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IV.
Le carrozze signorili entravano nell’ampio chiostro di S. Chiara, tutto pieno di sole invernale, dal portone spalancato sulla via del Gesù Nuovo; deponevano gli invitati alla porta della chiesa, innanzi al coltrone sollevato, donde si vedeva un fulgore di ceri; poi andavano a prender posto per aspettare, laggiù, in un angolo del grande piazzale deserto, presso l’altro portone sbarrato che dava sulla via della Rotonda. I curiosi si affollavano al portone spalancato, cercando di scorgere qualche cosa: ma, si entrava solo con un biglietto d’invito. Qualche invitato pedone arrivava vestito di nero, con la cravatta bianca che s’intravedeva dal soprabito, il gibus e i guanti chiari, come per un matrimonio: mostrava il biglietto, entrava nel chiostro, scompariva nella bocca nera della chiesa, che una aureola di ceri pareva irradiasse, nel fondo. Delle signore entravano a piedi, vestite di nero, tutte scintillanti di perline, stringendo nella mano il libro di preghiera. I curiosi credevano che si trattasse di un grande matrimonio: e pazientemente, nella piazza del Gesù Nuovo, sugli scalini e sotto l’androne della Scuola normale aspettavano la sposa.
Nella chiesa tutta stucchi e oro, ornata come un salone, simpatica e allegra, per mitigare la luce avevano abbassate le tendine rosse innanzi ai vetri dei finestroni; e a destra, dalla cappella dove Maria Cristina di Savoia, la buona, la santa, dorme, sino alla porta, erano raccolti gli uomini: a sinistra dalla cappellina dove la Madonna di Giotto guarda la folla coi suoi pallidi occhi di un azzurro latteo, sino alla popolare cappella dove si venera l’Eterno Padre, il miracoloso Eterno Padre di S. Chiara, erano raccolte le signore: le due tribune erano circoscritte da certe balaustre di velluto rosso: all’entrata stavano ritti dieci servitori di casa Muscettola, immobili: facevano gli onori il duca di Mileto, fratello del duca di Muscettola, il principe di Montescaglioso, fratello della duchessa di Muscettola: sull’altar maggiore, inginocchiata sopra un cuscino di velluto rosso, appoggiata all’inginocchiatoio con la faccia tra le mani, la duchessa di Muscettola, vestita di nero, teneva la faccia tra le mani, e pregava, o piangeva, o pensava. E nella chiesa di S. Chiara, a destra, a sinistra si affollava tutta, l’aristocrazia napoletana, la bianca e la nera, la spagnuola e la siciliana, la calabrese e la salernitana, quella che vive fra Napoli, Sorrento e Castellamare e quella che vive fra la Scozia, l’Inghilterra e Parigi, capitando ogni tanto a Napoli, per introdurvi le mode francesi e inglesi. Oh non facilmente l’aristocrazia napoletana si riunisce con tanta solennità, in una chiesa, in un salone da ballo, in una festa pubblica! Molti uomini e molte donne che erano quella mattina nella chiesa di S. Chiara, per la casa Muscettola, non erano andati, sei mesi prima, nella chiesa di S. Maria degli Angioli a Pizzofalcone, pel matrimonio di Elfrida Kapnist con Willy Galeota, questo matrimonio che aveva colmato di collera le zitelle vecchie dell’aristocrazia, scandalizzato molte sposette e meravigliato tutti quanti: gli intransigenti continuavano a considerare Elfrida come un’avventuriera, gli indifferenti stavano a vedere; quel matrimonio aveva turbata tutta la società, vi aveva introdotto un elemento di vivacità un po’ boema, un po’ di zingarismo ricco. Non erano tutti andati al funerale di Angiolina Cantelmo, che si era spenta quietamente, in una serata di maggio, accanto a una finestra del vecchio e triste palazzo Cantelmo, tenendo una manina sul capo della sorella Maria e sorridendo a Giorgio Serracapriola: il funerale era stato fatto senza nessun invito, nella fredda cappella dei Cantelmo, fra i parenti stretti, il duca presente, piangente, invecchiato di dieci anni, versando le poche lagrime di vecchio sulla poesia della sua casa che s’involava: Giorgio Serracapriola era partito di nuovo, sopra un yacht a vapore, pel Giappone, lasciandosi dietro il ricordo della mite fidanzata, che lo aveva così unicamente amato. Neppure al funerale di Luigi Muscettola, il fratello di Eva, che si era tirato un colpo di rivoltella al cuore, una notte, uscendo da una bisca, la gente era intervenuta: i suicidi non potrebbero essere neppure seppelliti in terra benedetta, s’era dovuto scrivere a Roma, al papa, per averne il permesso, ma non vi era stata funzione, tutto era stato fatto di notte, alla chetichella. Al matrimonio di Peppino Sannicandro con Maria Gullì-Pausania solo la nobiltà siciliana era intervenuta; era stato fatto a Palermo, con una pompa immensa, coi valletti vestiti alla medioevale, la moschetteria al ritorno, nella loro villa-castello, fuori città. Tanta riunione di nobiltà si rinnovava, dopo un mese, dopo i magnifici funerali di Eugenia Vargas d’Aragona: la vivace, chiassosa, simpatica creatura era morta di parto, dopo avere dato un erede ai Vargas e agli Aragona, nulla aveva potuto salvarla; giovane, esuberante di vitalità, ricchissima, felice, amante di suo marito, la morte le era parsa una cosa orrenda, nel delirio gridava che non voleva morire, che la salvassero, per carità, quelli che l’amavano, ella si buttava al collo di Giulio, stringendolo da soffocarlo; morì disperata. Ora, la stessa gente, più numerosa forse per la novità della funzione, era venuta nella chiesa di S. Chiara. Alle undici in punto la novizia entrò nella chiesa, l’attraversò in tutta la sua lunghezza, per recarsi sull’altar maggiore. Ella era vestita di un lunghissimo abito di broccato bianco; sui riccioli castani un velo bianco amplissimo, che l’avvolgeva tutta; grossi orecchini di brillanti scintillavano alle orecchie delicate, un ricco fermaglio al collo, una fibbia alla cintura; le mani, guantate di bianco, portavano un mazzolino di fiori d’arancio e un libro di preghiere, legato in velluto bianco. Ella era tutta candida, da capo a piedi, candido il bel volto giovanile. Teneva abbassati gli occhi, quasi chiusi, ma senza serenità: una pace suprema era dipinta su quella faccia. Pace: non serenità. Non sorrideva, per cui non era serena. Le labbra pareva avessero respinto indietro il sorriso, per sempre: formavano una linea composta, che nulla poteva arcuare più, nel gaio riso della gioventù. Così il basso del volto che tutti avevano sempre visto commosso lietamente, dava a tutta la faccia come un subitaneo invecchiamento. Pareva un’altra: con la morte del sorriso, Eva Muscettola, la novizia, erasi trasformata. Un mormorìo nacque sul suo passaggio, qualche voce femminile disse, dolcemente, dolorosamente: Eva, Eva, Eva, ma ella non si volse neppure, continuò la sua strada, come se nulla più potesse interessarla. Dietro di lei venivano le due matrine: — la principessa di Tricarico, la gran dama mistica e pietosa, un portamento regale, un viso impallidito dalle tribulazioni e dalle preghiere; e la duchessa della Mercede, una spagnuola, magra, alta, dalle labbra sottili, dagli occhi di carbonella, diritta e fiera.... Quando fu sull’altar maggiore Eva s’inchinò, fece il segno della croce, si accostò a sua madre, ma non l’abbracciò, le baciò la mano: la duchessa aveva teso la faccia, ma si rigettò indietro, come pentita. La novizia s’inginocchiò, fra le due matrine: il cardinale Riario Sforza cominciò la messa, lentamente, muovendo a stento la persona, che l’età e l’ascetismo avevano mal ridotta. Gli uomini, ritti, avevano l’aria inebetita di coloro che sentono la solennità di una funzione e non osano abbandonarsi a quella emozione: solo, qualche vecchio, il duca d’Aragona, il duca Cantelmo, il duca di Isernia, colpiti da poco da sventura, osavano chinare la testa, essi a cui la fede era rientrata in core con la sciagura. Invece dall’altra parte, le signore pregavano, inginocchiate, abbandonandosi, in quell’ora mistica, ai loro sentimenti, afferrando avidamente quell’ora di raccoglimento. Tecla Brancaccio, la forte e dura volontà, l’animo oraggioso, guardava Eva Muscettola, chinava la testa e pregava: ella, ostinata, ferrea, nella lotta con Maria di Miradois aveva vinto, la spagnuola era ripartita per Barcellona, Carlo Mottola si era deciso a sposare Tecla, di mala voglia, bruciando ancora della vecchia passione. Tecla aveva vinto, penosamente, dolorosamente: ma Eva, sull’altar maggiore, vestita di bianco come una sposa, tenendo in una mano una candela accesa, nell’altra una croce d’argento, avendo abbandonato i fiori e il libro di preghiera, Eva, la bella e la buona, aveva perduto, era stata vinta; e Tecla, umilmente, ignorando il grande segreto di Eva, ma intuendone lo spasimo, pregava, pregava, per i vinti come per i vincitori, per donna Maria di Miradois come per sè, per la povera Eva come per coloro, gli ignoti, che l’avevano contristata irrimediabilmente. Anna Doria, buttata coi gomiti sopra una sedia, con la testa fra le mani, presa da una crisi nervosa di malinconia, pregava, stringendosi alle labbra il rosario; quella rinunzia di Eva alla vita, quel distacco da tutte le cose umane, persone e sentimenti, quella morte volontaria del cuore cristiano che aborre il suicidio, aborre il mondo e solo a Dio si volge, le parevano la fine della propria vita, le pareva che ella stessa, Anna Doria, a trentacinque anni, senza bellezza, senza speranza, senz’affetti, senza avvenire, non avesse altro scampo che andarsi a chiudere in un monastero. Col capo abbassato, in un assorbimento doloroso, Giovanella Sersale non aveva il coraggio di pregare, la sua anima era immersa nel peccato, ella amava il peccato, ella non aveva il coraggio di salvarsi dal peccato, ella era indegna di pregare, indegna di inginocchiarsi innanzi a Dio, giammai la misericordia divina poteva perdonarle: oh Eva, lassù, che aveva appoggiato il crocifisso di argento al petto, era scampata dalla tempesta, era in salvo, aveva rinunziato, ma lei, Giovanella, non poteva, no, doveva perdersi, doveva morire nel peccato. Accanto a Maria Gullì-Sannicandro, che pregava, decorosamente, per colei che fuggiva le vane pompe e anzichè dare spettacolo del suo dolore, si nascondeva per sempre in una clausura, Giulia Capece pregava, ringraziando il Signore che le aveva fatto la grazia; fra due mesi ella partiva per l’Inghilterra, ella sposava un vecchio principe, Napoli era ormai troppo lugubre, le ragazze vi morivano o vi si facevano monache, le spose morivano o fuggivano come Maria di Miradois, le avventuriere sposavano i principi; Giulia pregava quietamente, senza turbarsi, presa sola da una pietà per la bellezza di Eva, che andava a consumarsi in convento. Le due piccole Sannicandro, tanto carine sotto i capellini neri, erano inginocchiate d’accanto, strette strette, e dicevano il rosario insieme, la più grande cominciava, sottovoce, la seconda rispondeva, continuando, e pregavano fervidamente; un grande desiderio di salvarsi l’anima, di farsi monache, ambedue, veniva loro, avrebbero voluto diventare due santarelle, le due santarelle di casa Sannicandro: e Felicetta Filomarino, la fanciulla senza speranza e senza gioia, quella di cui tutti ignoravano il core, anzichè perire nel peccato spirituale come Giovannella Sersale, cercava al Signore la vocazione di Eva. Tutte le donne pregavano, commosse dal fatto e dal rito, dando sfogo ai loro dolori nella contemplazione della candida creatura ventenne che se ne andava a morire in convento: pregava finanche Elfrida Galeota, la zingarella divenuta contessa, pregava, rammentandosi le orazioni infantili che la vita randagia e gli stenti le avevan fatto dimenticare, pregava, col cuore umiliato nella vittoria, per colei che era stata sempre buona con lei, per Eva, che scompariva, volontariamente, dalla scena. E quella che più s’inabissava nella preghiera era Chiarina Althan, la creatura buona e intelligente: ella sola conosceva l’orrendo segreto che aveva distrutto la vita di Eva Muscettola, ella sola aveva la misura di quel sacrifizio, ella compiangeva la fanciulla, ma pregava per coloro che l’avevano uccisa, per coloro che mai più avrebbero avuto pace.
Il pontificale finiva. Il cardinale seduto, benediceva l’abito di monaca francescana che Eva doveva indossare, disteso in un vassoio di argento: poi inchinatasi all’altare profondamente, senza vacillare, senza levar gli occhi, senza vedere nessuno, Eva, seguita dalle due matrine, riattraversò la chiesa, uscì dalla porta nel chiostro, si avviò alla porterìa del monastero, dove le altre monache l’aspettavano: dietro venivano i preti, salmodiando. Di nuovo certe mani amiche si stesero, quasi per toccare il vestito di nozze di Eva, qualche voce la chiamò, ma ella non udì, come la prima volta. La madre era rimasta sull’altar maggiore: tutti la guardavano, per distinguere se piangesse; perdere un figlio dopo l’altro a otto mesi di distanza, veder finita la propria casa: un giovinotto morto con un colpo di rivoltella: una ragazza che si faceva monaca, doveva essere uno schianto insopportabile, per un cuore di madre. Ma la duchessa non levava il capo, restava solitaria sull’altare, il duca viaggiava, all’estero, non aveva voluto assistere alla monacazione della sua figliuola: la famiglia era distrutta da cima a fondo, i Muscettola scomparivano, l’eredità passava ai Mileto. Eva aveva disposto della sua dote per l’ospizio dei poveri fanciulletti abbandonati.
Un intervallo di silenzio si allungava nella chiesa: il sole aveva raggiunto il piccolo portico, quasi quasi penetrava dalla porta, tre finestroni si riscaldavano vividamente, mandando una luce rossastra sui marmi bianchi, sugli stucchi, sulle dorature della bella chiesa. A un tratto, accanto all’altar maggiore, una porticina si aprì, quella che comunicava col convento: innanzi ad essa vi era Eva. Le avevano levato il vestito bianco, il velo, i fiori, i gioielli, le scarpette di raso, tutto l’apparato mondano. La bruna tonaca delle monache francescane le scendeva ai piedi, dal collo, in pieghe grosse, strette alla vita dal cordone bianco: i piedi non si vedevano, le mani avevano il biancore giallastro della cera: i bei capelli biondo-castani le scendevano sulle spalle, disciolti. A vederla in quell’abito ruvido, Giulia Capece sentì un grande schianto al core e si mise a piangere silenziosamente. Il cardinale officiante che era entrato nel monastero con Eva si staccò dal fianco della badessa, si avanzò verso la monacanda, benedì il bianco scapolare, ed Eva lo passò al collo, macchinalmente, non guardando in volto nessuno. Conservava sempre la stessa fisionomia pacata, che nessun’altra espressione veniva a turbare, nè di dolore nè di gioia: questa immobilità di quel volto che tutti avevan sempre visto vivacissimo, feriva la fantasia più di qualunque espressione dolorosa. Infine Eva s’inginocchiò accanto alla porticina e chinò il collo: una monaca si staccò dalle altre e le si avvicinò, raccogliendole i capelli tutti in un fascio e stringendoli nel pugno: la badessa, una vecchietta curva con una grande croce gemmata che le batteva sullo scapolare, appoggiandosi a una mazzettina, si avanzò lentamente verso Eva. Dalla chiesa tutti tendevano il collo, si rizzavano in punta di piedi per vedere che accadesse nel vano della porticina. La novizia, inginocchiata, pregava, si vedeva il moto delle labbra: la vecchia badessa impugnò un paio di lunghe forbici, dalla lama lucentissima, le passò sotto il fascio dei capelli, che la monaca teneva stretto e sollevato. Sentendosi il freddo dell’acciaio sul collo, la novizia trasalì per un lungo brivido, forse di terrore: le donne che guardavano, senza più pregare, ansiose, frementi, provavano tutte lo stesso brivido. Le forbici, incerte nelle mani tremanti della vecchia badessa, stridevano, senza tagliare, non mordevano i capelli, si arrovesciavano, l’operazione pareva non dovesse finir mai, quei cinque minuti parvero una eternità straziante: il fascio dei capelli tagliati rimase nella mano della monaca, molle come una cosa morta. Qualche viso di donna, nella chiesa, si gettò indietro, pallidissimo, come se gli mancasse la vita. Elfrida Kapnist, contessa Galeota, abbassata la testa dai bruni capelli ricciuti e ribelli, la testa di boema libera e audace, piangeva sulla chioma recisa di Eva. Alla novizia, sul capo disadorno, a un tratto diminuito, diventato piccolino, come di certe persone morte, avevano buttato un velo nero.
La funzione non finiva ancora: la novizia Muscettola, per sommo favore della Santa Sede aveva ottenuto che le fosse risparmiato l’anno del noviziato, la vocazione sua era così profonda, così irresistibile, che desiderava pronunziare il voto nel giorno in cui prendeva il velo. Invano lo stesso suo confessore le aveva consigliato a desistere da questa idea, a far l’anno di noviziato forse poteva pentirsi della sua decisione e sarebbe stata sempre in tempo: ella si era mostrata così decisa, così irremovibile, che s’era dovuto ricorrere per forza a Roma. E Roma aveva consentito; oramai monache non se ne facevano più, una così ardente vocazione sarebbe servita di esempio. Dunque la novizia si era levata su, in mezzo al coro, innanzi alla porticina: quattro monache con le candele accese erano venute a circondarla. Le avevano data una lunga pergamena scritta in latino: ella la leggeva lentamente, lentamente, ma senza niun tremito nella voce, senza emozione, una voce che aveva già la monotonia delle voci monacali. Era la lunga formula del giuramento claustrale, che ella pronunziava al lume delle quattro torcie: le parole latine, gravi, sgomentavano l’anima di tutte quelle donne oranti: gli uomini stessi non si potevano togliere da quella emozione, un silenzio profondo regnava in quella grande chiesa. Alla fine Eva si fermò, e in italiano disse i quattro voti: castità, povertà, obbedienza e perpetua clausura. Tese la mano, giurò con voce tranquilla: prese la penna che le porgevano, firmò la pergamena, dopo lei firmarono la badessa e il cardinale. Irrefrenabilmente, Anna Doria piangeva, con un piccolo singhiozzo secco e rauco.
Poi la funzione divenne più lugubre ancora. In mezzo al coro, per terra, era disteso un tappeto; le monache vi condussero Eva, la fecero distendere supino, come persona morta, le incrociarono le mani sul petto, la coprirono con una coltre di velluto nero, gallonata d’argento, su cui erano il cranio e le ossa in croce, le insegne della morte. Attorno, ai quattro lati, come intorno al cadavere, ardevano quattro grossi ceri: e subito la campana di Santa Chiara si mise a suonare a morto. Le monache salmodiavano il Deprofundis. Le due Sannicandro, spaventate, piangevano strette l’una all’altra, pensando che realmente Eva fosse morta: Maria Gullì-Sannicandro si sentiva bagnare gli occhi di lagrime, a quei funerali di persona viva. Eva, nascosta sotto la coltre, rigida come cadavere, fu incensata, benedetta con l’acqua santa; le monache, con la croce, giravano in processione, intorno a lei. Oh come avrebbe voluto esser morta Giovannella Sersale, che non trovava più lagrime nell’ardore della sua passione, morta, morta, nel sonno profondo, donde mai più viene a svegliarci lo strazio; morta, morta, nel gran riposo, dove non si pensa più, non si ama più, non si soffre più! Come avrebbe voluto esser lei la monaca, Felicetta Filomarino, l’anima mistica, che era risalita dall’amore della creatura, sino all’adorazione pel Creatore, che sentiva sempre più liberarsi il suo spirito dai legami della terra! Le preghiere dei morti continuavano, profondamente penose, mentre il sole riscaldava oramai tutti i finestroni velati di rosso; la campana da morto risuonava sempre, e i curiosi che si accavalcavano sulla via domandavano se quello era un matrimonio o un funerale.
Il cardinale si avanzò verso Eva, e le disse in latino: Surge, quae dormis, et exurge a mortuis,et illuminabit te Christus! Tre volte la evocazione fu ripetuta, le monache sollevarono la coltre mortuaria, Eva si levò ginocchioni sul tappeto, poi sorse in piedi. Il cardinale la benedisse e scomparve dal coro: le monache la baciarono, una alla volta. La porticina fu richiusa, mentre la monaca, con le altre, orava: Ego sum resurectio et vita....
Tutte le donne, reclinato il capo, piangevano, su quella monaca.