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III.
Era un grande stanzone quadrato, senza parato, dipinto semplicemente di giallo smorto: sui mattoni grezzi, sempre polverosi, malgrado l’acqua che vi buttava sempre la signora Caputo, non vi era tappeto. Lungo la parete un divano di lana cremisi, sfiancato, le due poltrone anche di lana, cremisi, coperte di pezzi di merletto all’uncinetto, lavoro speciale di Enrichetta: due o tre scaffaletti di legno nero dipinto, vecchio, scrostato, su cui giacevano dei gingilli antichi e brutti, un albo di vecchie fotografie, certe scatolette di cartone coperte di conchiglie, certe bomboniere di raso stinto: un tavolino tondo in un canto, coperto di marmo bianco, già tutto macchiato di giallo, senza tappeto sopra, su cui erano posati due lumi: un pianoforte verticale, piccolino, con la spalliera di seta rossa tutta tagliuzzata e stinta: una quarantina di sedie di paglia, scompagnate, più basse, più piccole, con la spalliera rossa, con la spalliera nera: ecco tutto il mobilio. Per arrivare a questo stanzone dove si doveva ballare, bisognava attraversare un’anticamera che aveva per unico mobilio un grande tavolone dove posare i soprabiti e i cappelli, un altro stanzone oscuro e smobiliato, diviso in due da una tenda, dietro la quale si nascondevano i due miseri letti della madre e della figliuola; l’anticamera era illuminata da un lume a petrolio sospeso al muro, fumoso, ignobile; lo stanzone di passaggio era perfettamente oscuro.
Tutta la potenza dell’illuminazione era concentrata nello stanzone da ballo, due lampade a petrolio sul tavolino, un lume a olio sopra uno scaffale, due steariche nei candellieri del pianoforte; ma le steariche erano spente, per non farle consumare tanto presto. Alle otto, dietro la tenda, dello stanzone Enrichetta cuciva della trina lavata e stirata al suo vecchio corpetto di raso rosso e aveva ancora i capelli avvolti nelle cartine, era in sottanina bianca, una gamba accavalcata sull’altra e rispondeva acremente alla voce acre, al tôno brusco di sua madre:
— Bisogna che si dichiari con me, hai capito? Io sono seccata di vedermelo per casa.
— Io anche, ti assicuro: mandalo via, se vuoi, che non me ne importa niente.
— Perchè va sempre da Malagrida?
— Perchè ci sono io, dice lui.
— Che, che! Questo modo di agire mi dà sospetto: mi girano certe brutte idee pel capo!
— Che idee?
— Arturo ti pianta per Eugenia.
— Ma ha i denari, ha i denari, ha i denari — cantò su tre tôni la vecchia, cercando di allacciarsi un busto troppo sgangherato.
Enrichetta chinò il capo a quella parola, destinata a schiacciarla per tutta la vita. Bussarono alla porta: le due donne si guardarono, imbarazzate, erano seminude, nessuna dalle due poteva andare e la serva non ce l’avevano. Temevano che fosse già qualche invitato premuroso.
— Sarà forse la colonnella, — borbottò la vecchia, — le manca sempre qualche cosa.
E si rassegnò, si avvolse in un vecchio sciallo, trascinando le ciabatte, andò ad aprire. Enrichetta si pettinava, lentamente, guardandosi in uno specchietto verdastro con una ciera da ragazza annoiata della parte che rappresenta: quelle feste settimanali del sabato, in quella casa sporca e nuda che la pietà del governo elargiva alla vedova e all’orfana dell’ufficiale, in quel grande caravanserraglio che è il padiglione del Divino Amore, la tormentavano, poichè mai come in quella sera sentiva la sua miseria. Giusto la madre ritornò, borbottando.
— Che voleva la colonnella? — chiese la ragazza.
— Voleva le quattro sedie che mi ha prestate, ha delle visite.
— Brava! le sedie saranno poche; dove si siederà la gente?
— I giovanotti non hanno bisogno di sedersi, — rispose la madre, appuntandosi una camelia di battista nei capelli.
— E il petrolio nei lumi, ce l’hai messo, mamma?
— Ce l’ho messo, ma ce ne vorrebbe un altro poco; non sono pieni.
— E se si smorzano?
— Si smorzano, si smorzano!... A mezzanotte mando via la gente, io!
— Allora sarebbe meglio non farla venire.
— No, cara; ogni settimana si balla da Galanti, da Malagrida e da Falco; io non voglio restare indietro, capisci?
— Ma costoro hanno denari, — mormorò la ragazza, incipriandosi la gola scoperta.
Era il ritornello eterno, che la madre buttava in faccia alla figliuola, che la figliuola ributtava in faccia alla madre, periodicamente. Ciò le inaspriva, rendeva le loro conversazioni intime una guerra continua. Enrichetta si guardava nello specchio, soddisfatta di essere più bianca delle Galanti, più snella della Malagrida, più colorita della Falco, più piacente della Borrelli, più alta della Casale, più bella insomma, di tutte le ragazze che venivano a ballare da lei, il sabato.
— Gaetanino Ceraso ti fa la corte? — chiese a un tratto la madre.
— Un poco: non me la fa di più, per soggezione di Arturo.
— Arturo, Arturo !... bisogna liquidare questo affare di Arturo, ne parlerò stasera a Matilde Tuttavilla....
— E il pianoforte, chi lo suona? Io, per me, non mi ci accosto, lo sai, mamma.
— Suonerà Ciccillo De Marco, il gobbo, l’ho invitato apposta: gli dirai delle cose amabili, egli se ne andrà in solluchero e suonerà per tutta la sera.
Dopo un’ora, già lo stanzone da ballo era pieno di gente: le mamme, la Galanti, la Malagrida, la Falco, la Borrelli sedevano sul divano d’onore, e sulle due poltrone, facendosi vento, tessendo ognuna l’elogio delle proprie figliuole. Le ragazze sedevano l’una accanto all’altra, in fila, tutte composte ancora, perchè non si ballava, si faceva un po’ di musica, prima, e i giovanotti restavano in piedi, dietro le sedie delle ragazze, parlando loro sottovoce, mentre donna Candida Scoppa, incinta di sei mesi, enorme, con una faccia estenuata di donna gravida, cantava la romanza Giulia di Denza, parlando di una ragazza morta. La Malagrida, figliuola, quella sera aveva inaugurato un vestito di velluto nero, che la faceva sembrare meno grassa, meno brutta: e l’avvenimento era la finezza della sua cintura; certo doveva portare un busto di Parigi, aveva portato sempre settanta centimetri di giro, quella sera non ne aveva più di cinquantotto; è vero che stava dura dura, come un tronco pietrificato, e impallidiva, ogni tanto, non potendo respirare. Enrichetta Caputo si era un po’ rattristata, vedendola così elegante: in fondo, ella gli voleva bene ad Arturo Aiello e le sarebbe dispiaciuto di perderlo, così. Ma si era distratta, dovendo ricevere le sue amiche, togliendo loro le mantelline e le sciarpe, portandole sul suo letto, instancabile, cercando di far dimenticare la povertà della sala, la luce meschina dei lumi, la mancanza delle sedie, col suo sorriso di bella ragazza che non ha altro. E nessuno pareva accorgersene di quella miseria, ragazze, giovanotti, venuti là solo per divertirsi e per amarsi, per ballare, essi che avrebbero ballato in una piazza e al suono di un piffero.
Crepavano dalle risa al canto di Gaetanino Ceraso, che cantava o declamava una scena in dialetto, la mano de la gnora, in cui un giovanotto innamorato, seguendo l’innamorata nella chiesa, nella penombra afferra la mano della madre, invece di quella della figliuola, e la vecchia gli si offre per moglie, subito. Gaetanino Ceraso, un ingegnere di ponti e strade, coltivava il canto buffo con grande successo, nei ballonzoli settimanali, ma questo gli impediva di fare delle conquiste, le ragazze amavano i giovanotti malinconici, o almeno seri, quelli che non facevano ridere la società: anche Enrichetta Caputo pensava così, ella preferiva la serietà di Arturo Aiello e l’aria ineffabile con cui si passava la mano tra i capelli. Rideva finanche la povera Enrichetta Brown, che quella sera aveva messo un vestito di broccato rosso nuovo ed un paio di orecchini di rubini, bellissimi; accanto a lei il vecchione geloso aveva una parrucca rossa, nuovissima, e la dentiera luccicava nella sua cornice d’oro: finchè non si ballava, il vecchione si divertiva, tenendosi accanto la moglie: quella sera spingeva la tenerezza sino a tenerle la mano, ella chinava il capo umiliata e confusa, non osando guardare in volto le persone.
Ella sentiva, sì, sentiva in coloro che la incontravano, la pietà, la curiosità fredda, il biasimo, il disprezzo; ella sentiva sovra sè il vario giudizio della gente, ella che bella, giovane e povera, volontariamente aveva voluto sposare un vecchione schifoso e ricco, e i più benevolenti la compativano, sì, ma non la trovavano poi tanto infelice, con tutti quei quattrini, e i più severi l’accusavano d’ingordigia, la ritenevano per una venduta del matrimonio. Ella sapeva bene che lo aveva fatto per pietà della propria famiglia, immersa in una decente ma crescente miseria, pei suoi genitori vecchi e stanchi dalle privazioni, pei suoi fratelli buoni e pieni d’ingegno che avevano bisogno di danaro per prendere le professioni onorevoli e lucrose: ma a chi raccontare tutto questo? E anche, perchè raccontarlo? Lasciava che la gente la tenesse per la più venale delle donne, datasi ad un cadavere, per i gioielli e le stoffe di cui la copriva; e il nobile sacrifizio della sua vita lo compiva nel silenzio, nel giudizio ingiusto del pubblico.
Sulla soglia dello stanzone Arturo Aiello era comparso, col soprabito chiuso delle domeniche, con un bottone di camelia bianca all’occhiello e guardava nella sala, per vedere chi ci fosse: astutamente, senza averne l’aria, Enrichetta Caputo era scivolata fra i gruppi per accostarsi a lui, mentre Federico Pietraroia, il filodrammatico, declamava il Pranzo in famiglia, di Arnaldo Fusinato.
— È per me quella camelia? — chiese sottovoce Enrichetta.
—….è per te — disse lui, levandola dall’occhiello e dandogliela, ma probabilmente dopo una lieve esitazione.
Ella riattraversò la sala, questa volta gloriosamente, portando in trionfo la sua camelia: un rumorìo nasceva, le sedie erano respinte sino al muro, le ragazze e i giovanotti confabulavano vivamente, si cominciava a ballare. Gennaro Mascarpone, primo commesso della casa Maquay Hooker, che negozia in baccalà, dirigeva la sala e gridava da cinque minuti:
Le coppie si formavano, prima due o tre, timide; poi sino a sei, sette, ritte, aspettando che tutto fosse all’ordine. Enrichetta Caputo era andata presso il gobbo, Ciccillo De Marco, e sorridendogli, lanciandogli l’occhiata assassina, cercava di convincerlo a suonare quel waltzer, solo quello, pochi giri, tanto per cominciare. E il gobbo maligno, si lasciava far la corte, si lasciava pregare, faceva lo scontento, crollava il capo, diceva di no: Enrichetta dovette promettergli di fare la quadriglia con lui, se no, non avrebbe suonato. Le prime note, stridule, del pianoforte scordato, esilararono le ragazze e i giovanotti che battevano la musica, agitavano il capo, presi dalla loro giovanile passione per la danza.
— Waltzer, waltzer! — urlava Gennaro Mascarpone.
Enrichetta cercò con gli occhi Arturo per ballare con lui il waltzer, come era stabilito, senza che lui pensasse più a invitarla; tutte le ragazze ballavano il primo ballo con l’innamorato o col fidanzato, era la regola. Emilia Galanti era al posto col suo dottore in chirurgia, Mariannina era appoggiata al braccio del suo tenentino che aveva fatta la domanda in regola, Margherita Falco ballava col fratello di Elvira Brown, Annina Casale con Federico Pietraroia, che le faceva la corte. Ma dov’era, dunque, Arturo Aiello? Certo, anche egli cercava Enrichetta per aprire il ballo. E alla musica pestata dal gobbo sul pianoforte, le coppie si slanciarono, e Enrichetta vide che Arturo ballava con Eugenia Malagrida, senza mai guardare dalla sua parte, come vergognoso: vide che Eugenia avea nei capelli, un po’radi, ma artificiosamente acconciati dalla pettinatrice, un bottone di camelia bianca, simile a quello che ella aveva tolto ad Arturo.
Un dolore acutissimo la fece impallidire, mentre insieme alle coppie che ballavano, facendo tremare il pavimento, con l’allegrezza della gioventù spensierata, le pareva che tutta la sala girasse. Gennaro Mascarpone, bel giovane, dalla pronunzia francese dolcissima, dall’aria pretenziosa, le offrì di ballare, egli era il direttore della sala, faceva il tiranno, si accapparrava le ragazze, ballava infine più degli altri: ella rifiutò col capo, non avendo la forza di parlare, guardando sempre girare Eugenia grossa e dura come un tronco nel suo vestito nuovo di velluto nero, con Arturo Aiello, dall’aria malinconica che andava al cuore delle ragazze. Gaetanino Ceraso, l’ingegnere che cantava le canzonette buffe, ebbe un intuito di quel dramma intimo, arrivò sino a Enrichetta, le chiese a bassa voce:
— Perchè non girate il waltzer?
— Perchè non mi piace, — rispose ella, indispettita,
— Via, via, siate buona, fate un giro con me — soggiunse lui, dolcemente.
Ella lo guardò, commossa per un minuto, indovinando che egli aveva indovinato: e fu lì lì per accettare, per vendetta contro Arturo, Gaetanino aspettava: ma ella se lo rivide innanzi, come un momento fa, tutto lezioso, tutto ridicolo, far sbuffare di risa l’assemblea, cantando la mano de la gnora.
— No, — disse, — no, non voglio ballare.
Rimase ritta, guardando quelli che ballavano; le Galanti tanto carine coi loro vestiti nuovi di lana verde cupo, Margherita Falco seducente nella sua tolettina semplice di lana bianca, Annina Casale che faceva svolazzare il suo breve strascico di seta nera, Caterina Borrelli tutta pomposa in un vestito di lana grigia a fascie di velluto nero, finanche Eugenia diventava sopportabile col suo busto di Parigi e il suo vestito di madame Ricco, tutte quante felici di ballare con la persona che amavano o che piaceva loro: ella sentì tutta la vergogna della sua vecchia gonnella di lana crema, del suo vecchio corpetto di raso rosso, delle sue trine lavate; sentì tutta la vergogna di quello stanzone vuoto, sporco, male illuminato, il tetto che è concesso per elemosina; sentì tutto l’isolamento, l’abbandono della miseria quotidiana, incessante, invincibile — un’onda di amarezza le sconvolse il sangue.
Le coppie passeggiavano in giro per riposarsi; le madri avevano tirati indietro i piedi per non farseli calpestare, e sorridevano alle figliuole, di cui erano soddisfatte: la madre Caputo parlava a Matilde Tuttavilla con molta enfasi, ed ella l’ascoltava, molto preoccupata. Enrichetta si dava da fare: aveva condotto Riccarda Galanti in cucina, per darle da bere: una cucinetta nuda, con parecchi arnesi, un piattino di maccheroni freddi sopra un tavolino e un pezzetto di cacio svizzero, la cena di Enrichetta: l’acqua era stata presa in un bicchiere di vetro verdastro, da un secchio posato per terra: Riccarda disgustata e impietosita non avrebbe voluto più bere, ma temette offendere Enrichetta. Poi, Emma Froggio, una biondona prepotente, aveva fatto saltare, ballando troppo, due bottoni del suo vestito: Enrichetta dovette condurla nello stanzone scuro, dietro la tenda, con una stearica tolta dal pianoforte e fra i due letti disfatti, le catinelle piene di acqua sporca, gli stracci buttati all’aria e le ciabatte trascinanti, trovare un ago, un ditale, del filo per cucire i bottoni di Emma Froggio. Quando ritornarono nello stanzone, una quadriglia monstre si combinava, di sedici coppie, come non se ne erano mai viste in casa Caputo. Gennaro Mascarpone si dimenava come un ossesso, brutalizzava i suoi amici, si abbandonava a una violenza feroce di temperamento. Ma per fare queste sedici coppie, tre ne mancavano, la signora Galanti per far ballare queste creature si era già levata su:
— Balli con me la quadriglia? — sussurrò Arturo Aiello a Enrichetta, mentre costei gli passava d’accanto.
— No, sono impegnata — rispose costei, senza neppure voltarsi.
E andò a scegliere il suo cavaliere. Mancava sempre una coppia: Gennaro Mascarpone, con la sfacciataggine del direttore di sala a cui nulla deve resistere, andò a invitare la signora Elvira Brown, quantunque sapesse che era il più cattivo complimento da farle; tutti conoscevano la gelosia del vecchione. E mentre lei, timida, resisteva debolmente, tre o quattro coppie la circondavano e la pregavano; senza lei non si sarebbe potuto ballare, il marito guardava in aria, come disinteressato, fingendo di non vedere le occhiate con cui ella gli chiedeva permesso di ballare — ed ella finì per cedere, si levò, tutta bella, al braccio di Gennaro Mascarpone trionfante, mentre il vecchione diventava verde dalla bile. In quel momento si vide che Ciccillo de Marco il gobbo, mancava e che non vi era nessuno per poter suonare il pianoforte. Furono due o tre minuti di grande confusione, di disperazione. Mascarpone era furioso, borbottava che lui non era abituato a dirigere in case, dove non vi era neppure uno strimpellatore di pianoforte: infine, Matilde Tuttavilla per far divertire tutta quella gioventù si sacrificò, andò al pianoforte, gridò che si dovevano contentare di certi vecchi motivi aggiustati alla meglio per quadriglia. Ora si ballava: tutti e tutte, sottovoce, si meravigliavano di Enrichetta Caputo che ballava, con molta disinvoltura, con Ciccillo de Marco, il gobbo.
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Le ragazze, alle undici e mezzo, avevano circondato Gennaro Mascarpone, pregandolo, scongiurandolo, perchè facesse far loro il cotillon: ma egli resisteva, diceva che era impossibile ballare il cotillon senza le cose che ci servono, i mazzolini di fiori, le sciarpe, le decorazioni. Le ragazze protestavano, non importava nulla che tutto questo non ci fosse, egli era pieno di fantasia, avrebbe inventato delle figure, esse si contentavano di tutto, purchè avessero ballato il cotillon: e soggiungevano, sottovoce, se non si ballava il cotillon, le mamme avrebbero subito voluto andar via, non si ostinasse nella sua cattiveria. Gennaro Mascarpone si lasciò piegare e andò a confabulare con la signora Concetta Caputo e con Enrichetta, per avere almeno qualche oggetto indispensabile,
Madre e figlia fingevano la disinvoltura, ma erano turbate: una sedia, appartenente alla suocera del maggiore era stata fracassata, in un giro di galop, e si sarebbe dovuto ricomprare, all’indomani, per restituirgliela: le steariche avevano soltanto due dita di altezza: i lumi a petrolio si affiochivano: Matilde Tuttavilla aveva spezzato due corde del pianoforte, per pestare troppo forte: e a mezzanotte, certamente, la vedova del colonnello si sarebbe messa alla finestra, a gridare contro tutto quel chiasso notturno, come aveva fatto l’altro sabato, che era dovuto andar da lei Arturo Aiello, per persuaderla a tacere. Pure le due donne fecero buona faccia a Gennaro, che chiedeva loro un cuscino, uno specchietto, un candelliere con la candela accesa. Mentre si facevano i primi giri del ballo, Enrichetta cercò tutte quelle cose: portò prima a Gennaro una bugìa di ottone sporco, opaco, con un mozzicone di candelotto. Due cavalieri erano presentati a una dama, con due nomi di fiori, rosa e gardenia: ella sceglieva la gardenia, ballava col cavaliere che portava questo nome, l’altro che aveva la rosa, portava la candela dietro alla coppia danzante, tutta la sala rideva alle sue spalle — egli stesso fingeva di ridere, per aver l’aria di persona spiritosa, ma lo sfortunato si rodeva per quella ingiustizia del destino. Gaetanino Ceraso, portando la candela dietro a Margherita Falco e al suo fidanzato che la sorte aveva riuniti, fece ogni sorta di lezii, di smorfiette per esprimere il suo rammarico; la sala crepava dal ridere; i giri di waltzer si moltiplicavano, Ciccillo de Marco suonava come un dannato, tutto felice di aver ballato la quadriglia con la più bella ragazza della, festa.
Dopo due o tre altre figure, Enrichetta portò a Gennaro Mascarpone un cuscino del suo lettino, sottile, con una foderetta di una dubbia biancheria: e la interessante figura dell’inginocchiamento cominciò, fra il divertimento di tutti. Una dama che doveva ballare, portava innanzi a ogni cavaliere seduto, questo cuscino, glielo metteva ai piedi, sogguardandolo, e l’astuzia del cavaliere era d’inginocchiarsi d’un colpo solo per cadere sul cuscino, l’astuzia della dama era di tirare subito il cuscino, per far battere in terra le ginocchia del cavaliere. Era un’ansietà di tutti il vedere la doppia malizia, femminile e maschile, studiarsi, indovinarsi, giuocarsi: e il battere delle ginocchia a terra, con la smorfia di collera del cavaliere, il tonfo sordo di colui che trionfalmente cascava sul cuscino, la faccia indispettita della dama, era uno spasso straordinario. Gennarino Mascarpone era dichiarato il Dio dei maestri di sala. Caterina Borrelli, maligna come una scimmia grassa, a cui rassomigliava un poco, fece cadere tutti i cavalieri e non ballò con nessuno; Federico Pietraroia arrivò a ballare con Elvira Brown; Eugenia Malagrida si rifiutò di portare in giro il cuscino, le dispiaceva di far cadere i cavalieri; Enrichetta era nervosa, perchè uno dei piattelli delle steariche era scoppiato, la candela finiva; Matilde Tuttavilla parlottava con la signora Malagrida, ora, spianando le sopracciglia per qualche cosa di sorprendente che la grossa signora le diceva.
Enrichetta aveva adesso consegnato a Gennarino Mascarpone il suo specchietto verdastro, per la gran figura finale. Una dama sedeva nel centro della sala, tenendo in mano lo specchio e un fazzoletto: uno alla volta i cavalieri venivano a specchiarsi; la dama puliva lo specchio per colui con cui non voleva ballare; dava una spazzatina, come un frego, come una cancellatura; e posava lo specchio per colui con cui voleva ballare. Era la gran scelta finale in cui tutte le simpatie ingenuamente si manifestavano, le dichiarazioni d’amore corrisposto, di affetto incipiente, la preferenza dichiarata in pubblico, chiaramente e semplicemente: e i cavalieri facevano gli scettici, non volevano venire a specchiarsi, si lasciavano trascinare. Agli amori conosciuti o sospettati vi era un lieto mormorio nell’assemblea, un riso indulgente di tutti, come un incoraggiamento amabile a volersi bene. Ma fu uno stupore profondo, in tutti, quando Eugenia Malagrida che aveva centocinquantamila lire di dote, era grossa, grossa, tozza e lucida, dopo aver dato un spazzatina a tutti i cavalieri, posò lo specchio per Arturo Aiello, il povero impiegato, ritenuto come il fidanzato ufficiale di Enrichetta Caputo. Tutti la guardarono, Enrichetta: ella rideva, nervosamente, il piattello dell’altra stearica, si era spezzato.
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Nella Cucina, al chiarore fumoso del lume di anticamera, donna Concetta Caputo si lamentava da un quarto d’ora per tutti i guasti accaduti quella sera, col solo risultato di far saltare quattro pettegole che poi avrebbero detto male di loro, andandosene: enumerava la sedia rotta, le corde spezzate, il petrolio consumato, i piattelli scoppiati, borbottava, senza fine. Enrichetta, portando ancora il suo vecchio busto di raso rosso, guardava il piatto di maccheroni freddi e unti con cui doveva cenare e piangeva.