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Il rombo vesuviano cominciò il giorno ventidue aprile 1872, all’una pomeridiana. Era un rumore sordo, sotterraneo, ma continuo, a cui si univa il tremore dei vetri, mai cessante. La giornata era purissima, di una grande dolcezza primaverile: i napoletani si affollarono in tutte le strade donde si vedeva il Vesuvio, salirono su tutti i terrazzi, si arrampicarono su tutte le soffitte, comparirono a tutti gli abbaini. Sul Vesuvio s’innalzava una lunga e fitta nuvola bianchiccia, della forma di un pino, lievemente colorata di rosa alla base che posava sul cratere: altro non si vedeva. Ma non diminuiva il rombo, per cui pareva tremassero tutte le case napoletane, da Posillipo al Borgo Loreto, dalla collina del Vomero alla via di Porto; il boato pareva venisse dalle viscere della terra, sotto i piedi dei viandanti. Il direttore della Scuola normale, entrò nella seconda classe, dove erano anche Annina Casale e Caterina Borelli, disse che per circostanze eccezionali, quel giorno la scuola si chiudeva all’una e non alle tre; andassero pure tutte a casa. Innanzi alla porta, nella via di Gesù, vi fu uno sbandamento di centottanta ragazze che tornavano a casa, tutte stupite di quella vacanza; e si incontrarono con gruppi di studenti che venivano dalla Università, dove il rettore aveva sospese le lezioni, due ore prima dell’usato. Nella chiesa della Madonna dell’Aiuto, dove, essendo mercoledì, le sorelle Sanges sentivano la predica in onore di Maria Immacolata, il predicatore si fermò, abbreviò della metà almeno il suo discorso, fece dire alle donne la preghiera in occasione di folgori e di terremoti, e rimandò a casa tutti quanti. Nel laboratorio di fiori artificiali, dove trenta fioriste lavoravano sotto gli ordini della signora Malagrida, si sparse il terrore: una delle ragazze aveva la madre a Sant’Anastasia, villaggio sotto il Vesuvio, gridava, piangeva, si dimenava, non fu possibile trattenere più le lavoranti, ebbero la mezza festa, andarono a casa; la signora Malagrida se ne tornò al suo appartamento in via dei Fiorentini, tutta sconcertata. Nella penombra del teatro San Ferdinando, le sorelle De Pasquale, Federico Pietraroia, Giovanni Laterza e altri filodammatici stavano provando la Lucia Didier, ovvero Onore per onore, innanzi a mezzo teatro pieno di amici personali; ma al cominciare del rombo, molto pubblico uscì fuori, per sapere di che si trattasse; il teatro San Ferdinando è molto vicino al ponte della Maddalena, il rombo si sentiva più forte, assai, le ragazze si sentivano affogare in quell’ombra, la prova fu sospesa. In casa Jovine, dalla simpatica zoppina, vi era ricevimento, quel mercoledì; essendo l’onomastico della nonna, vi si trovavano le belle sorelle Altifreda, vi arrivarono le Galanti, per un pezzo si scherzò sull’eruzione, sul rombo, sul terremoto, sulla pioggia di cenere, mentre giravano i gelati e giungevano ancora dei mazzi di fiori; ma a poco a poco la conversazione decadde, tutti prestavano orecchio, il ballo dei vetri urtava i nervi della zoppina, quasi quasi ella tremava al loro tremito; la società si diradò, tentando qualche ultimo scherzo, ma di mala voglia, ognuno desiderava ritrovarsi alla casa propria. Maria Jovine, quando tutti furono andati via, andò a mettersi a letto, col capo fra i cuscini, per non sentire il ballo dei cristalli. A tutte le persone, uomini d’affari, impiegati, lavoranti, oziosi, pareva venuta una grande furia di tornarsene a casa; per la strada si salutavano frettolosamente, si scambiavano qualche notizia breve breve, si lasciavano con un cenno di addio, come se un grave affare li chiamasse altrove. Così gli uffici pubblici e i privati, quali volontariamente, quali per forza rimasero deserti.
Il pomeriggio pareva lunghissimo, solo venendo la notte si poteva giudicare dei progressi della eruzione; circolavano cattive notizie, due nuove bocche s’erano aperte, Cercola e Sant’Anastasia erano perdute, v’erano delle vittime imprudenti che la sera prima avevano voluto salire sul Vesuvio. Per la via Forcella, si mormorava, erano arrivate delle barelle coperte, dov’erano avvolti nelle lenzuola certi corpi umani terribilmente usti, ma viventi ancora, agonizzanti fra spasimi orribili: la campanella che è alla porta dell’ospedale dei Pellegrini, l’ospedale dei feriti, non si fermava mai, in quel pomeriggio, annunciando sempre nuove sventure.
Alla sera tutta Napoli si riversò per le vie, si aggruppò sulle terrazze, sui balconi, sulle vie alte donde il vulcano poteva essere visto. Tre grandi lave, di dimensioni mai viste, si riversavano dalla bocca del cratere: una d’esse cadeva sul versante opposto, minacciando il villaggio di Ottaiano, e se ne vedea il larghissimo sviluppo alle spalle del monte: essa illuminava lo sfondo del cielo. La seconda, in linea quasi orizzontale, discendeva verso il mare, tagliando il Vesuvio in tutta la sua larghezza, prendendo terreno a vista d’occhio. La terza, amplissima, maestosa, si svolgeva magnificamente per la china del monte, si allargava nell’Atrio del Cavallo, discendeva come un fiume di fuoco — minacciava Resina, Portici, Napoli. La nuvola bianca s’era diradata completamente; il purissimo cielo stellato di quella sera di primavera era rosso, pel riflesso, sino allo zenit; il quietissimo mar Tirreno, nei due golfi di Castellammare e di Napoli, era rosso sino al forte Ovo. Tre incendi: la montagna, il mare, il cielo — e insieme una pace profonda delle cose, non un alito di vento, non un rumore di onde; anzi il mare era pieno di barche, immobili nel riflesso incandescente. Soltanto le viscere della terra, commosse, tremavano, non ristavano mai.
Alla Marina, sul molo di San Vincenzo, che i napoletani chiamano la banchina, fra la folla, stavano le sorelle Sanges, estatiche, contemplando lo spettacolo meraviglioso, provando ogni tanto un brivido di terrore, quando fra la folla correva come un ritornello:
— La terza lava minaccia Napoli.
Invano Carluccio Finoia e Rocco Marzolla le pregavano di andar via, oramai avevano visto abbastanza, invano offrivano loro, in due, con uno sforzo comune di borsa, di condurle al caffè di via Principessa Margherita, a prendere una granita: esse resistevano, prese da una grande stupefazione, dimenticavano di litigare fra loro, oppresse da quell’immenso bagliore. Correva fra la gente la storia delle vittime: una bella signora, un dottore, due fidanzati, e poi un gruppo di studenti, un gruppo di contadini, due guide. I nomi? I nomi non si sapevano, i giornali non erano ancora usciti.
Annina Casale e Caterina Borrelli erano appoggiate al parapetto di via del Gigante, fra la gente che restava ferma da due ore, a guardare i visibili progressi dell’eruzione: Annina Casale aveva un occhialino, vedeva fin anche fiammeggiare un minuto solo gli alberi, come un cerino che si accende, prima ancora che la lava lo toccasse: Caterina Borrelli recitava sotto voce un brano degli Ultimi giorni di Pompei di Bulwer Lytton; ma anche esse avevano un principio di costernazione nell’anima, la frase era ripetuta continuamente intorno a loro:
— La terza lava minaccia Napoli.
In casa di uno zio ricco, sopra un balcone del vicolo d’Afflitto, in linea retta della via Santa Erigida, donde si scopriva tutto il Vesuvio, era la famiglia Malagrida, padre, madre, figliuola, con Arturo Aiello, fidanzato di Eugenia; erano andati da quello zio, come a uno spettacolo teatrale, per vedere la montagna: ma la grandiosità del fenomeno, tutto quel fuoco che si ripercuoteva nel cielo e nel mare, ed il senso del pericolo avevano colpito quella famiglia di persone grasse e felici. Eugenia tenendo stretta la mano del suo fidanzato, chinava il capo, come compresa di malinconia, ed egli le parlava sottovoce, per incoraggiarla: pericolo non ve ne era, e poi, non ci era lui, che le voleva bene, molto, da molto tempo, fino dalla estate scorsa, fino dalla prima sera che l’aveva conosciuta? La grassona, a cui nessuno mai aveva detto così dolci cose, tremava, il viso le ardeva, le pareva di avere addosso tutte le fiamme dell’eruzione, non sentiva più le parole che si mormoravano, fra i vecchi di casa Malagrida:
— La terza lava minaccia Napoli: sarebbe bene di esporre San Gennaro.
Sul grande terrazzo dell’Hôtel de Rome, a Santa Lucia, che dà sul mare, una folla di invitati si accalcava; il padrone dell’albergo, uomo pratico, voleva profittare della réclame che, la montagna gli faceva. Il contino Geraci aveva procurato dei biglietti d’invito alle De Pasquale, al loro seguito, e le ragazze si erano installate in un angolo, sfoggiando certi cappuccetti mefistofelici di velluto nero, foderati di rosso; ma non avevano più gusto a ridere, ed a chiacchierare; quell’incendio le imbambolava: invano Jacobucci, Laterza, Pietraroia, cercavano di fare la burletta e di dare delle spiegazioni scientifiche, esse non ascoltavano, bianche bianche sotto la molta cipria che portavan sul volto, con gli occhioni tristi pieni di malinconia, non pensando più nè alla recita, nè all’amore. A un certo momento, mentre si diceva di quella immensa terza lava che, con passo sicuro, inflessibile, scendeva verso Napoli, Ida, tutta tremante, mormorò:
— Perchè non si espone San Gennaro?
Le ragazze della musica, le due Fusco, Elisa Costa, Gelsomina Santoro erano riunite in casa del maestro Pantanella, che voleva far cantare loro un coro buffo: ma la casa del maestro era al Ponte di Chiaia, in su, con un balcone donde si scopriva tutto il golfo: dal pianoforte attorno al quale erano riunite, con altre ragazze, si vedeva il bagliore immenso dell’eruzione, esse non potevano cantare, erano continuamente distratte, volevano correre al balcone, attirate, affascinate. Cantarono: ma le voci morivano nella gola; le Fusco avevano una cugina a Resina, la Costa compativa quel povero don Giuseppe Froio, la cui vigna di Ottaiano era rovinata, lo avevano incontrato nel pomeriggio, pallido, commosso, con le lagrime agli occhi, seguìto da donna Franceschina che piangeva. E Gelsomina Santoro, sentendo che vi era pericolo per Napoli, domandava a tutte:
— Ma perchè non si espongono le reliquie di San Gennaro?
Le Galanti erano sulla riva del Chiatamone, presso l’albergo Washington, insieme con Maria Jovine: l’avevano strappata di casa, dove era in continue convulsioni, dicendole che, dopo tutto, era meglio vedere. La circondavano, mentre ella abbassava il capo, paurosa, nervosa; e sua madre cercava di rassicurarla, ecco, se il pericolo cresceva, sarebbero partite l’indomani per Roma, per Firenze, che diamine, non si era mica ai tempi di Pompei, si poteva scappare. Anche le Galanti erano un po’ impressionate, dicevano anche esse di volersene andare un po’ in campagna, non per paura, ma via: Napoli non era piacevole, con quelle montagne, traboccanti lava da tutte le parti. Ed erano tanto immerse in quella contemplazione, che non badarono a dir male delle Altifreda che passavano in carrozza, lentamente, pel Chiatamone, andando verso la Riviera, godendosi tutta la eruzione.
Sopra una finestrella di Capodimonte, Annina Manetta si torturava di impazienza, aspettando, per uscire Pasqualino Spano che non veniva; nel padiglione del Divino Amore era arrivato il Pungolo con le notizie. Enrichetta Caputo ch’era febbricitante quella sera, lo aveva letto, aveva dato un grido ed era svenuta. La madre e Ciccillo De Marco la soccorrevano; il gobbo aveva letto il giornale, impallidendo, pensando che oramai Enrichetta era sua, per riconoscenza; egli le aveva impedito, la sera prima, di salire sul Vesuvio, con coloro che erano venuti a prenderla. E in una villa di Posillipo, i due sposi innamorati, Peppino Sarnelli e la primogenita delle Cofaro, belli, ricchi, buoni, guardavano l’eruzione, abbracciati, non avendo paura, poichè nulla spaventa gli amanti che si abbracciano.
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Il Pungolo dava la prima lista delle vittime:
Pasqualino Spanò, — studente in medicina, — ritrovato il corpo.
Tommaso Vanacore — guida, — ritrovato il corpo.
Guido Castelforte — anni 24 — dottore in medicina — ritrovato il corpo, abbracciato con quello della sua fidanzata.
Margherita Fusco — di anni 18 — come sopra. (L’uno dovette voler morire per non lasciare l’altro).
Elvira Brown Castelforte — di anni 25 — andava più avanti di tutti, non fu ritrovato il corpo. Trovato un pezzo d’oro liquefatto: forse il serra collo d’oro. Supponesi coperta dalla lava.