Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Il romanzo della fanciulla
Lettura del testo

PER MONACA.

III.

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III.

 

 

Nel volgare salone di prima classe, stuccato di bianco, mobiliato dagli incomodi e brutti divani di velluto rosso, illuminato dalle fiammelle a gas che il vento serotino autunnale, ingolfandosi pel corridoio dove vi è il caffè e si vendono i giornali, faceva vacillare; in questo grande, stupido e triste salone di aspetto, le prime ad arrivare erano state Eva Muscettola e Chiarina Althan: le accompagnava miss Anderly, la istitutrice di Eva. Le due ragazze non si scompagnavano più, da quando il matrimonio d’Innico Althan con Eva era stato stabilito: lo spirito fine, acuto, di Chiarina si trovava bene con l’anima sensibile e simpatica di Eva. Esse si misero a passeggiare su e giù, chiuse nei loro paltoncini oscuri, con la veletta abbassata sugli occhi, come due viaggiatrici pazienti.

— Che sciocchezza, il viaggio di nozze! — diceva Chiarina, guardando qualche viaggiatore che posava il suo bagaglio sul grande tavolone oscuro e usciva di nuovo, ubbidendo alla nervosità di coloro che partono, che nulla vale a calmare.

— Ma no, cara Chiarella, è tutta una poesia....

Bah! troppi alberghi, troppi camerieri indiscreti, troppe faccie estranee, un vagabondaggio inutile e noioso.

— Tu non lo faresti, il viaggio di nozze?

— No: già, io non ci entro.

— Ah! mi dimenticavo che non vuoi maritarti, o cognatella monaca. Perchè non vuoi maritarti, di’?

— Così.

— Ti farò maritare io, Chiarella, vedrai, vedrai.

— Tu ami il tuo prossimo come te stessa?

— Oh! — fece l’altra, arrossendo.

E andarono incontro ad Anna Doria che entrava, tutta sola, con le guancie cariche del rossetto che ella stessa componeva, con una veletta bianca, che cercava di attenuare quel cremisino: quella sera aveva pensato d’ingrandirsi gli occhi, passandovi sotto un sughero bruciato: e pareva così bizzarra, così brutta, che la stessa buona Eva non potè trattenere un sorriso.

Mamma aveva a pranzo un monsignore e due abati, — spiegò lei; — li ho lasciati a metà. Mamma era furiosa, al solito, l’ho lasciata verde. Eccomi qua per l’accompagnamento funebre.

— Sei più graziosa dell’usato; — mormorò Chiarina, ridendo.

Sfido io! Non era meglio che morisse, Olga, anzichè prendere questo mascalzone Massimo?

— Le ragazze preferiscono sempre il maritarsi al morire; anche tu, Anna.

— Anche io, naturalmente: ma, non mi sono ancora innamorata di un commediografo.

Chiarina continuò a sorridere, malgrado la malignità di Anna: ma non disse nulla.

Perchè ti è tanto antipatico, Massimo? — chiese Eva ad Anna.

— Non me ne parlare: è un vizioso freddo e ostinato. Figurati che ha passato tutta questa notte in una bisca, a giocare, e stamane era in ritardo di un’ora pel matrimonio religioso: Olga ha pianto durante tutta la messa.

Chissà, se è vero, della bisca; — disse Eva.

Caspita! Vi era anche tuo fratello!

— Non credo... — disse Eva impallidendo.

— Come, non credi? Ha anche perduto sette od ottomila lire.

— Aveva promesso di non giuocare più, — mormorò Eva.

Domandalo dunque a Tecla, con cui sono venuta e che si è fermata fuori a comprare un

libro.

Tecla era venuta anche lei con una giacchetta di lana nera foderata di astrakan, tutta alamari e cordoni, con un berretto di astrakan; aveva comperato un romanzo di Balzac, l’Alberto Savarus.

— Sì, sì, hanno giuocato tutta la notte, Carlo ha perduto ventimila lire; — disse, sorridendo.

— E questo ti fa piacere? — domandò Chiarina, mentre Eva chinava la fronte, preoccupata.

Immensamente.

— E perchè?

— Quando Carlo sarà pieno di debiti, converrà bene che mi sposi, per rimedio: donna Maria non gli può dare quattrini; io, sì.

— E ti contenti di essere sposata per rimedio?

— Mi amerà dopo, deve finire per amarmi, — soggiunse Tecla, con la ostinazione profonda di chi vuole una sola cosa.

La sala si andava popolando dei viaggiatori più frettolosi che arrivano un’ora prima della partenza, il gruppo delle ragazze si fece da parte: le due Sannicandro insieme col papà e con Maria Gullì-Pausania, la futura cognata, entravano, tenendosi a braccetto, misurando il passo, tanto carine sotto certi scuffiotti alsaziani di raso rosso.

— Abbiamo portato ad Olga delle rose, — disse la prima.

— Delle rose bianche, perchè essa le ama, — soggiunse la seconda.

E si guardarono, tutte lusingate di aver tanto spirito: poi la prima ricominciò:

— Abbiamo incontrato tua mamma in carrozza, Eva.

Era con tuo fratello Innico, Chiarina, — riprese la seconda.

Un sorriso dubbio si delineò sulle labbra di Anna Doria: Chiarina e Tecla si guardarono per un minuto secondo, come interrogandosi, — ma Eva sorrideva, tutta felice, tenendo d’occhio la porta, per vedere se compariva sua madre e il suo fidanzato. Maria Gullì-Pausania chiacchierava sottovoce, col principe di Sannicandro, un vecchio robusto, rosso nel volto, coi mustacchi bianchi, un suocero che già si lasciava prendere dalle grandi arie classiche della sua futura nuora, udendo con quanta reverenza ella parlava del blasone dei Sannicandro e degli antenati dei Sannicandro che avevano combattuto sotto Ruggero Normanno. Giulia Capece ed Eugenia d’Aragona erano entrate, anche loro: Giulia scortata sempre dal suo sciame di giovanotti, di diplomatici, di baroni russi, continuando la sua faticosa professione di zitella nobile, bellissima e povera che cerca un marito ricco: Eugenia d’Aragona con sua madre putativa, la bella principessa, bionda, fresca e sterile, e con Giulio Vargas; si dovevano sposare fra un anno. Ora all’ardente popolana diventata principessa era sorto nel cuore un amore fervido, la passione, per Giulio Vargas; i due fidanzati portavano dapertutto il loro amore, tenendosi a braccetto o per mano, guardandosi negli occhi, lungamente, parlandosi sottovoce, sorridendo con intenzione. Giulio portando la cravatta colore del vestito di Eugenia, Eugenia portando uno spillo da uomo al goletto.

Adesso vedrete che specie di moccolo ci toccherà di reggere, — disse Anna Doria.

Difatti dopo aver abbracciato e baciato tutte le sue amiche, una dopo l’altra, con quella effusione chiassosa che le persone corrette le rimproveravano, tenendosi stretto al seno un grosso fascio di giacinti, bianchi, rosei, violetti, una rarità, in autunno, che ella aveva portato per Olga, Eugenia si andò a sedere in un cantuccio, con Giulio, tutta beata, scambiando con lui, ogni tanto, una parola, crollando il capo con dolcezza, mentre Maria Gullì-Pausania la trovava più sartina che mai; era uno scandalo amarsi così pubblicamente. Ora le ragazze, le signore, i giovanotti che venivano a salutare Olga Bariatine che partiva pel suo viaggio di nozze, erano divisi in due o tre gruppi, chiacchierando, ridendo, bisbigliando, indifferenti all’agitarsi dei viaggiatori che affluivano: sottovoce, per non far sentire a Giulia Capece, Anna Doria narrava che mademoiselle Charlotte, la sarta del passage Verdeau a Parigi, poverina, era fallita, per colpa di Giulia; le aveva fornito, in due anni, centomila lire di vestiti, non aveva mai potuto avere un centesimo: aveva continuato a fornire vestiti, sperando nel prossimo matrimonio di Giulia, ma invano, matrimonio non se ne faceva, e Charlotte, poverina, aveva sospeso i pagamenti. Ma Rocco Caracciolo non si decideva a sposar Giulia? — domandava Tecla ad Anna. No, no, Caracciolo aveva un legame altrove.

— Che cosa altrove? chi, altrove? chiesero le quattro o cinque ragazze, prese dalla curiosità.

— Una ballerina, la Fiammante: non poteva staccarsene, era proprio un legame serio.

E le ragazze, un po’ chinando gli occhi, un po’ arrossendo, si erano strette, raccolte, mosse dalla curiosità di quell’altro mondo che esse non conoscevano, che non dovevano conoscere, ma di cui ogni tanto ritrovavano un’eco nelle loro case, nelle conversazioni.

— Ma che! ma che Fiammante! — disse Elfrida Kapnist, sporgendo il capo bruno nel gruppo delle sue amiche — voi non sapete niente, Annina Doria è in arretrato di notizie, Caracciolo si è liberato della Fiammante, dandole trentamila lire, tutte d’un colpo, per lei e pel bimbo....

— Quale bimbo? — chiese ingenuamente Eva.

Ma un silenzio regnò, tutte avevano abbassato gli occhi o si guardavano intorno, come distratte; decisamente Elfrida Kapnist era troppo libera nei suoi discorsi, era intollerabile. E la cattiva impressione aumentava; Elfrida portava un vestitino miserabile a scacchetti bianchi e neri, un abito di quaranta lire e aveva alle orecchie due brillanti scintillanti, un valore di tremila franchi.

— Che fa Willy Galeota — ebbe l’audacia di chiederle Annina Doria.

— Mi adora, al solito, — rispose subito Elfrida.

— E quando vi sposate? — insistette l’altra, per vedere di coglierla in fallo.

— Presto, presto, presto, — disse Elfrida, volgendole le spalle e andando a unirsi con Giulia Capece.

Eva si volgeva sempre alla porta, un po’ impaziente, aspettando di veder entrare sua madre con Innico Althan, ma la mamma e il fidanzato non comparivano; erano arrivati Giovannella Sersale con sua sorella Candida Montemiletto e suo cognato Francesco Montemiletto. Strano a dirsi, non più la faccia di Giovanella mostrava quella mestizia profonda, quella incurabile malattia dello spirito che si manifesta in ogni fibra, nel colore, nelle linee, — invece ella mostrava un volto calmo e concentrato, come tutto chiuso in un sogno, in un pensiero, pareva quasi, che con uno sforzo inaudito, ella fosse giunta alla liberazione del suo spirito, a uno stato di contemplazione serena. Non più essa si accompagnava con Felicetta Filomarino, la triste fanciulla che serbava gelosamente il suo segreto, rodendosi di dolore: ma usciva sempre con sua sorella e con suo cognato, con sua sorella che le aveva tolto un marito, un fidanzato: e un misterioso sorriso le fioriva sulle labbra. Era entrata Angiolina Cantelmo con sua sorella Maria e con suo padre: non più Angiolina, non più una donna, ma uno stelo sottile, sottile, di un biancore di rosa finissima, senz’ombra di sangue sotto la pelle, una cintura così piccola che parea dovesse spezzarsi in due ad ogni movimento, certe mani così scarne, che il piccolissimo guanto vi faceva su mille pieghe. E si vedeva in lei tutto il desiderio di apparire ancora sana e bella, un mantello a ricche pieghe l’avvolgeva per dissimulare la magrezza del corpo, una sciarpa folta di merletto circondava il collo bianco e scarno, una veletta bianca punteggiata di nero calava sulle guancie a dar loro una vivacità fittizia. Gli occhi le brillavano, ella sorrideva: quando il padre, il duca, provato ripetutamente dalla sciagura domestica, aveva visto deperire la sua bella e buona figliuola, per amore di colui che viaggiava lontano, era andato dal principe Serracapriola padre, a implorare per la salute di sua figlia che se ne moriva, se questo matrimonio non si faceva. E il principe aveva consentito, anche pel suo figlio assente, purchè la dote fosse aumentata di duecentomila lire; il suo figliuolo poteva sperare e chiedere molto di più, ma Cantelmo era un amico, un parente, si sarebbero contentati padre e figliuolo, di mezzo milione, poichè la ragazza se ne moriva. Era tornato il bel viaggiatore, indolente, freddo e scettico, per far la corte alla sua fidanzata, e la delicata creatura rigermogliava, come le fragili rose bianche si schiudono, in certe calde giornate d’inverno. Ella portava sulla faccia la trasformazione della felicità: ella parlava poco, con una voce fievole, ma dove tremava sempre una emozione. Entrando ella vide subito che il suo fidanzato era nel gruppo di Giulia Capece, il sorriso che gli mandò era parola, luce, affetto, sentimento, tutta un’anima che s’involava. E subito quelle che amavano e che la intendevano, Eva Muscettola, Tecla Brancaccio, Eugenia d’Aragona, Chiarina Althan la circondarono, guardandola con una grande tenerezza, non osando domandarle come si sentiva, parlandole sottovoce, spingendola verso il fondo del salone, perchè non prendesse freddo alla corrente d’aria. Un gruppo di giovanotti era entrato, Willy Galeota, Peppino Sannicandro, Carlo Mottola; Mario Capece, era anche arrivato, portando un mazzo di vainiglia e di mughetti, per la sposa che partiva; la conversazione parziale divenne generale, ognuno si meravigliava che Massimo e Olga non arrivassero, mancavano soli venti minuti alla partenza di Roma. Eugenia si faceva giurare da Giulio che giammai sarebbero partiti da Napoli, per le loro nozze, essi si potevano chiudere nella immensa e fiorita villa d’Aragona, alla riviera di Chiaia, non vi era bisogno di lasciar Napoli, ella adorava Napoli, ella odiava tutti gli altri paesi del mondo.

Ci fu un grande movimento, Massimo e Olga erano entrati, tenendosi a braccetto, tutti li circondarono, vi fu quasi un’acclamazione di saluti. Ella era sempre più carina, nel suo vestito di lana azzurro cupo rialzato sopra una gonna di casimiro rosso, tenuta ferma da una rondinella nascosta fra le pieghe della tunica: una rondinella pareva spiccasse il volo dal cappellino di felpa azzurro cupo: ella era pallidissima: Massimo aveva la sua solita aria di uomo seccato e seccante. Come Olga vide tutti quelli che l’aspettavano per salutarla e le mani amiche che le si tendevano e i bei fiori che le offrivano, fra tanti affetti, tante simpatie, tanti ricordi, un tremore nervoso l’assalse, non poteva piangere, ma gli occhi le pungevano, la gola era soffocata dai singhiozzi. E man mano, ella si appartò con tutte quelle che erano state sue amiche, avendo con ognuna di loro una tenerezza, una promessa, un rimpianto, una speranza da scambiare: Massimo discorreva straccamente coi suoi amici, tenendo le mani in tasca, il cappellino abbassato sugli occhi, il contegno dell’essere perfettamente annoiato.

— Ti abbiamo portato le rose, Olgadisse la prima sorella Sannicandro, guardando la sposetta, con certi occhioni pieni di lagrime.

— Sono un ricordo di Napoli, non ti scordare, Olga, — aggiunse l’altra.

Ella si chinò sulle rose, le odorò lungamente, le baciò, poi senza altro dire, baciò le due bambolette sulle due guancie: e le due bambolette, dopo essersi guardate, come facevan sempre, nello stesso tempo, allungarono il labbruccio inferiore e si misero a piangere.

— O care, care, non piangete, — ella disse, tremando, e fece cenno a Maria Gullì-Pausania, che venisse a consolarle. La futura cognata si avanzò regalmente, diede un freddo bacio sulla fronte di Olga e le disse tranquillamente:

— Ci vedremo a Parigi, fra sei mesi, Olga: io ci verrò con Peppino: tu vi sarai?

— Non so, non so.... — mormorò, confusa, Olga Daun, guardando furtiva suo marito, che già si accostava, infastidito, alla porta di uscita.

E Maria Gullì-Pausania si portò in un cantuccio le sue cognatine che singhiozzavano sempre, si mise a parlar loro quietamente, come una vecchia nonna che predica la saviezza, e quelle l’ascoltavano, levandole gli occhi in faccia, come bimbe che si affidano alle promesse della nonna.

— Eccoti dei giacinti, bella mia, — disse Eugenia d’Aragona. — Ritorna, Olga.

Ritornerò, Eugenia.

Ritorna presto: è freddo laggiù, qui vi è il caldo, Olgarella.

E si appoggiò, tutta fidente, tutta innamorata, al braccio di Giulio Vargas.

— Ti rammenti le serate che abbiamo passate insieme, Olga? — disse sottovoce Tecla Brancaccio. — Quello che tu hai desiderato, ecco, ora l’ottieni. Sii felice, cara.

— Possa tu ottener quanto desideri, Tecla!

Debbo ottenerlo o morire, — soggiunse l’altra, fermamente.

— La prendi una commissione per Pietroburgo? chiese Giulia Capece alla sposa. — È possibile avere una pelliccia di volpe russa? Io muoio dal desiderio di averla.

— Me ne rammenterò, — mormorò la sposa, guardandosi attorno, con gli occhi trasognati di chi non si raccapezza più.

Olga mia, la vita sempre serena, il cuore sempre innamorato, — le disse, piano, Chiarina Althan.

— Come è possibile, Clara? — rispose sullo stesso tono, con accento doloroso la sposina.

Sii buona, sii buona, non ci pensare, — le soggiunse l’amica, toccandole la fronte, come per benedirla.

Ma sulla porta Massimo Daun, al colmo dei malumore, s’impazientava: l’impiegato annunziava a voce alta la partenza per Roma, tutti si affrettavano, la sposa si avviò anche lei, seguita dal corteo delle sue amiche. Un grande vento s’ingolfava sotto la tettoia, il gas fluttuava, Massimo Daun innanzi a un compartimento riservato, buttava gli scialli e i fiori sui divani, con mal garbo. Un senso di pena dominava oramai tutta la gente venuta a salutare Olga: quella piccola bionda, affettuosa e buona, bel fiore cresciuto al sole napoletano, che se ne andava pel mondo, che s’imbarcava nel mare della vita, con tanto pericolo di naufragio, commoveva tutti quanti. Finanche Anna Doria, la vecchia zitella rabbiosa, s’inteneriva, guardando quel piccolo essere, senza protezione, senza difesa, buttarsi nella lotta dove tante erano le probabilità di essere calpestata:

Scrivimi, Olga, scrivimi, non ti dimenticare.

— Sì, sì, scriverò.... — diceva l’altra, parlando come in sogno, con le labbra tremanti e gli occhi che non potevano piangere.

Coraggio, Olga mia, coraggio e saldezza, — le disse all’orecchio Elfrida Kapnist, — allora nulla sgomenta,

Buona fortuna, Elfrida, — rispose la sposina, appoggiandosi allo sportello, presa quasi da uno svenimento.

A lei si accostò Angiolina Cantelmo, e le due ragazze si guardarono un momento, un’occhiata così intensa e profonda che le labbra non trovarono altro da dire: Angiolina teneva strette le manine di Olga nelle sue mani magre, quasi le volesse comunicare magneticamente le dolci cose che avrebbe voluto dirle. Le mancava la voce:

— La Santa Vergine.... — arrivò a dire, fievolissimamente.

— Oh Angiolina.... — balbettò la sposina, quasi interrompendola.

E finalmente le lagrime le sgorgarono dagli occhi, ella pianse in silenzio. Eva Muscettola strinse Olga fra le braccia, sentendola piangere sulla sua spalla, dicendole:

Ricordati che ti vogliamo bene, sempre, sempre: te ne voglio tanto, Olga mia....

La campanella suonava:

Olga, Olga, — disse la voce secca e fischiante di Massimo.

— Eccomi, — rispose lei, ubbidendo

 

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A gruppi di tre o quattro, salutandosi alla porta della stazione, tutti si mettevano in carrozza per scendere verso Napoli. Ed Eva era ritornata alla sua preoccupazione, invano Chiarina le parlava di cose allegre:

Dove sarà Innico? — scoppiò a dire Eva.

Mah... non saprei, — rispose l’altra, interdetta.

— Oh Chiarina, credi tu che egli mi ami? Come faccio, se egli non mi ama?

Buttata nelle braccia della sua amica, singhiozzava, mentre la carrozza le riconduceva a casa: e l’amica la consolava, dicendole delle cose tenerissime, carezzandola come una bimba malata. Ma in realtà Chiarina Althan era pensosa e triste.

 

 

 


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