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II.
Dolcissima ai sensi, soavissima al cuore era scesa sopra Napoli la sera di settembre. Alte, nitide, con un tremolìo vivo scintillavano le stelle: dalle finestre spalancate sull’ombra, dai balconi dove qualche ombra bianca contemplava la sera fiotti di luce uscivano: dalle terrazze venivano suoni amorosi di chitarre e di mandolini e voci cantanti, con lunghe nenie sentimentali: per tutto era un odore acuto penetrante, di fiori nascosti, di piante germoglianti nell’ombra, di erbe odorifere; per tutto un soffio tepido, carezzevole che pareva l’alito di persona amata. E dalle otto, per le vie di Toledo, di Chiaia, del Chiatamone, fra le vetrine tutte fulgide di gioielli, di ventagli piumati, di cappellini eleganti o lungo la riva del mare poetico, su cui sfrusciano i platani del Chiatamone, era un lento movimento di gente che si avviava alla Villa. Due file di carrozze scendevano in giù, come due fiotti rotolanti; il tram carico, ogni minuto passava correndo e fischiando, attraverso piazza San Ferdinando, portando sempre gente alla Villa; ma i marciapiedi erano fitti fitti di pedoni che, mollemente, in quella sera di domenica, se ne andavano al grande ritrovo serotino napoletano.
Era una sfilata continua di abiti bianchi, o chiarissimi, su cui erano stati gittati, talvolta, più per grazia, che per ripararsi dal fresco autunnale, certi scialletti di lana azzurra o di un roseo molto tenero; una sfilata continua di visetti freschi, giovanili, con la frangetta di capelli bruni o di capelli biondi tagliata sulla fronte, in linea retta, come i cavalieri che si vedono nei quadri del Giorgione, con la treccia grossa raccolta sulla nuca, attraversata da uno spillone di tartaruga. Dietro venivano le mamme, i padri, le zie, le vecchie cugine, gli accompagnatori e le accompagnatrici rassegnate e pazienti, che trascinavano il passo: ma veramente la serata domenicale alla Villa, apparteneva alla gioventù, alle ragazze e ai giovanotti a cui basta un po’ di cielo sereno, un albero, una nota musicale allegra o triste, un’occhiata fugace, un piccolo sorriso, per essere profondamente felici.
E alla porta spalancata del grande giardino pubblico che la gioventù napoletana adora e a cui deve tanto l’amore, il flutto della gente si disperdeva pei cinque viali diritti, fiocamente illuminati dai lumi a gas. Per l’ultimo viale a sinistra andavano gli esseri solitari, melanconici, che cercavano invano un’anima vibrante alla loro vibrazione di sentimento; pel secondo gli idillii già cominciati e fiorenti, sotto i materni sguardi indulgenti, le coppie amorose che forse si sarebbero sposate, nevvero, tutto si fa in questa onesta intenzione, la questione è solo di tempo, intanto si è giovani ed è bello l’amarsi, quando tanta è la dolcezza delle stelle e degli sguardi femminili.
Proprio, quel secondo viale, porta il nome di viale degli amanti, così naturalmente vi si avviano le coppie che amano di camminare piano, stringendosi ogni tanto la mano, scambiando quelle brevi parole sommesse che equivalgono a un bacio, tanto dentro vi trema una emozione: e dietro le accompagnatrici o gli accompagnatori vanno chiacchierando fra loro, sorvegliando abbastanza, non molto, misurando saggiamente l’amore ai puri esseri innocenti, che così poco rende felici. Nel grande viale di mezzo andavano le comitive, due o tre famiglie riunite che si dànno convegno da una domenica all’altra, che si ritrovano per via, che camminano per file, le ragazze con le ragazze, le mamme con le mamme e i giovanotti dietro, con la tuba sulle ventitrè, il fiore all’occhiello, la mazzettina sotto il braccio; e queste comitive si seguono, senza fine, chiamandosi, rispondendosi, con le file che ogni tanto si arrestano, aspettandosi, riunendosi, avendo per questo bisogno di andarsene pel grande viale di mezzo, tutto scoperto, sotto la chiara luce delle stelle.
Nel primo viale a destra, dove è doppia la fila dei lampioni, andavano tutti quelli che volevano essere veduti: le ragazze più vanitose che sentimentali, più civettuole che amorose, le quali preferiscono l’ammirazione volgare di venti passeggiatori, all’amore di uno solo, le spose fresche che inalberano il loro primo vestito di seta chiara e il cappello con la piumetta tremolante; le vedove scaltre che vorrebbero riprendere marito e non si decidono, e intanto godono quello stato transitorio, così pieno di delizie per la vanità femminile; gli uomini che vogliono attirar l’attenzione e i personaggi che si credono importanti. Solo l’ultimo viale a destra, chiamato dei filosofi, piccolo, stretto, oscuro, un po’ sinuoso, era deserto, frequentato solo di giorno, quando il sole lo riscalda. E in tutti quattro i viali, fra gli alberi, fra le bianche statue di marmo, che coronano le fontane e da cui qualche sottile filo di acqua scorre nella vasca sottoposta, fra il candore delle ninfee, fra i bianchi sedili di marmo già tutti occupati, continuava a sfilare quel biancheggiamento di vestiti, quella processione gentile di ombre femminili, che sono la nota predominante delle serate estive napoletane, alla Villa.
Nella mitezza dell’aria quelle gonne, quelle bianche fantasime avevano qualche cosa di armoniosamente giovanile nel loro andare: e la poesia della notte, dell’estate, degli alberi, della giovinezza, della penombra, le circondava.
Ma il centro della Villa, dove tutte quelle persone erano dirette, era sfolgorante di luce. Sotto la statua di Giovan Battista Vico, il filosofo pensoso, dalla testa china, in un grande cerchio luminoso di candelabri fiancheggianti, stava la musica: e attorno attorno, a destra, a sinistra, a gruppi, a viali, era la gente seduta, in piedi, prospettandosi, ammucchiandosi, secondo la simpatia, secondo le abitudini. E come al Parlamento, pareva che volontariamente i due grandi partiti opposti si fossero formati, ognuno mettendosi al suo posto, così vi era alla Villa, la destra e la sinistra: la destra formata dalla gente più matura, dalle ragazze un po’ più antiche, molto eleganti, che già ricorrevano a qualche artificio dell’arte per parere ancora fresche; dalle mogli mal maritate che venivano a consolarsi nella Villa della crudeltà coniugale che le lascia senza villeggiatura nell’estate; dalle vecchie civette che ancora si vestivano di bianco, coi capelli tinti e le labbra sanguigne; dalle signore pretenziose che volevano tener circolo.
Invece la sinistra, un po’ più democratica, era fatta dalle ragazze sinceramente giovani e sinceramente belle, che ricorrevano a poche risorse di toilette, che aspettavano il fidanzato, o l’innamorato, o il corteggiatore con la forte fiducia di chi crede nel destino; dalle signore che volevano ridere e scherzare e conversare alla buona; dagli studenti che andavano lì solo per vagheggiar la bella e non per farsi vedere, non per fare ammirare il proprio nodo di cravatta, ma per dare, di nascosto, un fiore alla bella amata. La destra aveva l’aria orgogliosa e fingeva di non vedere la sinistra, invidiando in fondo le sue qualità di gioventù e di bellezza: la sinistra, contenta di sè, non guardava neppure la destra.
Il caffè di Mariano Vacca, un grande chiosco di vetri e di legno, a due piani, splendido di lumi, era posto al centro dei gruppi che appartenevano un po’ alla destra, un po’ alla sinistra: in mezzo camminavano gli osservatori, gli indecisi, gli increduli, gli sfaccendati di anima e di corpo.
. . . . . . . .
Il vecchio Brown se ne stava seduto accanto alla moglie, col soprabito abbottonato ermeticamente, il bavero alzato, il mento appoggiato al pomo del bastone e serbava il silenzio delle serate di malumore, in cui la moglie giovane invano gli rivolgeva delle occhiate supplichevoli, mutamente scongiurandolo a parlare, a sorridere, a mostrarsi socievole. Quella sera, il vecchio malvagio quando aveva udito che Margherita Falco e il fidanzato, fratello della Brown, andavano alla Villa, aveva detto subito:
— Veniamo anche noi, così non si dirà che chiudo mia moglie in casa.
E nella sua vanità di vecchio che aveva sposata una giovane, l’aveva obbligata a uscire, ella che si rifiutava, l’aveva obbligata a vestirsi di un abito bianco tutto ricco di merletti che la rendeva seducentissima, le aveva egli stesso messo alle orecchie certe boccole di smeraldi e brillanti, le aveva annodato le sciarpe leggiere di un cappellino che era un amore. Ella lasciava fare, rassegnata quasi, diffidando a ragione di questa soverchia bontà. Difatti, appena furono sul viale grande e le persone si voltavano, in quella penombra a guardare il bel volto della Brown, come prese da un fascino, il vecchio fu assalito da una gelosia nera, si chiuse in un silenzio profondo. Ella chinava il capo, pallida, mortificata, non avendo il coraggio di parlare: e guardava, invidiandoli, suo fratello e Margherita Falco che giovani, belli, innamorati e poveri, si sarebbero sposati e sarebbero stati felici. Le salivano le lagrime agli occhi, guardando la faccia arcigna di quel vecchione. Si erano seduti a destra, ella un po’ indietro, con gli occhi bassi, i due fidanzati più innanzi, sereni, discorrendo placidamente, pieni della dolcezza di quella sera.
— Avete visto? avete visto? — diceva Filomena Sanges alle altre quattro sorelle — la Brown porta un altro paio di orecchini questa sera. Gesù! Gesù! quanto è felice quella femmina!
— Sì, ma quanto è schifoso quel vecchio! — osservò Carluccio Finoia, primo commesso in una banca privata e fidanzato di Carolina Sanges.
— Che fa! — disse Carolina, stringendosi nelle spalle — è ricco, tanto basta!
Carluccio Finoia rimase un po’ male, egli che aveva cento lire al mese di paga e che doveva aspettare altri quattro anni per sposare Carolina. Giusto, quella sera egli si era mostrato splendido, pagando quattordici soldi di sedie, per le cinque sorelle, per il fratellino e per sè.
Per le ragazze Sanges che ogni sera, a qualunque costo, andavano alla Villa, quello di sedersi era un grave problema, lesinavano i soldi della spesa, ma spesso non vi riuscivano e dovevano andare in cerca di qualche corteggiatore dovizioso: e anche quello, spesso non lo trovavano e allora giravano attorno, attorno, tutta la sera, due per due, l’ultima col fratellino, come cavallucci di carosello, stanche, coi piedi indolenziti, dovendo anche fare il cammino a piedi sino a San Giovanni a Carbonara, dove abitavano.
Ma quella sera, Carolina aveva afferrato alla porta della Villa Carluccio Finoia, il quale aveva dovuto fare il gran signore: e le cinque sorelle si pavoneggiavano, nella luce cruda delle fiammelle a gas, tutte pompose nei loro vestiti di percallo lavato e rilavato, stirato in casa, mostrando le scarpette sdrucite e le calze di cotone da quindici soldi il paio, infarinate di cipria, con le gole brune scoperte e l’aria sfacciata delle brutte che si credono belle. E come, verso le nove e mezza, la folla cresceva, cresceva sempre, mentre la banda suonava il pezzo di Strauss: Libera la via, le ragazze Sanges facevano la rivista critica, pettegola, spietata, a tutte quelle che passavano. Giusto le ragazze Galanti erano arrivate allora allora, con certi abitini nuovi di percallo rosa, che si adattavano con la tinta bruna del viso e gli occhioni neri: e avevano, tutte tre, i capelli annodati con un nastro rosa.
— Sembrano delle mosche in un gelato di crema, — osservò Concetta Sanges, che era la più brutta di tutte.
— La più grande avrà almeno trentadue anni, — disse Chiarina che ne aveva ventotto, — le sta bene portare il nastro nei capelli, come se fosse una bambina.
— Vanno al caffè, vanno, per prendere il gelato, vedete quanto sono scostumate, — mormorò Carolina, che sarebbe stata felice di prendere lei il gelato.
— Sono tanto carine, specialmente quella coi ricci neri, — disse Carluccio Finoia che si voleva vendicare della sua fidanzata.
Costei lo guardò ferocemente: da quel momento, per tutta la serata, Carluccio e Carolina non fecero che litigare, ora dicendosi delle ironie sanguinose, ora dandosi alle ingiurie gravi: le sorelle lasciavano fare, come se non ci fossero. Una di loro, intanto, Concettella, voltandosi verso il grande circolo che avevano le sorelle De Pasquale, credette aver fatto colpo su Pasqualino Jacobucci, un dottorino che, forse, fra tre o quattro anni, quando avesse avuto una clientela, avrebbe sposato la più piccola delle De Pasquale: e Concettella, dai denti macchiati dallo scorbuto, dalla magrezza malaticcia, dalle tempie vuote di capelli, cominciò a fare la sentimentale, occhieggiando, appoggiando la testa alla mano, facendosi vento lentamente.
Le De Pasquale vestite di bianco, con certi nodi di velluto nero e certi cuffiotti alsaziani di velo bianco con nastri neri, con le sopracciglia tinte, e le labbra sboccianti rosse come il melagrano, erano carine e chiacchierando, si rovesciavano sulle sedie, ridevano per far gonfiare la gola bianca, come facevano nelle commedie, mostrando i dentini. Giusto giusto, Giovanni Laterza, uno studente calabrese, pieno di quattrini, che quelle ragazze volevano a forza far recitare, malgrado la sua durissima pronuncia, per pompa, aveva fatto venire, dal caffè di Mariano Vacca, le granite di amarena per tutti quanti: e questa mostra di generosità faceva rivoltare tutti quelli che passavano, le Sanges erano furiose, nessuno offriva mai loro un bicchiere d’acqua. Solo il circolo della Jovine, la simpatica zoppina, vestita di bianco, serbava un certo contegno serio, riprovando quella mancanza di convenienza; la Malagrida, che quella sera si era unita con la Jovine, affogata in un vestito di seta azzurra, tutta gonfia, col collo troppo corto, con un colletto troppo alto e troppo grosso, trovava anche lei, che i gelati si prendono al caffè e non al pubblico; ed Enrichetta Caputo che aveva messo dei nastri azzurri, regalatile dalla Malagrida, sul suo vecchio abito bianco, era dello stesso parere, ella era sempre del parere di chi la conduceva con sè, in carrozza o al teatro.
La circolazione diventava difficile, la gente già arrivata non si stancava mai di girare attorno, quella che arrivava, non trovava più sedie, era una processione fittissima e lenta, sfilante fra le due siepi di sedie, intorno, intorno: i giovanotti occhieggiando le ragazze, buttando il fumo delle sigarette dalla parte dove rimaneva il loro cuore, le ragazze che si tenevano a braccetto, guardavansi intorno con quella meravigliosa potenza visiva di obliquità, che solo le fanciulle possiedono. La musica era adesso un pot-pourri del Barbiere, un pezzo allegro, sbuffante allegria. Solo la Brown diventava sempre più malinconica, vittima bella e ingioiellata, pensando alla scena che le avrebbe fatto a casa il taciturno marito. Da che si erano seduti, un ufficiale di artiglieria, dirimpetto a lei, non finiva di guardarla e il vecchio se n’era accorto e aveva tirato la sua sedia in modo da coprire il capo di sua moglie: subito, l’ufficiale aveva cambiato posto: la Brown, senza levar gli occhi, tremava come una colpevole, voleva andarsene e non osava dirlo, suo fratello, e la sua fidanzata erano così felici! E non volendo guardare intorno, per non dare sospetti al vecchione, fissava un punto rosso fra gli alberi, che ora si faceva pallido, ora pareva divampasse, come l’olezzare alternato di un soffio infiammato: la piccola, solita eruzione del Vesuvio, di cui nessuno si occupa in Napoli.
La musica, adesso, suonava uno dei soliti pezzi concertati, un miscuglio di variazioni sopra tutte le arie della Jone di Petrella; e il movimento della folla che girava, pareva regolato in cadenza, sulla passione di Glauco o sul lamento desolato di Nidia. La dolcezza della sera aveva persuaso alla passeggiata una quantità di persone che non appaiono quasi mai: e le più schive famiglie borghesi di via Salvator Rosa, di Sant’Eligio, di via Garibaldi, della barriera Grande e del Largo Barracche si erano lasciate trascinare, laggiù, fra i platani e le fianmelle a gas, fra le sedie di ferro e la banda municipale. Le persone sedute finivano per perdere la visuale, non contemplando altro che un fittissimo corteo di altra gente, che si accalcava sempre più e sempre più andava piano.
Matilde Cipullo, trascinantesi dietro il nobile ma spiantato marito, nonchè due altri giovanotti che ella doveva ammogliare, era seccata di quel ritardo: si tirava dietro il cavaliere Arturo Ajello, un impiegato di prefettura, bel giovanotto che ella voleva sposare con Enrichetta Caputo, una buona azione, proprio una carità fiorita; Giovanni Pasanisi, un proprietario di Salerno che ella destinava a una delle Cafaro, le riccone, la seguiva fedelmente. E arrivata nel gruppo dove erano riunite Eugenia Malagrida, la Jovine, Enrichetta Caputo, dopo un grande sbaciucchiamento fra i saluti e gli abbracci, ella siedette un momento, tanto per poter consegnare Arturo Ajello alle Caputo, madre e figlia: ma costui per non aver l’aria di niente, si mise a parlare con Eugenia Malagrida, la grassona goffa, sul cui viso lucido una grande soddisfazione si diffuse, tanto era difficile che un giovanotto si occupasse di lei. Dopo dieci minuti, non potendo reggere, Matilde Cipullo si levò su, andò via, portandosi Giovannino Pasanisi, cercando dappertutto le Cafaro. Le Sanges si rodevano, esse avevano litigato con la Cipullo da quando ella era zitella, giammai ella aveva voluto far la pace con loro, le trovava troppo ineducate, troppo straccione, le sarebbe stato impossibile maritarle mai.
Le Cafaro erano sedute in spalliera, sotto la statua di Gian Battista Vico, tutte vestite di mussolina leggiera bianca, degli abiti elegantissimi, un po’ troppo leggieri, forse, ma su cui certi grandi capelli neri, piumati, un po’ strani, stavano benissimo. E avevano tutte le singolari cose che le zitelle mature, molto ricche, si permettono: tutte tre le catene e l’orologio, gli orecchini di brillanti, i guanti di camoscio troppo alti sulle braccia, sempre un po’ di rosso alle labbra e un’aria di disinvoltura troppo spiccata. Una sola di esse discorreva con Peppino Sarnelli, un avvocato che guadagnava molti quattrini, ma che non aveva un soldo di capitale; e lui le faceva la corte, dolcemente, senza troppa ostinazione, innamorato, forse, ma non audace e Teresina Cafaro l’accettava, non si sa mai, consolata da quell’onda di amore, senza pensare all’avvenire: le altre due sorelle non intervenivano mai, come disinteressate, guardando la folla, senza neppur parlare fra loro, senza scambiare una parola con la vecchia dama di compagnia, che le accompagnava dovunque: tacevano, assorbite, con gli occhioni fissi su quelli che passavano, prese dal fachirismo delle zitelle che vogliono maritarsi.
E quando Matilde Cipullo giunse, tutta scalmanata, con Giovannino Pasanisi, di Salerno, la seconda sorella si tolse alla contemplazione ed entrò in conversazione, poichè era lei che avrebbe dovuto sposare Giovannino Pasanisi: e la terza sorella Cafaro, la più giovane, rimase isolata, silenziosa, guardandosi intorno con tutte le sue forze, sapendo bene che a lei, ancora ventenne, nessuno avrebbe condotto un fidanzato, e che doveva trovarselo da sè, fidando solo sulle proprie forze.
Non avendo potuto trovar sedie, Caterina Borrelli e Annina Casale, oltrepassata la rotonda luminosa, passeggiavano più innanzi, nel cosidetto boschetto della villa, dove uno solo è il viale grande e cinquanta sono i piccoli viali sinuosi fra le aiuole e i gruppi di olmi. Ivi la luce era fioca e il profumo delle erbe, dei gelsomini di notte, acutissimo; e vagavano in quella penombra di alberi tutti coloro che desideravano fuggire la folla, desiderosi di silenzio, di frescura, di vie larghe dove si potesse respirare l’aria lieve e fine di quel giardino accanto al mare. Le coppie che s’incontravano non si guardavano neppure, ognuna occupata della sua conversazione, l’uomo chinato con amore verso la donna, portandosela a braccetto in quella grande bellezza armonica di cose, stringendola a sè, come per protezione; la donna levando il capo, amorosamente, verso l’uomo, bevendo le sue parole, inebbriandolo col suo sorriso.
Tutto quel boschetto era pieno di questo sussurrio di parole dolci, di questi sguardi innamorati, di queste luminosità di sorrisi; tutto il boschetto delle acacie frondose, dall’odore refrigerante, delle quercie basse e nere, era pieno di questo grande tremito d’emozione dell’amore. E Caterina Borrelli che fingeva di essere scettica, poichè aveva letto troppi romanzi, si lasciava anch’essa prendere dalla bellezza molle e serena di quella sera: e la tormentata fisionomia che l’occhialino sul naso rendeva più originale, si distendeva e diventava quasi piacente. Infarcita di cattiva letteratura e di poesia idealista, ella andava ripetendo sottovoce dei versi di Prati, malinconici:
Ventiquattr’anni avea quella gentile....
Annina Casale ascoltava, sospirando, pensando allo studente di legge che l’aveva tradita: ma dietro di lei un altro studente, questa volta di medicina, veniva passo passo, camminando piano, fumando un grosso sigaro, di cui Annina vedeva bruciare la punta, guardando un po’ di fianco; e il nuovo idillio si andava svolgendo, con una certa lentezza. Annina non si voltava troppo, allora allora Caterina Borrelli aveva finito di farle una predica piena di rettorica sugli amori inutili.
Le Fusco, i due Aiaci del Teatro Nuovo, erano fermate presso il tempio di Virgilio, sedute sopra un sedile, con due giovanotti corteggiatori che non mancavano mai di venirle ad applaudire, ogni sera, al teatro, dalle poltrone, e filavano, giovanissime ancora, ma già scaltrite, parlando dei loro trionfi teatrali, facendo le disgustate del matrimonio: e la madre, una vecchia rabbiosa e stizzosa, seduta al banco di rimpetto, fingeva di sorvegliarle e si faceva vento dispettosamente, sonnacchiosa, obbligata alle veglie continue. Mancava la Costa: ma ella non usciva quasi mai di sera, per paura di guastarsi la voce — e Gelsomina Santoro era alla rotonda, non amando di filare, preferendo l’ammirazione di tutti quelli che passavano, alla corte di uno solo. Fino alla loggetta, fino all’altra porta della Villa, su Mergellina, era un vagabondare d’amanti, il bell’amore semplice, ardente, bonario e poetico di Napoli, fatto fra i fiori, gli alberi, innanzi al mare, sotto le stelle, nelle indimenticabili serate, create per quest’amore.
Solo alle undici, mentre la musica suonava l’ultimo pezzo, il famoso waltzer di Métra, che tutte le ragazze hanno ballato, la Vague, la folla cominciò a diradarsi: partivano prima le famiglie più borghesi, quelle che profittavano dell’omnibus che va a porta San Gennaro, la sera di domenica, sino alle undici; quelle che abitando lontano, debbono rientrare a piedi. E l’andare delle famiglie era lento, le ragazze cercavano di prolungare la loro serata amorosa, camminando piano: il padre e la madre venivano dietro, posatamente. Solo Maria Jovine, la simpatica zoppina dagli occhioni azzurri, andando via, con la sua bella mamma, era uscita per la porta di mezzo, stancandosi a camminare, raggiungendo subito il loro equipaggio: essa non stava bene che seduta, nella carrozza, nelle feste e al teatro; tutte le gioconde attività giovanili le erano inibite, questo le dava una grande attrazione di malinconia.
Elvira Brown, suo marito, il vecchione ingrugnato e nauseante, il suo bel fratello con la sua gentile fidanzata, Margherita Falco, anche venivano via, i due amanti non dandosi il braccio, ma camminando allato, con le mani che si sfioravano: Elvira e il suo marito che le dava braccio, dietro, muti, il vecchione battendo forte il bastone sul terreno duro della Villa, preso da una profonda collera gelosa, poichè, dietro di loro si udiva il ticchettìo della sciabola dell’ufficiale che li seguiva.
— Non verremo mai più in questa Villa, — aveva borbottato il vecchio Brown, con la voce fischiante fra la dentiera falsa.
— Mai più, — aveva risposto sua moglie, umilmente, frenando le lagrime che le salivano agli occhi e la soffocavano.
E attraverso i viali, più rada ma continua, ricominciava la sfilata dei vestiti bianchi femminili. Annina Casale e Caterina Borrelli, che abitavano accanto alla Madonna dell’Aiuto, dopo aver comperato delle paste al Caffè di Napoli e aver bevuto dell’acqua con lo sciroppo d’amarena, per affogare la malinconia, venivano via anch’esse, dicendo insieme dei versi di Aleardo Aleardi, il Monte Circello, dove si parlava di Corradino:
Un giovanetto pallido e bello....
tanto più che il nuovo studente di Annina era un biondino smorto. Le Fusco, ritornate ai chiarori della rotonda, avevano ritrovata la loro amica, Gelsomina Santoro, la creatura bellissima dagli occhioni bigi e dai denti smaglianti, la stupidona per cui gli uomini cominciavano ad ammattire. E nell’andarsene, le due sorelle e l’amica parlavano dei loro sogni teatrali, del Teatro Nuovo; per l’autunno si sarebbe allestito l’Orfeo all’inferno, una delle sorelle ambiva di fare la parte della Pubblica Opinione, l’altra sperava che le avessero assegnato la parte di Amore, ambedue dovevano cantare una sola strofetta, ma ambedue avrebbero avuto una tunichetta bianca e breve, un costume troppo corto e i due corteggiatori fremevano, presi dalla gelosia che è nel sangue napoletano: Gelsomina Santoro sognava di essere scritturata al Teatro Italiano di Malta, dove cantano tutte le debuttanti belle e senza voce.
Le ragazze De Pasquale restavano ancora, tutte ridenti e fresche, abituate dal teatro a prolungare la veglia, senza curarsi della stanchezza della madre, vera figura scialba e amabile di madre nobile da commedia: si poteva discutere ora che quella noiosa musica, sempre la medesima, era finita; a Pasqualino Jacobucci, a Giovanni Laterza, il contino Geraci era venuto ad aggiungersi, con la sua aria scettica di giovanotto stanco di piaceri. E una discussione nasceva, sulla pizza, la focaccia tradizionale e popolare napoletana, che Pasqualino Jacobucci disprezzava, avendone preso una indigestione, che Giovanni Laterza ignorava, conoscendo solo lo scagliozzo, una specie di panino gravido di carne fritta e di provatura soffritta, che il contino Geraci dichiarava ignobile, mentre la pizza esercitava sul suo stomaco atonizzato una strana attrazione. Le ragazze, parlandone, facevano gli occhi dolci dolci e rovesciavano un po’ il capo: tanto che fu lì per lì deciso di andare dal pizzaiuolo, al Vico Freddo a Chiaia: esse acconsentirono subito: queste piccole cene, queste scappatine notturne solleticavano la loro fantasia di attrici da burla. La madre non diceva mai di no: le ragazze si buttarono sulle spalle certe mantelline di lana rossa, un po’ teatrali; il contino Geraci, sempre corretto, offrì il braccio alla vecchia, i due giovanotti alle ragazze, e le tre coppie si avviarono, nelle ombre molli della notte napoletana.
Concettella Sanges schiattava di dispetto, aveva creduto che Jacobucci la guardasse, si era lusingata di togliere il fidanzato a Elena De Pasquale; ma era stata una illusione. Ora, tutte le sorelle mormoravano contro le ragazze Galanti che tutta la sera avevano tenuto circolo, mostrando le scarpette di pelle dorata, agitando e facendo tintinnire i braccialettini d’argento, tutte brune, ma simpaticissime, specialmente Riccarda: Emilia Galanti aveva accanto il suo dottore in chirurgia cui avrebbe sposato l’anno seguente: Riccarda più vivace, più spiritosa, ne teneva a bada due o tre, di corteggiatori, amandone forse un quarto, in segreto; e le Sanges, maliziose, avevano scoperto che Mariannina, la più piccola delle Galanti, filava con un piccolo tenente, appostato di rimpetto, che non la perdeva mai d’occhio. E le mormorazioni crescevano, Carolina massimamente, arrabbiata con Carluccio Finoia, era diventata implacabile.
— Che te ne importa? — soggiunse costui. — Le Galanti hanno la dote militare.
— Chi te l’ha detto? — strillò allora, — come lo sai? Ti sei informato, eh?
— Lo so, — rispose egli brevemente.
Carolina lo guardò con tanta ferocia di sospetto, che egli chinò gli occhi, arrossendo. Il caffè di Mariano Vacca si vuotava, ogni momento una famiglia si levava su dalle sedie, partiva; il sediaro andava rimettendo in fila le sue sedie. Nel levarsi le Galanti s’incontrarono con Eugenia Malagrida ed Enrichetta Caputo, che andavano via anche loro: ed essendo amiche fecero un po’ di strada insieme.
Le Galanti portavano certe cappine di merletto nero, per cui le Sanges impallidirono d’invidia; Enrichetta Caputo si avvolse al collo una sciarpa di lana bianca, lavorata in casa, già lavata; ma Eugenia Malagrida aveva un mantelletto di lana ricamato d’argento, bellissimo, che la rendeva più goffa dell’usato; malgrado questo, per non far mostra di nulla, Arturo Aiello, l’impiegato che era là per Enrichetta Caputo, mentre sogguardava di soppiatto la bella ragazza povera, camminava accanto alla tozza grossolana, regolando il suo passo su quello di anatra di Eugenia. Era una lunga processione di donne: le tre madri, la Caputo, la Malagrida, la Galanti, venivano dietro, chiacchierando, la Caputo umile e volgare come una serva, trascinando il suo corpaccio disfatto, la Malagrida grassa, ma composta, con la bonarietà della mercantessa arricchita, la Galanti alta, forte, robustissima, con un po’ di mustacchio come sua figlia Riccarda, la voce grossa e il tono imperioso. Nel viale, Matilde Cipullo maritata Tuttavilla raggiunse la processione, si unì, guardò a che stavano le cose fra Enrichetta Caputo e Arturo Aiello, le parve che andassero bene, e subito si mise a parlare alla signora Galanti di un matrimonio per Riccarda, un proprietario di Terra di Lavoro, che sarebbe capitato a Napoli la settimana entrante. La Galanti ascoltava, rideva, rispondeva che ella lasciava libere le sue figliuole, che Riccarda specialmente, aveva una testolina capricciosa, che non si sarebbe maravigliata di vederla restare zitella.
E le tre madri fecero un coro: se fosse stata da ricominciare, la loro vita; con la esperienza dell’esistenza che avevano, non si sarebbero mai maritate, lo predicavano sempre alle figliuole — ma costoro erano tante creature ostinate, volevano imitare le mamme, che cosa farci?
Le tre mamme crollavano il capo, ridacchiavano fra loro, mentre Matilde Tuttavilla si scandalizzava; che vi era di meglio del matrimonio, per le ragazze? E malgrado i suoi stenti col marito, nobile, ma povero, ella parlava del matrimonio piena di emozione e piena di entusiasmo, apostolo convinto, che ogni minuto cercava di far proseliti alla sua fede.
Le Cafaro rimanevano, sotto il gas, quasi dimentiche dell’ora; Teresina intenerita, scossa dalle dolcissime cose che Peppino Sarnelli, l’avvocato eloquente e pieno di avvenire, le andava dicendo, sentendo dileguarsi nell’anima, a quell’onda letificante di amore, tutti i sospetti che può avere una fanciulla ricca, contro un pretendente troppo povero; Gabriella ascoltando Giovannino Pasanisi, parlandogli, scrutando ogni sua intonazione, ogni sua intenzione, facendogli subire quel rigoroso esame in cui le donne esaminatrici sembrano amabili, ma sono, in fondo, senza pietà; Carmela, la giovane, tutta sola, silenziosa, già stanca, ma paziente, lasciando che le sorelle combinassero i loro affari di cuore, sapendo bene che ella traeva vantaggio dai loro matrimonii. Quando si alzarono per partire, ella infilò il suo braccio sotto quello della governante, lasciando andare innanzi le due coppie, tranquilla nella sua aspettazione.
Sole, alle undici e tre quarti, le Sanges rimanevano, ostinate, malgrado la lassezza di una giornata passata a spazzare e spolverare, a cucinare, a stirare, non avendo serva, comprando la spesa del pranzo dalla finestra, con un panierino: e si litigavano ancora, a proposito delle Altifreda, di quelle belle e fiere ragazze che erano andate a passare l’autunno in Isvizzera, quando tutte le altre ragazze della borghesia, ricche, agiate o povere, rimanevano in Napoli. Le Sanges si incocciavano a restare, il piccolo fratello borbottava, quando Carluccio Finoia, per far pace con Carolina, ritrovandosi ancora una lira in tasca, propose di mangiare dei fichi d’India, tre un soldo, bianchi, rossi e gialli; li avrebbero trovati in piazza Municipio, andando verso S. Giovanni Carbonara, dove le Sanges abitavano. E una furia le prese, poichè nessuno pagava loro rinfreschi al caffè, di mangiare questi fichi d’India, e mentre le quattro sorelle litigavano fra loro, Carolina se ne andava con Carluccio, tutta gloriosa della magnificenza del suo innamorato.
Ora, a mezzanotte, la Villa era vuota: e l’accenditore del gas venne, spense le fiammelle, lasciandone una ogni otto, una luce fiochissima. La notte stellata, profonda, dolcissima, si allargava sul giardino degli amori: solo, nell’ombra, alenava il respiro del Vesuvio, ora di un rosso pallidissimo, ora infuocato, quasi divampante.