Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Il romanzo della fanciulla
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NON PIÙ!

II.

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II.

 

 

La puerpera appoggiava il capo e le spalle a un grande mucchio di cuscini, dalle foderette di tela finissime tutte adornate di ricami: le due mani bianchissime, esangui, si allungavano sulla larga trina antica, che formava la rimboccatura del lenzuolo e toccavano quasi il damasco azzurro della coperta. Ella portava una camiciuola di batista tutta spumosa di merletti; sui capelli bruni, ondulati, una cuffietta di gala; e le dita, i polsi, le orecchie erano ornate di molte gemme. Ella poco si muoveva, poco parlava, un po’ pallida, ma beatamente sorridente: ogni tanto socchiudeva gli occhi, come se si addormentasse.

Dalla mattina la casa era piena di gente che andava e veniva, ella era stordita da tante domande, da tante congratulazioni: alla fine, verso le due, ella aveva dato un bacio al suo bambino che le avevano portato in abito da battesimo, e tutti erano andati alla cattedrale: ella respirava, tranquilla, riposandosi, poichè fra poco l’andirivieni sarebbe ricominciato. Emma, seduta a’ piedi del letto, le parlava, sottovoce: ella non aveva voluto andare alla chiesa.

Rosì, perchè chiamarlo Gaetano?

— Così ha voluto Vincenzino — fece la puerpera, movendo un sol dito, per esprimere che non vi era da opporsi.

— È un brutto nome.

Brutto: ma la creaturina è bella.

— Tutti i figli tuoi sono bellimormorò Emma.

— Questo è il più bellodisse la madre, placidamente.

— Quando avrai il quinto, dirai che quello è il più bello.

— Già — acconsentì la puerpera sorridendo.

Vi fu un momento di silenzio. Rosina Sticco odorava una ciocchetta di erba, l’erba cara alle donne partorienti. Emma passava leggermente le dita sul damasco della coperta, come se lo carezzasse: e gli occhioni bruni erano più che mai nuotanti nel languore, il pallore di creatura anemica si tingeva di un lievissimo giallo, ancora impercettibile.

— Tua sorella Giannetta non è venuta da Caserta? — chiese Emma.

— No, poverina: ha la suocera malata. Maria mi ha telegrafato da Piedimonte e Costanza mi ha scritto da Verona.

Costanza ha due figliuoli?

— Due.

— E Maria?

— Uno: e uno Giannetta.

— E tu quattro: la mamma tua è già otto volte nonna.

— Otto: ma ha ancora tre figlie da maritare. Non dico per Olimpia e per Teresa: ma Assunta ha già ventotto anni, mi fa pena, capirai....

Un lieve rossore salì alla fronte di Emma.

— Che importa? mormorò costei. — Non ci è obbligo di maritarsi.

— Non lo dire, cara. Qualunque cattivo matrimonio, val sempre meglio di nulla.

— E perchè?

— Per i figli, Emmadisse gravemente e dolcemente la madre felice.

Un velo di lagrime tremolò per un minuto negli occhi di Emma.

— I figli.... i figlidisse lei. — Che ne farai di questi bei figliuoli?

— Per ora, me li godo io.... sono così piccolini! Ma Vincenzino è pieno di ambizione per loro.

Parlate sempre dei bimbi, fra voi.

— Sempre.

— E l’avvenire ti piace?

— Non è il mio che m’interessa, è il loro.

— È verosoggiunse Emma.

Di nuovo tacquero.

— Quanto tardanomormorò la puerpera. — Avranno fatto il giro largo: o la mamma li avrà trattenuti.

— La matrina è Grazia?

— Sì, Grazia Orlando: e suo marito, il padrino.

— Ti rammenti, Rosina? Pareva che impazzisse per Giorgio Lamarra, Grazia: e poi è guarita, ha sposato l’avvocato Santangelo.

— Ha fatto bene: a che amare un birbante come quello?

— Anche Clementina Riccio, si è consolata e ha sposato suo cugino, lo zoppo.... che bella costanza!

— A che servono questi amori così lunghi, Emma?

— Quando si vuol bene, chi si accorge del tempo?

— Con Vincenzino ci siamo sposati dopo sei mesi di amore.

— Ma di Vincenzino ce n’era uno solo, il tuo; e la intonazione era fra dispettosa e umile.

Una viva pietà si delineò sul volto della malata. Ma non ebbe tempo di dire una dolce parola a Emma. Caterina Tarcagnota, maritata Savarese, entrava, enorme in un vestito di stoffa nera, con le guancie rosse e lucide, con le braccia simili a colossali salsiccioni. E subito, con un sospiro, esclamò:

— Oh cara signora Sticco, a chi tanto, a chi niente!

— Avete il tempo, cara baronessa, ne farete dodici.

— Possa passare un angelo e dire amen; ma io ci spero poco, tutto dipende dalla complessione.

— Così si dice, ma chi lo sa? la Roccatagliata, così magra, ne ha forse fatti?

E mentre così discorrevano, altre signore sopraggiunsero, per la visita di prammatica. Clelia Mesolella con un vestito nuovo e un paio di nuovi orecchini, due grossi smeraldi; Felicetta de Clemente incinta di cinque mesi; Carmela Barbaro a cui l’aria bassa di Santa Maria aveva illanguidito sempre più gli occhi orientali; Lucrezia Sticco-Piccirillo che era venuta apposta da Casapulla: sedute in circolo, attorno al letto, parlando a voce discreta, esse s’intrattenevano di figliuoli, di gravidanza, di casi orrendi e di casi strani, di voglie, di odori, di chirurghi e di levatrici.

Tutte mostravano il più grande interesse a sapere da Rosina, come era andata la cosa: ed ella rifaceva il breve racconto, non aveva sofferto punto, tutto benissimo, il bel maschio aveva fretta di nascere. E le ascoltanti scrollavano il capo, soddisfatte, sorridenti, e l’una dopo l’altra, rinviandosi delicatamente il discorso, narravano ognuna il loro piccolo aneddoto di maternità, e intanto le altre prestavano un’attenzione cortesissima, seguendo tutte le peripezie, facendo qualche breve esclamazione. A qualche asserzione, tutte facevan coro: oppure qualcuna contraddiceva, un’amabile discussione sorgeva.

L’ambiente si empiva di queste voci intenerite, di questi discorsi dolci e gravi, in apparenza frivoli, ma in cui si riassume tutta la vita femminile: queste spose che erano già madri, o dovevano esserlo, o desideravano profondamente di diventarlo, si lasciavano andare a tutto l’affettuoso che sgorgava, naturale, dal cuore aperto.

Rosina ascoltava, già rosea, approvando col capo o negando con un cenno della mano, ella, la madre felice. Ritta, immobile, appoggiata alla spalliera del letto, Emma, la sola fanciulla in quella stanza, ascoltava. Tutta quella maternità che fluiva nelle parole, nei sorrisi, nelle voci, negli sguardi, in certe intonazioni, tutta quell’onda letificante di amore, arrivava sino a lei, penetrandole nell’anima, ella beveva quasi, tutta quella dolcezza: e nello spasimo di quella impressione troppo acuta, il viso pallido diventava cereo, e i grandi occhi languidi si facevano più tristi, più trasognati che mai.

Dalla strada salì un rumore sordo di ruote: la puerpera si distrasse, chinò le palpebre, restò come assorbita: le signore tacquero, aspettando. Una viva scampanellata, risuonò per tutta la casa; il volto della puerpera si tramutò. E in anticamera sorse un vocio intenerito di serve, di familiari:

— È tornato, è tornato! San Gaetano lo benedica! Cresci santo, cresci santo!

Il piccolo essere si avanzava, portato solennemente sulle braccia di Grazia Santangelo Orlando: il lungo abito bianco da battesimo, tutto merletti, tutto ricami, pendeva da un lato, la testina si appoggiava sopra un cuscino, tutto a merletti. La faccia un po’ rossa, dalla pelle delicata, s’incorniciava fra l’arricciatura di una cuffietta di gala: gli occhietti aperti avevano lo sguardo serio serio dei neonati: la bocca si schiudeva ogni tanto, con quel moto adorabile degli uccelletti che vogliono beccare; e una manuccia piccolina piccolina agitava lievamente le dita, come se già il neonato pensasse dentro di . Grazia Orlando Santangelo, con un vestito venuto apposta da Napoli, di broccato, con un cappello scintillante di perline, tutta dignitosa, attentissima, tendeva le braccia, portando il piccolo come sopra un vassoio. Dietro di lei la levatrice, donna Mimma Scaletta, sfoggiava un abito di seta verde pisello, uno scialle di crespo bianco, un cappello nero carico di rose rosse, uno spillo di mosaico che rappresentava il Colosseo di Roma: e aveva la grassezza tradizionale di tutte le levatrici, l’aria d’indulgenza bonaria, la gravità della persona importante. Venivano dopo Viucenzino Sticco, il padre fortunato, e Ciccillo Santangelo, il compare, in marsina e cravatta bianca: e tutta la processione delle vecchie zie, la signora Astianese con le tre figliuole ancora zitelle; Emma, Ferdinando e Carluccio, i tre figliuoli di Rosina.

Un grande cerchio di persone ritte si formò attorno al letto, e in quel vuoto, Grazia Santangelo si avvicinò alla puerpera: con voce un po’ tremante, offrendole il bambino, le disse:

Comare mia, ti riporto un piccolo cristiano.

La madre prese il piccolo cristiano nelle braccia, si chinò su lui e lo baciò, a lungo. Forse, tacitamente, gli diceva qualche cosa: forse, sul piccolo cristiano, scendeva la fervida benedizione materna, viatico d’amore per tutta l’esistenza. Un silenzio profondo, pieno di emozione, regnava nella camera: Grazia Santangelo fermava un braccialetto di perle e smeraldi al polso di Rosina, il dono della comare; Ciccillo Santangelo aveva posato sul letto un astuccio di cuoio rosso, dove era riposta una posatina di argento e un bicchiere, il dono del compare al bambino. Poi Rosina diede di nuovo il piccolo cristiano a Grazia, le due donne si baciarono, e sulle braccia di Grazia il piccolino andò in giro.

Fu portato prima al bacio del padre, Vincenzino Sticco, che osò appena sfiorargli la guancia, per paura che il mustacchio grosso lo facesse piangere; poi a quello della nonna, che gli fece un segno di croce sulla fronte e sul petto; poi alle ragazze Astianese, le giovani zie, poi, in giro, a tutte le signore. La puerpera seguiva questa presentazione con lo sguardo, sorridendo un poco, e abbassando il capo, quasi ringraziando, a ogni frase di tenerezza, che tutte quelle persone rivolgevano al cristianello. Ed era un concerto: il piccolo con la faccina minuta, col nasetto abbozzato, con quella smorfietta della bocca, con quella molle peluria bionda che spuntava di sotto la cuffietta, sulla fronte, con quella delicatezza di ditini irrequieti, inteneriva tutta la società. Lo baciavano pian piano, per non fargli male, per non farlo piangere, gli dicevano delle paroline di amore, quei piccoli nomi che il cuore femminile inventa: le ragazze lo guardavano curiosamente come un oggettino raro.

Tommaso, il servitore, andava intorno, con vino e dolci: offrivano, per giuoco, dei confetti al cristianello serio serio, e il compare Santangelo voleva fargli bere del Marsala, per avvezzarlo presto, diceva. E degli scherzetti provinciali corsero, sul Marsala che preferiscono i cristianelli: mentre la nutrice, Olimpia, una contadina di Cascano, stava ritta in un angolo, bellissima sotto il fazzolettino di batista bianca, appuntato sul capo da grossi spilloni, con la gonna di seta violetta cangiante, il guarnello di seta gialla e il busto di seta nera gallonato d’oro.

Infine venne la volta dei bimbi: Emma e Ferdinando avevano seguito passo passo Grazia Santangelo che portava sulle braccia il loro fratelluccio, Emma toccava ogni tanto il vestito da battesimo, Ferdinando si rizzava sulla punta dei piedi ma non riusciva a veder nulla, Carluccio si attaccava a Ferdinando, avendo due anni, portando ancora la gonnelluccia da donna. Quando tutti ebbero baciato il piccino, Grazia Santangelo sedette, e i tre bimbi, soddisfatti, la circondarono. Stava in mezzo il cristianello, con gli occhietti spalancati e la boccuccia che sbadigliava, i tre bimbi si guardavano in silenzio. Emma soltanto, la donnina lo baciò: Ferdinando gli mise un braccio attorno alla testa, sul cuscino. E come la manina del cristianello si agitava, Carluccio gli dette un ditino: e la manuccia del neonato si strinse attorno a quel ditino.

 

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Cadevano le ombre crepuscolari in quella camera. La puerpera, stanca, appoggiava il capo ai cuscini e socchiudeva gli occhi, come per dormire. La stanza era vuota. Ella si voltò, cercò con la mano accanto a lei, e con fievole dolcissima voce materna, chiamò:

Gaetanino? Gaetanì?

Il piccolino guardava la mamma, con gli occhietti vivaci. Ma dietro una tenda, un piccolo singhiozzo s’intese: Emma Demartino singhiozzava.

 

 

 


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