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IV.
Si entrava per una larga corte di un palazzone bigio di Rua Catalana, dove, nell’ombra si profilavano i contorni di sette ad otto carrozzelle da nolo, senza cavallo, con le stanghe in aria, un cortilone che serviva anche di rimessa, si saliva per una grande scala, ma infangata e male illuminata, a un secondo piano, dalla porta spalancata; si entrava senza farsi annunziare, in una anticamera dove gli ombrelli aperti lasciavano in terra dei rigagnoletti di acqua piovana e i soprabiti si asciugavano sulle sedie. Era l’appartamento di don Giuseppe Froio, ex capitano della Guardia Nazionale, dove si era ballato tutte le domeniche di carnevale e ora si veniva, nella prima domenica di quaresima, per la rottura della pignatta. Don Giuseppe Froio aveva sempre esercitato il mestiere di usuraio, ma a piccoli prestiti, giammai grandi operazioni, per paura di rimetterci i fondi: e lentamente si era arricchito, a cinquant’anni era capitano e notabile del quartiere Porto.
Per molto tempo aveva convissuto con Franceschella, la sua serva; ma costei aveva dato anche lei il denaro a usura, così bene, così duramente, che il padrone, ammirato, le aveva aperto un’agenzia di pegnorazione, la quale agenzia condotta meravigliosamente da Franceschella, aveva reso il cento per cento; tanto che don Giuseppe si era deciso a sposare Franceschella, che subito dopo il matrimonio era diventata donna Franceschina, aveva ceduto a una sua nipote l’agenzia pubblica, ma continuava a prestar denaro sopra pegno, in casa, privatamente. Ora, don Giuseppe e donna Franceschina non avevano figliuoli e sapevano fare i loro affari: non erano avari, e il desiderio degli onori li tormentava, la vanagloria di ricevere in casa li torturava. Ogni domenica di carnevale, si ballava, da loro; le tre sale erano piene di gente che conoscevano e non conoscevano, amici di amici di altri amici, sorelle delle parenti di amiche intime, famiglie intere con appendici di fidanzati, condotte da altre famiglie: don Giuseppe e donna Franceschina non chiedevano nulla, purchè la gente venisse, ballasse, empisse la casa. La casa era grande, tre saloni, un salotto; ma i mobili erano eterogenei, accozzati stranamente fra loro, un divano rosso, una poltrona azzurra, un orologio rococò, fermo, un tavolino di legno scolpito, una tenda di broccato, un tappeto falso di Smirne, tutte le sedie scompagnate, nessun candelabro rassomigliava all’altro, un enorme specchio senza cornice, dei quadri religiosi tutti affumicati, una Venere di marmo con le braccia spezzate, tutto alla rinfusa come in un negozio di robivecchi. E sapendo la storia del padrone di casa, si capiva che quella roba era stata impegnata, da disgraziati che non avevano potuto riscattarla, eran mobili che venivan da tante case diverse, portati via, non ripresi mai, dimenticati, abbandonati, rimpianti forse da coloro cui erano appartenuti, ma non potuti salvare dalla rovina. Guardando donna Franceschina, ella rassomigliava alla casa; sul capo, al collo, alle orecchie, alle mani, alle braccia, alla cintura, sul petto, ella era piena di gioielli, tutti scompagnati, orecchini, spilloni, anelli, braccialetti, catenelle e catenine, malachiti e brillanti, perle e ori grossolani, finanche sul petto, un medaglioncino che portava una delicata miniatura, una donnina, un ritratto, chissà, un ricordo di famiglia, una tenerezza, forse. Ma coloro che venivano a divertirsi in casa Froio, non andavano a osservare tutto questo, era così piacevole trovare una casa grande, bene illuminata, dove non era neppur necessario di salutare i padroni di casa, entrando e uscendo! Don Giuseppe teneva sempre sul capo un berretto di Guardia Nazionale, in memoria degli antichi onori, donna Franceschina, per un’antica abitudine, andava continuamente ricaricando i lumi a moderatore: e la coppia sorrideva a tutti, come a vecchie conoscenze, felice di vedere la casa zeppa.
Quella sera, per la rottura della pignatta, si circolava con difficoltà, tutti erano venuti con la speranza di prendere un premio. Le ragazze De Pasquale, con certi abitini provocanti di seta nera, scollati in quadrato, con le maniche di velo nero che lasciavano vedere le bianche braccia, con le treccie bionde sulle spalle, avevano condotto tutta la loro tribù di adoratori, finanche il contino Geraci, si era degnato di venire, malgrado la sua consuetudine dei saloni nobili: e senza curarsi di nessuno, tenevano circolo come in casa loro, ridevano, chiacchieravano tutte soavità, tutte brio, un po’ dipinte, un po’ melanconiche nel fondo dell’anima, visto che con tanti omaggi, non si maritavano. Le Fusco, Elisa Costa, Gelsomina Santoro stavano aggruppate intorno a un pianoforte, passandosi delle carte di musica, con un’aria sapiente, parlando ancora di musica; una voce circolava, Maria Fusco si maritava, col tenorino del Teatro Nuovo, quello che faceva Angelo Pitou nella Figlia di madama Angot e Maraschino nel Giroflè Giroflà; l’altra sorella aveva voluto suicidarsi per uno studente, che l’aveva abbandonata, Annina Manetta era raggiante, sua madre non sapendo più come bastonarla per non farle amare Vicenzino Spano, aveva finito per acconsentire; Vincenzino aveva fatta la domanda, ci volevano altri cinque anni pel matrimonio, ma intanto accompagnava dapertutto Annina; ora le scene cominciavano per Adelina, la minore, che si era incaponita a voler far l’amore col figliuolo di un calzolaio; la mamma era disperata, prendeva a schiaffi Adelina quotidianamente; anche quella sera il figliuolo del calzolaio era riuscito a venire in casa Froio, condottovi da un amico. Caterina Borrelli e Annina Casale, le indivisibili, giravano per le sale tenendosi a braccetto, Caterina con gli occhiali sul naso e il suo bel vestito di lana grigia a fascie di velluto nero diventato già vecchio, tanto ella era sciattona; Annina decisamente innamorata di Federico Pietraroia che doveva venire in casa Froio quella sera, egli andava dapertutto. Emma Froggio, per le scale aveva perduto un tacco del suo stivalino e se ne stava in un angolo, tutta ingrugnata, non potendosi muovere, col piede nascosto sotto la sedia. Per fortuna, non si ballava quella sera, era quaresima, e donna Franceschina era scrupolosa.
Le ragazze Sanges, tutte cinque, col fedele Carluccio Finoia accanto a Carolina, con Rocco Marzolla, un maestro di arpa che amava Gaetanella Sanges, che era afflitto da una strana sordità, e che aspettava di essere scritturato all’orchestra del Fondo, per poter fare il matrimonio, erano indiavolate per la curiosità di sapere quello che si conteneva nelle due pignatte da rompere. Ogni volta che passava accanto a loro un amico, un conoscente, esse lo chiamavano, lo afferravano pel braccio, strillavano, per sapere da lui il gran segreto. Era dunque vero, quello che si diceva, che la pignatta destinata alle donne, conteneva un braccialetto d’oro per colei che la rompeva e una quantità di altri bei regali? Era vero che quella destinata agli uomini, conteneva un berretto da notte per premio e una quantità di doni umoristici al resto della società? Chi metteva la benda alle donne? Federico Pietraroia, quel lezioso, quell’imbecille, che passava la vita fra le De Pasquale a far l’amoroso e la Casale a far l’innamorato sciocco? Chi metteva la benda agli uomini? Gelsomina Santoro, quella civettona, per non dire peggio? Se ne sarebbero viste delle belle! E il fermento attraverso tutte quelle fanciulle, tutti quei giovanetti, quelle mamme, quelle vecchie zie, cresceva, cresceva, l’impazienza era grandissima, non si quietavano di chiacchierare, di dimenarsi: le interrogazioni, le risposte si moltiplicavano — quando don Giuseppe Froio, col berretto civico messo fieramente sull’orecchio, con un bel sorriso di uomo galante, vecchio ricordo dei suoi affari usurarii, fece un giro per le sale, dicendo soavemente:
— Signore, signorine, si passa in salone per la rottura della pignatta!
Lui stesso offrì il braccio a donna Clementina de Camillis, dei marchesi di Latiano, vecchia grinzosa, superbiosa, che tutti veneravano, che chiamavano con rispetto la marchesa, senz’altro, come se non ve ne fosse che una sola al mondo, e che dava un’aria aristocratica ai saloni di don Giuseppe Froio. Nel salone le sedie erano preparate come per il cotillon, a coppie di uomo e donna; ma non si pensava più a discorrere, ad amoreggiare, a filare, a stringersi la mano di soppiatto: le ragazze erano distratte, prese dalla curiosità e dal desiderio, arse dalla voglia di rompere la pignatta, per prendere il famoso braccialetto. In mezzo al grande circolo vuoto dove tutti gli occhi si fissavano, Federico Pietraroia e Mimì Falabella, un factotum di donna Franceschina, portarono, tenendola pei manichi, una grossa pignatta rosso-bruna, di quelle che si cuociono nelle fornaci di Sessa Aurunca, insieme ai tegami di cui tutta Napoli si fornisce; la larga bocca era turata da un pezzo di tela bianca, legata con uno spago. I due giovanotti fingevano di fare uno sforzo nel sollevarla; un mormorio nacque:
— È pesante, è pesante, è pesante!
Gelsomina Santoro, elegantissima, con un vestito verde oscuro, tutto ricamato di oro ai polsini e al goletto, come un ufficiale, aspettava, con un fazzoletto di seta rosso e un manico di scopa in mano. Il primo uomo da bendarsi fu don Giuseppe Froio, che si prestò volentieri: bendato, gli fecero fare un giro nella sala, gli consegnarono il manico della scopa, poi lo lasciarono solo, in direzione della pignatta posata per terra:
— Piegate a destra, don Peppi!
— Attenzione, attenzione!
Lui, dopo aver tastato un po’ il terreno, alzò il manico della scopa, con due mani, come una clava e diede giù un gran colpo: ma mancò un pelo, solo un manico della pignatta fu rotto. Scoppiarono risate, applausi, proteste, commenti, le donne specialmente erano eccitate: Mimì Falabella, l’altro padron di casa, come era chiamato, si faceva bendare lungamente da Gelsomina, tanto che le Sanges sogghignarono, tutte cinque:
— Uno, due, tre!
Ma Falabella che doveva sapere, esservi una burletta nella pignatta, diede un gran colpo di fianco, per terra: valeva meglio far ridere per un colpo sbagliato, anzichè pel premio da dover subire. E il turno degli uomini seguitava, tutti chinavano il capo, sotto le mani bianche e gentili di Gelsomina Santoro, che annodava loro il fazzoletto dietro la nuca: nel mezzo del circolo alcuni esitavano, cercavano di orientarsi, riflettevano, poi finivano per dare un colpo lontanissimo dalla pignatta, fra i ghigni dell’assemblea; alcuni si decidevano subito, davano un gran colpo a vuoto, strappavano il fazzoletto subito, come se avessero voluto vedere i cocci della pignatta infranta; alcuni davano due o tre colpi, brevi, furiosi, infrangendo il regolamento che permette un colpo solo: alcuni davano il colpo per disimpegno, scettici, stringendosi nelle spalle. E l’allegro furore del pubblico cresceva, donna Franceschina si sganasciava dalle risa, rumorosamente: quando Gelsomina annodò il fazzoletto rosso intorno alla grossa testa di Ciccillo de Marco, il gobbo, fu un minuto di grande silenzio, improvviso, strano: il gobbo non pensò, non aspettò, non prese le sue misure, diede un colpo solo rapido, giusto, colse la pignatta nel mezzo, la infranse di netto. Un urrà salutò la vittoria di don Ciccillo, tutto sorridente, lusingato: e il premio era triplice, un berretto da notte di maglia, col fiocchetto bianco, una larga tabacchiera di cartone, un bastone col pomo d’oro, che era poi un bastoncino da un soldo, su cui era infilato un pomodoro. Il gobbo mise il berretto coraggiosamente, prese la tabacchiera, il bastone umoristico, e raccolti i due pezzi della pignatta, andò in giro offrendo agli uomini gli altri doni. Erano fave secche ravvolte nelle cartine dorate, come se fossero confetti prelibati; erano torsoletti di cavolo accuratamente arrotolati nella carta piombata azzurra, rossa, argentata, dove si mettono i cioccolattini; erano piccole pastine annodate di nastrini colorati; erano castagne infornate e chiuse nelle cartuccie arricciate; erano borsette di seta piene di fagiuoli secchi; erano uovi ripieni di farina, che si rompevano fra le mani. E chi strillava, chi protestava, chi rideva, chi portava in giro il suo dono, tutti erano d’accordo sullo spirito di don Giuseppe e di donna Franceschina; non si poteva combinar le cose meglio di così, ci saranno voluti due mesi per preparare tutte quelle sorprese. E quel pomodoro, sul bastone che Ciccillo de Marco portava così fieramente in giro, era da schiattare dalle risa, nevvero? Concettella Sanges, tutt’accesa, cercava ad ogni costo di accaparrarsi il gobbo de Marco, ma costui le volse le spalle, la sua scelta era già fatta, dal carnevale, Concettella non potrebbe ricavarne nulla, si contentò di passargli la mano sulla gobba,come per caso, per trarne buon augurio. Fra l’isolamento della società, la pignatta destinata alle signore fu portata in mezzo alla sala, rispettosamente, da Federico Pietraroia e da Mimì Falabella; e fingevano di portarla senza fatica, come se fosse lievissima. Le donne passate in prima linea, avendo rigettato indietro gli uomini, non la perdevano d’occhio, come se fosse l’urna della loro fortuna.
— È vuota, è vuota, — mormoravano gli uomini per malignare.
Tutte sognavano il braccialetto d’oro, con uno zaffiro, si diceva, no, con uno smeraldo, e tremavano che una delle prime rompesse la pignatta. Invero la prima fu donna Clementina de Camillis, dei marchesi di Latiano, la vecchia stizzosa che si arrabbiò contro Federico Pietraroia, perchè le stringeva troppo il fazzoletto, che tastò col manico della scopa dove la pignatta non ci era e che per poco non ruppe la testa di Mimì Falabella, dandogli addosso il manico della scopa, che guardò la gente con un cipiglio di sibilla offesa e si ritirò al suo posto, molto scontenta. Neppure donna Frasceschina, la seconda, ruppe la pignatta, ma non aveva voluto romperla, per creanza, essendo la padrona di casa: doveva veder bene dov’era la pignatta, dicevano le Sanges, Mimì l’aveva bendata con tanta larghezza! La prima sorella Fusco, colpì la pignatta, ma la mazzata era data troppo debolmente, non arrivò ad infrangere la creta.
— Ci vuole il ferro, una cura di ferro, signorina!
— O la china, un poco di decotto di china!
La seconda sorella non fece che sgretolarla; la pignatta pareva di ferro, tutti acclamavano la saldezza della pignatta. Emma Froggio, per causa del suo tacco, mancò il colpo, tornò zoppicando al suo posto, malcontenta, quasi piangente; Caterina Borrelli si raccomandò a Federico Pietraroia che non stringesse troppo il fazzoletto; tanto ella era miope, bastava levarle gli occhiali per non farle vedere più nulla — diede un colpo a vuoto, così violento, che la mazza della scopa si spezzò in due, bisognò procurarne un’altra. Donna Franceschina che se ne intendeva, scappò a prenderla in cucina.
Come la pignatta restava sempre incolume, sotto i colpi troppo forti, ma lontani, troppo vicini, ma deboli, delle donne, l’ansietà cresceva: la lite fu tremenda, fra le cinque sorelle Sanges e Federico Pietraroia, una pretendeva che le aveva ammaccato un occhio, l’altra diceva che le aveva strappato i capelli, dietro la nuca la terza soffocava sotto il fazzoletto, ella aveva l’abitudine di respirare dal naso, tutte dicevano che avrebbero potuto rompere benissimo la pignatta, se non fosse stata la mala volontà di Federico Pietraroia che aveva le sue preferite: la lite si fece grave. Carluccio Finoia e Rocco Marzolla dovettero intervenire. Infine non rimanevano che Annina Casale e le due sorelle De Pasquale; mettendole il fazzoletto, ad Annina, Federico le mormorò qualche cosa all’orecchio, ma ella non intese bene, piegò a sinistra, diede il colpo sulla spalliera di una sedia, spezzandola. Federico fece un gesto di disappunto, le Sanges le sorvegliavano; infine alla piccola De Pasquale, una biondinetta così carina con la sua aria ingenua, l’ultima, la parola fu sussurrata chiaramente:
— Donna Ida, piegate a destra.
La pignatta crepitò, si aperse in due; gli uomini applaudirono. Ida De Pasquale quasi ballando di gioia, afferrò un pacchettino di carta bianca, il premio; era un braccialetto d’argento, smaltato nero, con la parola ricordo, una cosetta graziosa, ma che valeva venti franchi. Ma tutte sporgevano la testa per vedere lo zaffiro, lo smeraldo, il brillante, la perla; e la piccolina bionda portava in giro gli altri regalucci, impacchettati misteriosamente, suggellati con ogni cura. Erano ventaglietti di carta da mezzo franco l’uno, portamonete di falso cuoio di Russia; pallottoline di velluto per spilli: uovicini di legno scolpiti con un ditalino di metallo bianco, dentro, cornicette di cartone dipinte, per fotografie; vasellini di vetro azzurro, per stuzzicadenti; pacchetti di polvere di riso; bottigline di essenze odorose, tutto un fondaccio di magazzino di chincaglieria, che faceva andar in estasi quelle ragazze. Portando in giro questi doni, Ida De Pasquale mostrava, con un piglio grazioso, il suo braccialetto di argento; tutte lo trovavano bello, sospiravano di non averlo avuto, malgrado la pochezza del suo valore. Le Sanges schiattavano; una aveva avuto due bottoni da polsini, di similoro; un’altra una scatoletta di polvere per i denti, la terza un calendarietto; la quarta una immagine del Redentore; l’ultima, infine, un pacchetto di forcinelle dalle punte d’acciaio — ma che si burlavano di loro? Non avevano visto che Federico aveva detto la parolina a Ida De Pasquale? E Ida, non lo aveva fatto apposta a portar loro gli scarti? Che modo di trattar la gente era questo? Ma su tutti questi lieti e collerici ragionari, sempre tumultuanti, passò come pacificamente, un vassoio di biscotti fatti in casa, seguiti da un vassoio di bicchieri pieni di Lacryma Christi, vino che si faceva nella grande vigna di Ottaviano, di don Giuseppe Froio: e placati gli spiriti, i giuochi di penitenza cominciarono dal serio e posato giuoco: la chiave gira, a quello tumultuoso e sfrenato della posta, col gran finale di galoppo: parte il treno per casa del diavolo.