aragona, Ognatte, Mexico, che aveva terre in Europa e in America, che possedeva dodici diversi feudi, ed era imparentata coi Borboni di Spagna, con gli Orléans di Francia, era una figliuoletta che il duca d’Aragona aveva avuto da una sarta. La bella e buona duchessa d’Aragona, colpita da sterilità, adorando suo marito, vedendo che la immensa fortuna andava a perdersi nelle mani di nipoti indegni, aveva voluto che il marito legittimasse e adottasse la povera figlioletta della sarta: e questa creatura della strada era salita quasi sopra un trono, adorata dal padre, adorata stranamente dalla madre adottiva. Ella aveva conservata una semplicità un po’ rude, che nessuna istitutrice inglese aveva potuto modificare, una bontà chiassona e aveva acquistato la prodigalità noncurante di chi non deve contare: e della sua origine non si vergognava: la malignità di Anna Doria la fece ridere.
— Ragazze, se andassimo tutte a casa, a colazione? Finitela con questi bimbi senza camicie, venite via, diremo a mammà che vi mandi cento camicie, per queste creature. Venite, ci sono a casa dei vestiti che debbo mostrarvi e una scimmietta che ho comprato; andiamo, su, Eva, diglielo tu a queste imbambolate; ho una carrozza fuori, ci stiamo in cinque, benissimo, e la tua, Eva, altre cinque; Maria, ci sarà anche la tua, tu non vai mai senza carrozza, sei grande di Spagna di prima classe. Ci accomoderemo, tutte; sembreremo una scuola.
E per vincerle, tutte, si buttò al collo di Chiarina Althan, fece un giro di waltzer con Eva, diede quattro baci a Olga Bariatine, scompigliò tutti i cestini; ed era così comunicativa la sua vivacità popolana, così fresca e giovanile la sua allegria, che un raggio di sole attraversò tutti quei cuori, e di nuovo brillarono, luminosi, i sorrisi.