Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Il romanzo della fanciulla
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NELLA LAVA.

I

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NELLA LAVA.

 

 

 

Una voce interna, lontana, rude, di marinaio rauco, superando il rumore delle onde contro il legno, gridò:

Chiamate!

Subito, un signore giovane, grasso e biondo, dalla pelle lucida di sudore, dalla camicia di colore col goletto molto aperto, senza sottoveste, dalla spolverina di lustrino nero, dalla pretensiosa cintura di seta rossa che gli reggeva i calzoni bianchi estivi, sospese il dondolamento della sua sedia di paglia all’ingresso del corridoio dove stava scritto: donne, e rivoltosi verso il salone, gridò con voce stentorea:

Trentasette!

Un certo movimento si fece nel salone, gremito di gente. Eugenia Malagrida e sua madre, seguite dalla serva, cercavano di farsi strada sino al corridoio, che conduceva ai camerini delle donne, essendo le posseditrici del numero trentasette. Ma Eugenia e sua madre erano grasse, piccole, tozze, avevano l’andatura vacillante e ridicola delle oche; la madre, meno male, non avendo più pretese, non era troppo fasciata in un vestito di lanetta scura e aveva serena la faccia; ma Eugenia era stretta come in una morsa in un busto di seta cruda che l’affogava e la ingrossava per la sua tinta chiara, e le scarpette erano troppo piccole pel piede grasso e rotondo. La serva dietro, poi, era carica di sacche, di ombrellini, di ventagli, di ciambelle infilate alle dita; e sotto l’ascella aveva anche una bottiglia di Marsala, per riconfortare gli spiriti delle padrone, dopo il bagno. Quando le tre donne ebbero attraversata la sala, il movimento dei ventagli ricominciò, il chiacchiericcio femminile si elevò di nuovo, più forte del rumore del mare, mentre la brezza agitava le grandi tendine di tela cruda bordate di azzurro, e il signor Canavacciuolo, proprietario dello stabilimento, il signorotto biondo che chiamava i numeri, si passava un fazzoletto di seta gialla sulla fronte sudata.

Elvira Brown, la bellissima fanciulla napoletana, maritata a un vecchione di origine inglese, parlava sommessamente con Margherita Falco, la sua futura cognatina, la fidanzata di suo fratello. Avevano il numero sessantadue, loro; erano le dieci, giammai si sarebbero sbrigate prima dell’una: ed Elvira Brown si crucciava, quel vecchio sospettoso, rabbioso, cattivo di suo marito le avrebbe fatto una scena di gelosia, al ritorno. Margherita Falco, una creatura gentile, sottile, con un par di occhi pensierosi e un sorriso di dolcezza, l’ascoltava, cercando di consolarla, dicendo che Brown non era poi irragionevole, malgrado la cocciutaggine naturale dei vecchioni, che gli avrebbero spiegato....

— Tu non sai, tu non sai, — mormorava, crollando la bellissima testa, Elvira Brown e facendo scintillare i suoi grossi orecchini di brillanti.

Sì, per quanto Margherita vedesse e intendesse, ella non poteva misurare la gelosia malvagia di quel vecchione dalla parrucca rossastra, dalla dentiera falsa, dalle mani rosse e bitorzolute pei geloni, che aveva voluto la moglie giovine e bella, che la copriva di stoffe e di brillanti e la torturava coi suoi capricci schiattosi di vecchio maligno e testardo. Oh, Elvira lo sapeva bene, quello che le toccava, tornando a casa e sogguardava malinconicamente il cartoncino col numero sessantadue, mentre il signor Canavacciuolo, ubbidendo alla voce interna del marinaio che gridava: chiamate, rivolto verso la sala, gridava:

Trentotto!

Invece Annina Manetta, quieta, quieta, con la sua aria tranquilla, era profondamente soddisfatta di avere il numero sessantaquattro. Il suo innamorato, Vincenzino Spano, non era ancora giunto; sua madre, che era contraria a quest’amore, sbuffava e fremeva d’impazienza; la sorellina Adelina, una furba indiavolata, ridacchiava e mangiava ciambellette col pepe; Annina, sicura che avrebbe visto Vincenzino, conservava la sua calma di fanciulla ostinata, che nulla vale a vincere.

Due volte sua madre, nervosa e annoiata, aveva mandato in giro Adelina, la minore, per cercare di barattare il numero, volendone uno più basso, per entrare più presto, ma Adelina aveva gironzato per la sala, aveva bevuto dall’acquaiuola un bicchiere d’acqua ferrata col limone ed era tornata a mani vuote: in realtà, ella era complice della sorella, che voleva aspettare.

La sala si stipava sempre più: erano le dieci mezzo. Erano giunte le due sorelle De Pasquale con la madre, le due filodrammatiche bionde e incipriate che raccoglievano applausi e allori di dilettanti nei teatrini privati e anche in quello solitario, abbandonato, lontano, di San Ferdinando dove i filodrammatici hanno preso dimora: elle fanatizzavano il pubblico nel Giorgio Gandi, nella Marcellina, nei Nostri buoni villici, nel Padiglione delle Mortelle, consumavano tempo, salute e quattrini, erano sempre circondate di ammiratori, ma non trovavano marito, e dalla scena avevano trasportato, nella vita, molta cipria nei capelli e sul viso, un po’ di rosso sulle labbra, e certe occhiate obblique di prima attrice giovane

Le Galanti, tre sorelle, tutte brune, simpatiche, dagli occhioni neri, dalle forme esuberanti, robuste troppo, ma coi mustacchi come la madre, un donnone che sembrava lei il generale della rivoluzione, di cui era vedova, avevano un circolo di ufficiali e di giovanotti eleganti, chiacchieravano e ridevano, mostrando i denti bianchi, un po’ selvaggie nella loro simpatia, specialmente Riccarda, che aveva i mustacchietti e le labbra grosse e rincagnate come una mora. Avevano una dote, le Galanti, erano state educate nel nobile collegio dei Miracoli e avevano un certo disdegno per le De Pasquale, miserelle, bionde, che si affannavano a esprimere la passione nella Gerla di papà Martin, e non pescavano un cencio di fidanzato, da cinque anni che avevano venti anni. I due gruppi fingevano di non guardarsi, ma le Galanti erano indispettite che quell’elegante giovanotto, il marchesino Gerace, fosse sempre attaccato alle gonnelle di Elena de Pasquale, la più carina delle due sorelle: le De Pasquale erano invidiose pei grossi orecchini di corallo di Riccarda Galanti e pel braccialetto d’oro, eternel, di Emilia Galanti.

Chiamate! Chiamate! — urlò di dentro il marinaio.

Trentanove, quaranta! — strillò il signor Canavacciuolo, facendosi vento con un ventaglio cinese, di carta, da cinque soldi.

Caldissimo batteva il sole di agosto, sulla copertura di legno del salone di aspetto. Era piuttosto una grande loggia coperta, poggiata su grosse travi che le onde non arrivavano a scuotere, legata alla spiaggia da una viottola di legno che scricchiolava sotto i passi delle persone. Era una loggia sfinestrata, dalle tende che battevano al vento caldo di ponente e che lasciavano vedere il gran mare azzurro e scintillante, il gran mare, poetico, giovane e fragrante: anzi quando si sollevava una mezza tenda, a sinistra, si vedeva il Vesuvio, di un bigio delicato, impennacchiato mitemente di bianco. Enrichetta Caputo entrò, seguita dalla madre: e i begli occhi della fanciulla, ammiccavano, cercando qualcuno. Era semplicemente vestita di tela cruda, con un colletto alla marinara, molto aperto che lasciava vedere il collo bianco, con le scarpette di copale e le calze azzurre: ma il vestito valeva dodici lire, le scarpette dieci e le calze erano di cotone, un insieme poverello poverello, con cui ella riusciva ad esser carina e simpatica.

Dietro di lei la madre, una donna piccola e gonfia, sciammannata, vestita come una serva, con un cappello disfatto e certe scarpaccie gialle di cuoio. Enrichetta restava sulla soglia, un po’ incerta, stringendo nelle mani una sacchetta di pelle tutta sdrucita: le Galanti, che erano buonine, la chiamarono. Vi fu uno strepitoso baciucchiamento.

Cercavo Eugenia Malagrida...., — disse, dopo, Enrichetta Caputo.

— È già entrata, — rispose Riccarda Galanti.

— Eppure mi aveva detto che mi aspettava..... — mormorò Enrichetta.

Si guardarono, la madre e lei, un minuto, interdette. Povere come erano, una vedova, l’altra orfana, di un capitano morto a Capua, nel 1860, da valoroso, stentando a vivere con la magra pensione, si attaccavano istintivamente alle ragazze ricche o meno povere che Enrichetta aveva conosciute nel collegio, dove la munificenza governativa le aveva accordato un posto. Enrichetta viveva metà della sua vita in casa di Eugenia Malagrida, la grassona brutta e ricca, facendola da satellite, carezzandola, adulandola, pettinandola, vestendola, purchè costei, ogni tanto, la portasse a teatro, la invitasse a pranzo, la conducesse in carrozza.

La povertà, il desiderio di farsi vedere, per trovare marito, la inducevano a una esistenza umiliante che spesso, in solitudine, le traeva le lacrime dagli occhi. Assolutamente non poteva fare i bagni di mare, Enrichetta, non avendo quattrini, e si avvinghiava disperatamente a Eugenia Malagrida, perchè la portasse seco. Ma dovevano venire a piedi, essa e sua madre, dal Padiglione del Divino Amore, nella vecchia Napoli, un convento senza monache che il governo dava per abitazione alle famiglie dei militari: venivano a piedi sotto il sole, sino alla Villa e accadeva loro, talvolta, di giungere troppo tardi. Eugenia Malagrida era già entrata nel camerino, scordandosi con la noncuranza delle persone felici, che la sua amica non avrebbe potuto prendere il bagno senza lei.

Così quella mattina erano restate in asso, madre e figlia, avendo in tasca solo un pezzo da dieci centesimi: e già guardavano, con scambi di saluti e di sorrisi, la signora Brown e Margherita Falco, calcolando di aggrapparsi a loro per farsi condurre in un camerino, erano due donne sole e cortesi tanto! Ma in quel momento Elvira Brown che tremava sempre di giungere troppo tardi, era arrivata a barattare il suo numero con quello di un giovanotto, che lo aveva preso per la famiglia della sua innamorata, la quale non giungeva ancora: e come chiamavano il numero quarantatrè, Elvira Brown e Margherita Falco si mossero per andare. Ora l’occhiata fra Enrichetta Caputo e sua madre fu desolata: come prendere il bagno? E restavano ancora a chiacchierare con le Galanti, madre e figlia, col forzato sorriso delle persone che soffrono, e non si movevano, non andavano a comperare il biglietto, come dimentiche del loro scopo: tanto che Riccarda Galanti, la morettona, se ne accorse, e nella sua bontà, disse a Enrichetta Caputo:

Perchè non vieni nel camerino nostro?

— Siete già in molte, darei incomodo, — fece quella, mordendosi le labbra per non piangere.

— Ma che! abbiamo il camerino doppio, staremo benissimo, vieni, te ne prego.

Subito, il volto simpatico di Enrichetta si rischiarò: sua madre, la grassa serva dal volto macchiato di lentiggini, rassicurata, si alzò, trascinando gli scarponi gialli, e andò a comperare due soldi di ciambelle. Erano le undici e mezza, non vi erano più sedie disponibili nel salone, i giovanotti restavano in piedi, nei leggieri ed eleganti vestiti estivi, col cappellino di paglia buttato indietro sulla fronte, dondolando la borsettina di pelle gialla, sospesa a un cordoncino, facendo ala o circondando le ragazze. Il caldo diventava insopportabile, i ricciolini artefatti si discioglievano sulle fronti sudate, le mamme, le vecchie parenti si facevano vento rumorosamente. Caterina Borrelli, dalle due grosse trecce buttate giù per le spalle, dal vestito di percallo troppo corto sul davanti, cogli occhiali bizzarramente inforcati sul naso, dal sorriso ironico, si sventolava con un numero del Piccolo piegato a ventaglio, dondolandosi maschilmente sulla sedia, ridendo sottovoce con l’amica sua, Annina Casale.

Erano due alunne della scuola Normale, che avevano superati gli esami felicemente e si davano bel tempo nelle vacanze, passando mezza giornata al bagno, rientrando in casa alle tre, con una fame da lupo, dormendo dopo pranzo, come tutte le fanciulle borghesi napoletane, in estate.

Fra le due, Caterina Borrelli era sempre quella che aveva qualche liretta in tasca e le consumavano in paste, in ciambelle, in biscotti, mangiando prima, dopo e durante il bagno; erano famose, nello stabilimento, pel loro appetito. Diceva loro il signor Canavacciuolo, napoletano arguto:

Santa Lucia vi salvi la vista, signorine mie, perchè l’appetito va bene.

Ora, al pianoforte, un giovanotto scarno, pallido, dalle tempie vuote, dal soprabitino stinto si era seduto — e suonava una polka. Il pianoforte era scordato e la polka strideva: ma quelle ragazze, tutte, erano prese dal brivido del ballo. Enrichetta Caputo crollava il capo in misura, scordandosi la sua povertà. Riccarda Galanti canticchiava il motivo della polka, le De Pasquale, le biondine incipriate, si riversavano sulle sedie, prese da un certo entusiasmo. Caterina Borrelli, faceva ballare le sue lenti, intorno al suo dito indice.

Tutte quelle ragazze dentro, si lasciavano andare alla passione giovanile pel ballo, a quel formicolìo fisico e morale a cui nessuna di loro resiste, la più brutta, la più storta. Financo Maria Jovine, la pallida e bruna fanciulla zoppa, tutta elegante, tutta profumata, piena di merletti, coi guanti che le salivano sino al gomito, con l’ombrellino dal manico di avorio scolpito, col grande ventaglio dipinto da un pittore, la povera zoppina che aveva centomila lire di dote e che non trovava marito, financo Maria Jovine, seduta accanto a sua madre, una bella donna ancora giovine, batteva la misura col ventaglio sulle dita, ella, la misera zoppina che non poteva ballar mai. A un tratto la musica finì: tutte quelle testine, quelle mani frementi, quei piedini in moto, si arrestarono. Il suonatore, pagato dal signor Canavacciuolo, per rallegrare la società, si era levato e sembrava più meschino, più rattrappito, in piedi: andò a bere un bicchiere di acqua solfurea, in cui non lasciò mettere neppure il limone, per pagarlo solo due centesimi. Ma nessuno più si occupava di lui: una voce era corsa:

— Le Altifreda, le Altifreda!

Tutte si piegarono a guardare verso la spiaggia, su quella grande zona di arena scura che divideva il mare da quella verdezza ombrosa che è la Villa. La curiosità scoppiava, vivacissima. Le Altifreda erano due belle e sdegnose ragazze: arrivavano in carrozza propria, a due cavalli, con la cameriera e la maestra di nuoto, il servitore portava le sacche, le cinture di salvataggio, un paniere con la colazione. Vestite con un gusto eccezionale, ombreggiando le belle faccie sotto certi larghi cappelli originali, con una grazia fiera che incantava, esse attraversavano lo stabilimento, sempre a mezzogiorno, senza fermarvisi mai, dandosi il lusso di un camerino proprio che le aspettava, non guardandosi intorno, parlando fra loro, come se il resto del mondo non esistesse. Nell’acqua esse avevano un costume di flanella ricamato tutto di rosso, le scarpette di paglia per non guastarsi i piedini, dei cappelloni eleganti: e si allontanavano, con la maestra di nuoto, ritornavano dopo un’ora di esercizio, tutte fresche e rosse.

Le altre ragazze dello stabilimento invidiavano, odiavano quelle antipatiche e superbiose Altifreda, che erano così ricche, così belle, così eleganti, così fiere: e ne inventavano delle belle sul loro conto. Già, con le loro pretese, diceva Enrichetta Caputo, non troverebbero mai un pazzo abbastanza pazzo da sposarle: che! non avevano dote, diceva Riccarda Galanti, il padre spendeva per loro tutto quello che aveva, per farle figurare: erano dipinte, dicevano le De Pasquale, mordicchiandosi le labbra miniate: sarebbero diventate due otri, quando si maritavano, diceva Caterina Borrelli che pretendeva sempre di fare delle osservazioni profonde, alla sua amica Annina Casale: in quanto ad Annina Manetta, ella era immersa nel buddismo completo dell’amore, il suo Vincenzino Spano era giunto, sedeva dirimpetto a lei, si guardavano continuamente, malgrado i rabbuffi della madre. Le Altifreda passarono, in mezzo a un grande silenzio, con la loro grande aria di fanciulle superiori: dietro di loro un nuovo mormorio sorse, il signor Canavacciuolo che non si alzava mai, si era levato per lasciarle passare.

Anche le Galanti, con Enrichetta Caputo, si avviarono per prendere il bagno, poichè era libero il doppio camerino: e di nuovo lo strimpellatore di pianoforte preludiò sulla tastiera giallastra. Si trattava di canto, adesso. Cantava una femmina alta, scarna, bruna, dalla pelle lucida, come unta, dai grossi denti gialli come i tasti del pianoforte, dal sorriso amabile: era vestita o piuttosto coperta da un gramo vestito di seta nera, tutto liso e rosso sulle cuciture, senza goletto bianco, con un corno di corallo rosso per ornamento; sui capelli radi, tinti, di una tinta color marrone, un cappello di paglia nera, con una penna rossa tutta strigliata e cascante; senza guanti. Doveva essere la madre del pianista: e stava presso il pianoforte, in una posa romantica di cantante espressiva, con la testa un po’ arrovesciata, un sorriso estatico sulle labbra. Con una voce flebile, falsa, ella incominciò a gemere una vecchia romanza di Ciccillo Tosti:

 

Penso alla prima volta

.  .  .  .  .  .  .  .  .

 

Caterina Borrelli, che non capiva la musica, si mise subito a ridere: ma Annina Casale, sentendo il sentimentale ritornello:

 

Ma tu, tu l’hai scordato,

Dici che un sogno fu....

 

divenne tutta pensosa. La cantante socchiudeva gli occhi, bruttissima, sudicia, ridicola: e gorgheggiava come un canarino vecchio e stonato. Ora, malgrado l’apparenza sudicia, l’aria ridicola e la voce falsa della cantatrice, il sentimentalismo musicale della romanza tostiana faceva immalinconire le ragazze del salone. Annina Casale pensava a uno studente di legge di Cassino, che le aveva scritte centoventi lettere di amore, in quaranta giorni, dedicata una quantità di sonetti e di canzoni libere e che l’aveva piantata per sposare in provincia la figlia di un negoziante di cuoio; e la sua amica Caterina Borrelli, che faceva la donna forte, si sentiva presa da una malinconia indefinita, essa che non era mai stata tradita, mai aveva tradito.

Annina Manetta, la grande martire dell’amore, quella che pigliava quotidianamente degli schiaffi dalla madre per causa di Vincenzino, guardava il suo innamorato con gli occhi pieni di lagrime; la Jovine, la zoppina, pensava a un cugino che era andato lontano, che l’aveva amata prima che ella avesse quella disgrazia della gamba e che anche lui l’aveva scordata, come quello della romanza di Tosti. Elena De Pasquale, che aveva ventotto anni e quattro fidanzamenti andati a male, aveva di che rattristarsi: e la sorella minore, Ida, gonfiava le labbra, come per piangere, con una smorfia che le veniva dalla recitazione delle parti d’ingenua.

Ma quello più attento era un gruppo di ragazze che se n’erano state fino allora a chiacchierare vivamente in un angolo del salone; al principio della musica esse avevano drizzato il capo tacendo, con un’aria di conoscitrici scontente. Erano le due sorelle Fusco, due ragazzette gemelle, quindicenni, che da un anno cantavano al teatro Nuovo, nella Bella Elena, la particina dei due Ajaci, che vengono in iscena tenendosi a braccetto, cantando una strofetta, salutano cavandosi l’elmo e si ritirano in fondo, per poi vagolare attraverso l’operetta, come comparse; e siccome erano carine, quasi sempre applaudite per la loro grazietta giovanile, avevano tutte le arie di prime donne che guadagnino milioni, cantando a Londra o a Pietroburgo.

Era Elisa Costa, una fanciulla lunga e magra dalla carnagione color polmone, afflitta da un ventre rotondo e prominente, per cui tutti la prendevano per una signora incinta, cosa che l’affliggeva molto; Elisa Costa che studiava da dieci anni il canto drammatico, essendovi destinata per la sua figura e per inclinazione, come ella diceva, e che non arrivava mai a scritturarsi, malgrado che declamasse con una grossa voce stridente Ecco l’orrido campo del Ballo in Maschera, e il Pace, pace mio Dio, della Forza del Destino, a tutti gl’impresari, agenti teatrali e segretari di agenzie capitati in Napoli. Era Gelsomina Santoro, che studiava il canto al Conservatorio, che appena sapeva leggere, che non sapeva scrivere affatto, che aveva solo un filo di voce, non capiva nulla della grammatica musicale, ma che certo avrebbe fatto carriera, visto la sua bellezza. Questo gruppo ascoltava la musica, con le sopracciglia spianate e l’aria assorbita delle persone importanti; le Fusco compativano la povera cantante, ridotta a quel mestiere, mentre, forse, avrebbe potuto avere miglior fortuna; la Costa faceva un moto di disprezzo con le labbra e Gelsomina Santoro aveva sempre il suo aspetto sereno di stupidona soddisfatta e seducente. La cantante finì, senza che nessuno l’applaudisse: stette un momento indecisa, poi andò attorno con piattello di stagno. Cercava, sorridendo, ma senza guardare in viso la persona, voltando la testa dall’altra parte; e aveva un contegno fra scettico e umile, come se fosse sicura di raccogliere poco. Infatti, fra tanta gente, raccolse solo cinque soldi. Li buttò in tasca senza superbia, ma senza guardarli: fece una crollata di spalle e andò a sedersi in un angolo, aspettando a cantar di nuovo.

Due soldi glieli aveva dati proprio una delle sorelle Cafaro, certe ragazze provinciali, di Picinisco, in Terra di Lavoro, che passavano a Napoli cinque o sei mesi dell’anno. Erano ricche, tanto ricche, trecentomila lire di dote per ognuna e poi delle eredità, che nessuno in paese, nella provincia, osava di chiederle.

Correva voce che avessero pretensioni enormi, niuno osava presentarsi: esse si maturavano, la più grande aveva trent’anni, la seconda venticinque, la terza ventidue, erano belle, eleganti, educate benissimo, ma il vederle tutte tre insieme zitelle un po’ emancipate, che amministravano la propria fortuna, che avevano un certo fare virile, che si accentuavano in certe acconciature esagerate, che sfoggiavano brillanti, i fidanzati sparivano. Esse erano generose e buone, ma certo invidiavano qualche povera ragazza senza un soldo, che si maritava a diciotto anni: spendevano largamente, ricevevano, non avendo madre, ma non riuscivano. Giusto, era con loro Matilde Cipullo, maritata Tuttavilla, la grande impresaria di matrimoni: una bella donna borghese che era scappata con un nobilotto spiantato e che vivucchiava maluccio, ma andava nell’aristocrazia. E così, per gusto, per bontà, per ozio, per furia di pettegolezzo, ella si occupava alacramente di matrimonio, ella ne aveva sempre due o tre imminenti, combinati da lei, tre o quattro in progetto, ella fantasticava di maritare tutte le ragazze di sua conoscenza; con tutti i giovanotti che conosceva e non conosceva. Le ragazze e le mamme l’adoravano: ella passava la giornata in colloqui, correva da una casa all’altra, rappattumava le coppie che si portavano il broncio, si buttava fra tutti gli amori, assaliva ferocemente tutti i celibi. Ora, ella voleva maritare le sorelle Cafaro, che erano della sua provincia, ma non ci riusciva, non aveva da offrire dei partiti rispettabili, quelle ragazze erano troppo ricche: mentre una poveretta, come si collocava facilmente con uno spiantato, e dopo, dopo, si trovava sempre mezzo di andare innanzi! E tutte la conoscevano Matilde Tuttavilla, tutte la salutavano, ella si era fermata qualche minuto in tutti i gruppi, aveva parlato sottovoce con due o tre mamme, tutta sorridente, tutta affaccendata.

Il ponente rinfrescava: era l’una: un acuto odore salino, il cosidetto odore di scoglio, veniva dal mare nella sala: il movimento andava diminuendo, molte famiglie erano andate a fare il bagno, qua e si vedevano dei vuoti. Il signor Canavacciuolo si era ritirato in fondo a un suo camerino, dove lo si vedeva, da una tendina sollevata, mangiare allegramente un piatto di maccheroni al sugo di pomidoro, rossi, appetitosi: un suo fratellino teneva il suo posto, chiamando i numeri, i quali correvano. Le De Pasquale erano andate, Caterina Borrelli e Annina Casale, anche, le due Fusco con la Costa e la Santoro si apprestavano: solo Annina Manetta restava ancora, avendo un numero altissimo, con sua profonda soddisfazione: la madre le aveva già dato due pizzicotti nel braccio, non potendo fare altro; ella li aveva presi, senza lagnarsi: la sorellina mangiava delle telline, buttando i gusci nel mare. Le tende battevano al ponente, poca gente arrivava ancora, l’acqua doveva essere caldissima, dei giovanotti si attardavano ancora, aspettando le signorine che finivano le loro toilette, dopo il bagno: e gli appuntamenti per trovarsi alla villa, nella serata, si sentivano. La Brown e la Falco avevano portate via, in carrozza, Enrichetta Caputo e la madre, felici di farsi trascinare, dopo essere venute a piedi; le Altifreda erano ripassate tutte felici del loro bagno, coi bei capelli disciolti sulle spalle, con certi scialletti-asciugatoi di cotone, turchi, elegantissimi, sulle spalle, prendendo tutti i loro comodi, facendo arrabbiare tutte le altre. A quell’ora, litigando fra loro, strillando, tutte scalmanate, arrivarono le sorelle Sanges; cinque sorelle, figlie di un impiegato municipale, più o meno brutte, straccione, chiassose, coperte di gioielli falsi, di vesticciuole ritinte, di merletti fatti a mano, di cappellini quattro volte rimodernati, le scarpette tinte con l’inchiostro per nascondere le screpolature. Ed erano tutte innamorate, furiose, si rubavano i fidanzati, litigavano come tante serve, odoranti di cipria grossolana, senza guanti, danzatrici ardenti, pettegole atroci, del resto poverissime. In fine dei conti, quando furono a comperare il biglietto, nessuna aveva i quattrini: dopo essersi insultate fra loro, tutte cinque andarono a parlamentare fragorosamente col signor Canavacciuolo, che le lasciò entrare, nella sua bonarietà di napoletano.

 

 

 


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