Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Il romanzo della fanciulla
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NON PIÙ!

III.

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III.

 

Ella misurò il lavoro fatto con l’occhio esperimentato, e vide che la calza arrivava ormai alla fine del polpaccio: bisognava cominciare una serie di maglie doppie per diminuire il giro della calza intorno al collo del piede. Attentamente, con l’unghia del pollice che strisciava sui ferri, essa contava le maglie; quando nell’aria cheta pomeridiana, nel grande silenzio estivo provinciale, un fischio dolcissimo risuonò. Subito, Emma levò gli occhi e guardò fra le stecche della persiana verde: Federico Mastrocola era al suo posto, alla piccola finestra del granaio, mostrando la testa bruna tutta arruffata di ricci, e torcendosi il mustacchietto incipiente. Emma chinò di nuovo gli occhi e ricominciò a fare il conto delle maglie che doveva diminuire: nel suo volto pallido di fanciulla anemica si era manifestato, con gli anni, un crescente scolorimento.

Gli occhi avevano perduto e la vivacità e il languore che li rendevano tanto seducenti, erano diventati come smorti, come opachi; due borse di pelle floscia, giallastra, con qualche intonazione livida si erano formate sotto le palpebre; le labbra erano passate dal rosso al rosa, dal rosa al violetto pallidissimo, delicato. Ancora le guancie conservavano una finezza elegante e la carnagione sulle tempie, intorno alle orecchie era bianca e trasparente come la porcellana; ma quello che invecchiava quel volto, senza rimedio, non era la radezza dei capelli male dissimulata, non era la magrezza del collo; erano quelle due borse di pelle floscia, come morte, già tinte dei colori della corruzione e della decomposizione. Le mani che lavoravano alla calza conservavano la loro bellezza, ma già i polsi avevano certe sottili rughe, che ne aggrinzivano la pelle; la cintura era ancora sottile, ma un segno infallibile della vecchiaia era il taglio dell’abito, molle e piatto sul petto, corto di vita, largo sui fianchi, quel taglio tutto fantastico ma tutto speciale della vecchia zitella; il segno della vecchiaia era in quelle scarpette di marocchino nero, quadrate in punta, annodate coi nastri di seta nera, col tacco largo e basso, che non facevano rumore nel camminare.

Di nuovo, il fischio di Federico Mastrocola risuonò, dolcissimo: uno zufolìo gli rispose: alla loggetta di Chiarina Oliver, una personcina bionda era comparsa, tutta inondata di sole, ammiccando con gli occhi azzurri: era Emma Sticco che tutti chiamavano Mimì per la sua gentile bellezza. Dietro a, lei, Chiarina Oliver s’intravedeva seduta, china sul suo lavoro all’uncinetto, una grande coperta fatta tutta di stelle; la si vedeva, occupata solo dal suo lavoro, disinteressata da quello che poteva fare fuori della loggetta Mimì Sticco, la sua amica. Veramente anche la biondina Mimì teneva in mano una stella all’uncinetto: ma non lavorava, sorridendo a Federico Mastrocola. La distanza fra la loggetta di Mimì e il granaio di Federico era poca: ambedue sporgendo nel grande orto d’Oliver, tutto verde di alberi di fichi; accanto vi era l’orto delle Tarcagnota, ma le altre due grassone si erano maritate, una a Nola, un’altra a Napoli; la primogenita era morta di parto, tutte le finestre erano sbarrate; sicchè restava solo il balcone di Emma Demartino donde si poteva vedere l’armeggio dei due innamorati. Ma la persiana verde non si rialzava mai, la vecchia zitella non si mostrava mai, restava dietro le stecche a lavorare la calza. E in quella calda pace del pomeriggio estiva, in quel silenzio di provincia dormiente che digerisce i maccheroni, i due innamorati chiacchieravano, sotto la tutela amichevole di Chiarina Oliver, che fingeva di non udire.

Perchè non sei venuto alla messa, stamattina? — disse la biondina, cercando invano di prendere un’aria severa, mentre gli occhi le brillavano di amore.

— Ho dovuto accompagnare alla stazione le zie Caputo.

— Sono partite?

— Sì: a quest’ora sono già nel ritiro di Mondragone.

— Mi ci voglio ritirare anch’io, Federì, — esclamò, ridendo quella gentile.

Aspetta di avere sessantacinque anni, Mimì, e di non aver più un cane che ti voglia bene.

Per un momento le mani di Emma Demartino, zitellona, si fermarono sui ferri come immobilizzate. Poi si passò una mano sulla fronte, quasi a diradarne una nube: fredda la mano, freddissima la fronte.

Dopo la stazione, dove sei stato? — ricominciò la bionda e terribile inquisitrice.

— Ti ho cercata in piazza.

— Non è vero niente.

— Te lo assicuro.

— Non è vero: non dire una bugia.

Domanda piuttosto a Luisa Ciccarelli e a suo marito: sono stato con loro.

Domanderò: ho visto Luisa alla messa, avea un cappello rosso che le stava malissimo, era gialla, era orrenda.

Era orrenda: ma il cappello era verde e la faccia era color terra, — esclamò l’innamorato con voce trionfante, non essendosi lasciato cogliere in trappola.

Rideva Mimì Sticco, la furba che aveva teso il tranelluccio, dove Federico non era cascato; rideva anche, sottovoce, Chiarina Oliver: ma dietro le stecche verdi nessun sorriso sfiorava le labbra violette di Emma. Ella badava che le maglie doppie fossero a destra e a sinistra della bacchetta, tutte eguali in modo che la calza discendesse bene sino al tallone. Udiva tutto il discorso dei due giovanetti, lo udiva quel giorno, come da due mesi, sopra i melagrani fioriti dell’orto Tarcagnota, sopra la verdura larga e fitta dei fichi dell’orto Oliver: e al chiacchiericcio ora allegro, ora sentimentale dei due innamorati, si accompagnava lo stridìo di certe cicale; e il ponente portava talvolta un cattivo odore di cuoio conciato o di canapa in macerazione, talvolta strappava dei profumi all’orto Astianese, dove erano fioriti i mandarini. Ma nulla sapevano, Mimì la bionda e Federico, di quanto accadeva intorno a loro, puzzo o profumo, canto di cicale o ronzìo greve di mosconi: nulla sapevano di quello che avvenisse dietro la persiana verde.

— O Mimì, con chi sei andata alla messa?

— Con mammà e zia Lucrezia Piccirillo.

— È vero che ti vogliono far sposare Antonio Piccirillo?

— Ho pregato santa Emma, stamane, perchè questo non sia.

Santa Emma vorrà proteggerci, Mimì?

— Così speriamo, — mormorò la biondina, congiungendo le mani.

Speriamo, — soggiunse Federico, diventato pensoso.

Dietro la persiana, la zitellona guardava le maglie bianche della sua calza, ma non le vedeva: col quarto ferro, distrattamente, si punzecchiava una guancia. Sotto l’urto del ferro la pelle floscia cedeva; ma non si scorgeva una goccia di sangue, dietro quella carne appassita di creatura anemica. Ripensando alle parole di speranza che i due giovani avevano pronunziate, ella chinava il capo sotto i ricordi delle speranze morte, tormentando la sua guancia esangue, stuzzicando il suo cuore silenzioso e secco.

— Ma esiste una santa Emma? — domandò Federico, volendo fare pompa di scetticismo.

— Sei un eretico, Federico, — osservò gravemente Mimì Sticco.

— Nel calendario non c’è.

Leggi il calendario francese; leggi il martirologio; vedrai se c’è.

— Se manca la santa, santificheranno te, Mimì.

— Certamente, per la pazienza che ho con te.

L’idillio per un poco diventò drammatico. La biondina era furiosa, perchè Federico non avea un’oncia di serietà, scherzava su tutto, non si poteva esser sicuri di nulla con lui; Federico, irritato, scrostava dei pezzi d’intonaco e li scagliava sulle lucertole dell’orto Oliver, ferocemente. Chiarina Oliver dovette interporvisi; a una certa ora della giornata, doveva sempre intervenire fra i due innamorati.

— Che vi hanno fatto le lucertole, Federico? — domandò Chiarina, ridendo.

— Nulla: è Mimì che è un diavolo, — borbottò lui.

Benissimo, caro Federico: e tu lasciami stare.

— Ti lascio stare.

Cercane un’altra.

— La cercherò!

Peccato che la zia Assunta Astianese, la zitellona, si sia maritata l’anno corso, col vecchio cancelliere; potevi prenderla tu.

— Hai ragione: ma scriverò a Teano, a donna Margherita Crocco, per chiederla.

Chiedile tutte due, Margherita e Vincenzella, con la vigna e i quattrini, in tutto quindicimila ducati e centocinquanta anni.

— Sì, sì, mi conviene.

E si guardarono in cagnesco, Federico tirandosi nervosamente i ricci della zazzera e Mimì battendo il piccolo pugno sulla ringhiera della loggetta. Chiarina li guardava, con una malizia affettuosa negli occhi, tenendo sospeso l’uncinetto e giocando col filo.

Federico avea acceso un sigaro, fumava guardando in aria.

Dietro la persiana, Emma Demartino guardava i due innamorati bizzosi: non così, forse, nel tempo lontano, litigavano dolcissimamente con Carluccio Scoppa? Le mani molli le erano cascate in grembo, smorte sul vestito bruno di lana, e il gomitolo del filo era caduto per terra: il gatto, il vecchio gatto rosso e grasso, arrotolato, sonnacchioso, egoista, non si degnava neppure di scherzare col gomitolo.

Mimì, — chiamò Federico.

Quella non rispose, scrollando le spalle.

— Non far la capricciosa, Mimì; lo sai che ti voglio bene, — e queste ultime parole le disse piano, guardandosi intorno.

Stt! — fece lei, mettendosi un dito sulle labbra, ma con la fisonomia già rasserenata.

Perchè?

— Ti possono sentire.

— Chi vuoi che senta? Tutti dormono a quest’ora.

— Se mammà viene a sapere che io parlo con te, di qui, ogni giorno, non mi manda più da Chiarina e mi chiude in camera.

— Per carità, come faremmo?

Moriremmo, — esclamò tragicamente la biondina.

— Ma che!

— Certo: io sarei capace di buttarmi nel pozzo, come si racconta che facesse Paolina Gasbarra, per un ufficiale biondo.

— Ma non è morta.

— Non è morta subito, l’anno ripescata ancora viva: ma ha preso una bronchite, è morta tre anni dopo, di mal sottile. Anche io morirò di tisi, Federico, se non posso sposarti?

— Non dire queste cose, che mi contristi.

E si guardarono con tanta malinconia ed erano così giovani, sani e belli, che Chiarina Oliver scoppiò a ridere convulsamente.

— Ma perchè la tua mammà è così cattiva?

Mammà è buona, — rispose la biondina, — ma dice che siamo troppo giovani, che è un capriccio da ragazzi, che tu non hai serietà, che bisogna aspettare.

— Io ho ventiquattro anni: diventeremo vecchi, ad aspettare.

— Io ne ho sedici: mammà vuol farmi diventare una zitellona.

E non aveva avuto una volta anche lei sedici anni, la donna che ascoltava, senza più lavorare, dietro la persiana verde? Quando, in che epoca soave e remota della vita? E non avea creduto, allora, che la gioventù non le dovesse mai finire?

— Ci vieni al matrimonio di Maria Orlando? — domandò Mimì.

— Come tu vuoi, Mimì.

— Vieni; Maria Orlando vuol fare una festa grande ora che è arrivata a sotterrare, uno dopo l’altro, i due mariti, i due fratelli Mosca: ora piglia il terzo, e così tutte le ricchezze di casa Mosca passano in casa Orlando. Vieni: noi ci andremo, la comare Grazia vuole presentarti a mammà, cerca di piacerle, non dirle nulla, ma sta serio.

— Posso far la corte alla comare Grazia?

Nossignore, insolente!

— Allora a tua zia Olimpia, così simpatica?

— Niente affatto, signor birbone!

— E che farò? Con chi discorrerò, per non farti arrabbiare? Mi attaccherò alla tua matrina, Mimì: è vecchia abbastanza, non ti pare?

Zitto! — fece la biondina, guardando la finestra dalla persiana verde.

Ma la matrina non si mosse, non dette segno di vita, non un fremito l’agitò per la crudeltà di quei due innamorati. Non era forse stata felicemente crudele, anche lei, nel tempo, nel passato che era fuggito via, velocemente?

— Che dirò alla mamma tua, per farle piacere, Mimì?

Parlale dei figliuoli: non vuol sentire altro.

— Le parlerò di te: le dirò che ti amo.

— Tu sei matto, Federì: parlale dei maschi.

— A chi vuol più bene?

— Vuol bene a tutti.

— Non è Gaetanino che preferisce?

— No, no, ci ama tutti egualmente. Parlale di Ferdinando che è al collegio militare di Napoli, vi ha preso la cifra reale, la settimana scorsa, o di Carluccio che è il più bello di tutti....

— Tu sei la più bella....

—.... non m’interrompere. Congratulati per Gaetanino che è guarito così miracolosamente del vaiuolo, dille che Paolino e Pietruccio sono tanto carini. Insomma, pensa che ella non ha altro pensiero che noi, altro amore che per noi.

— E per papà?

— Le donne, quando hanno i figliuoli, non amano più il marito, — disse solennemente la biondina.

— Anche tu vuoi fare così?

— Anch’io.

— Allora preferisco non aver figliuoli.

— Non ti far sentire dir questo a mammà.

Macchinalmente Emma Demartino avea messo la mano in tasca, ne aveva cavato il rosario e aveva cominciato a recitarlo, tra , per non ascoltare più quella conversazione. Era una preghiera che si staccava monotonamente da quello spirito: una preghiera senza slancio e senza fervore. Ella non aveva più nulla da chiedere, per , per gli altri. Soltanto per un’antica abitudine, a ogni Pater aggiungeva un Requiemi, da che Carluccio Scoppa era morto di cholera a Napoli; e a questa preghiera, che invocava pace al povero morto, seppellito in un cimitero senza fiori, sotto una pietra senza nome, un lieve riflusso malinconico di vita le inondava il cuore. Il povero morto non l’avea amata, no: era rimasto in Napoli, avea sposata una napoletana; lei, Emma, era rimasta zitella, non si sa come, non si sa perchè, — ma ella era ormai senza rancore, piena solo di una grande tristezza, come se tutto si staccasse da lei, un grande funerale lento. Giusto dalla chiesa della Croce un rintocco fievole, a morto giunse.

— Chi è morto? — chiese Mimì.

Emma tese l’orecchio.

Donna Irene Moscarella, — rispose Federico. — Aveva novant’anni o centoventi, forse.

— Chi piglia il posto, ora?

E maliziosamente, senza parlare, Mimì la bionda, con l’occhio e col gesto sorridendo, indicò il balcone della sua matrina, Emma Demartino.

Emma avea visto tutto: occhiata, cenno, sorriso, — e le erano arrivati al cuore, senza farla trasalire. In verità, ella posava nella suprema inerzia dello spirito: niuna cosa umana poteva darle una speranza o un rimpianto.

 

Fine.



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