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II
In quel giorno, rientrando, verso le sei, Cesare Dias aveva portato a casa un grande buon umore. Durante il pranzo, egli aveva trovato tutto eccellente, mentre il segnale della sua seccatura, era sempre di trovare il pranzo cattivo: e aveva mangiato di buon appetito, narrando una quantità di storielle, che egli riserbava per le sue buone giornate. Aveva scherzato con Laura, con Anna, aveva persino fatto i complimenti a sua moglie, per una elegante vestaglia, che ella metteva quel giorno, la prima volta. Infine la sua allegria si era comunicata anche alle due donne, che si mettevano subito all'unisono con lui. Anna lo guardava con quei suoi occhi umili e teneri, che non si sapevano staccare da Cesare, attirati da un fascino amoroso: e ogni volta che egli sorrideva, macchinalmente sorrideva anch'essa per riflesso, quasi che ormai non vivesse più di vita propria.
Laura, è vero, parlava poco, ma tutta la sua fisonomia conservava quella vivacità, quell'animazione che ne aveva rinnovellata l'espressione, da qualche tempo: ed ella approvava, chinando il capo, quello che diceva Cesare. Dopo pranzo, quasi tutti passarono nel salotto di Anna: era una serata pari del mese, e la signora Dias riceveva qualche visita, in quella serata, qualche amico, così, alla spicciolata, tanto per avere il pretesto di restare in casa, – ella ormai rifuggiva dai pubblici ritrovi dove non si sentiva intonata con la frivola gaiezza delle persone del suo mondo. E vedendo tanti fiori odorosi, sparsi un po' dappertutto – era il giugno, giusto un anno dopo il loro colloquio di Sorrento – vedendo il samowar d'argento sopra il tavolino, egli domandò:
– Qualcuno: forse nessuno.
– Ah ecco, perciò ti sei fatta così bella!
– L'avevi presa per te, quella vestaglia, Cesare? – disse scherzando Laura.
– Sono un po' presuntuoso; tutti i presuntuosi hanno delle grandi delusioni. Scommetto che viene Luigi Caracciolo, il tuo fedelone...
– Ma... non lo so – disse Anna, con indifferenza.
– Finge, Anna – continuò a scherzare Laura.
– Finge, finge; – ripetette, ridendo, Cesare – ci giurerei, che la ostinata fedeltà di Caracciolo ti ha commossa. È ammirabile; ti ama da un centinaio di anni, mi pare...
– Oh Cesare, non scherzare così! – supplicò Anna, messa alla tortura.
– Lo vedi, Laura, ci si turba.
– Si turba; è vero... – confermò Laura.
– Siete due cattivi – mormorò ella, candidamente. Erano aggruppati in un cantuccio del salotto, dove intorno alla sedia lunga di riposo, di raso nero a bottoni gialli cui soleva mettersi Anna, erano tante sedie e sedioline, e sgabelli, e tavolinetti, e una gran fioriera, alle spalle; Cesare stava sdraiato in una poltrona, col capo arrovesciato, con la cera beata di chi ha ben pranzato e di chi sta digerendo tranquillamente, in un perfetto equilibrio di stomaco: Laura sopra una sediolina bassa, giuocava coi fiocchi di seta bianca del cordone che le stringeva alla vita, il suo abito bianco, un po' monacale: e Anna, seduta sulla sua sedia di riposo, con lo strascico di raso lillà ammucchiato intorno ai piedi, e mordicchiando il gambo di un fiore, cercava di dominare un po' l'inquietudine nervosa. Cesare, adesso, aveva aperta la scatola di argento russo, dove conservava le sue sottili sigarette, e ne aveva offerte, per ischerzo, alle due donne.
– Io non fumo, lo sai – disse Laura.
– Il fumo fa male ai denti – e mostrò i suoi, che scintillavano, simili a quelli di Beatrice, nella novella di Edgardo Poë.
– Hai ragione, bella Minerva. Fuma tu, allora, Anna...
– Neanche io, fumo – diss'ella, con un dolce sorriso.
– Devi imparare, tu: ti sta bene, sei bruna, hai il tipo spagnuolo e il papelitos completerebbe la tua figura.
– Imparerò, Cesare – aderì ella, vinta subito.
– Tanto più che il fumo calma i nervi. Non puoi credere che effetto di stupefazione. Niente è meglio, per calmare i piccoli dolori...
– Dammi una sigaretta, allora – diss'ella immediatamente.
– Chissà! – disse ella, buttando via la sigaretta.
– Tu non hai piccoli dolori, Laura? – chiese Cesare.
– Chi si può vantare di non aver mai pianto? – disse Anna, col suo accento malinconico.
– Se sprofondiamo nel sentimento, me ne vado un'ora prima...
– No, no, non te ne andare – pregò Anna.
– Ti faccio osservare, che dobbiamo passare tutta la vita insieme – disse ironicamente Cesare, scuotendo la cenere della sua sigaretta.
– Tutta la vita e più in là – Anna disse, pensando.
– Anche più in là? La cosa diventa grave. Ci penserò, mentre mi vesto, questa sera.
– Dove vai? – e la moglie pareva distratta, facendo questa domanda.
– In giro – disse egli levandosi senz'altro.
– Perchè non resti? – osò pregare lei.
– Non posso: debbo andare in giro.
– Ritorni presto, almeno? – ribattè ella, avendo dimenticata la presenza della sorella.
– ...presto sì – concluse Cesare, dopo una brevissima esitazione.
– Ti aspetto, Cesare – disse Anna, insistendo.
Era partito. Laura aveva udito questo dialogo, con occhi socchiusi e mordendosi le labbra, come faceva da qualche tempo: non aveva detto nulla. Quando sua sorella e suo cognato scambiavano qualche parola affettuosa – veramente Cesare non faceva che rispondere alle affettuosità di Anna – ella assumeva quel suo contegno di statua, che non sente, non ode, non vede: oppure, scivolava fuori della stanza, senza far rumore. Spesso, Anna sorprendeva sulle labbra di Laura quel riso beffardo che era l'antitesi del suo purissimo volto, l'ironia di una vergine glaciale, che non ignora la falsità e la vacuità dell'amore. Quella sera, quando Cesare fu andato via, le due sorelle restarono ancora insieme, qualche minuto: ma troppo le anime loro erano assorbite in un profondo pensiero, perchè la più semplice conversazione potesse annodarsi. Anna si era sdraiata sulla sua sedia di riposo, da cui lo strascico di raso lillà pendeva per terra; e appoggiava la bruna testa, a cui i nerissimi capelli formavano un casco alla guerriera, alle due mani congiunte, guardando il soffitto. Laura teneva il suo posto nella sediolina bassa, chinato il capo, annodando, snodando, riannodando i cordoni della sua veste bianca, talvolta tirandone i capi, quasi volendoli spezzare.
– Me ne vado: buona sera – disse a un tratto.
– Perchè te ne vai, Laura? – chiese Anna, uscendo dai suoi pensieri.
– Sarebbe inutile restare: ora verrà gente.
– Appunto per questo: mi aiuterai a sopportare le visite.
– Oh, è fatica superiore alle mie forze – soggiunse freddamente la bionda e bellissima Minerva. – Eppoi... vengono a trovar te, mia cara.
– Ti mariterai anche tu! – disse scherzosamente Anna, che era ancora di buonumore, per il buonumore di Cesare, per la promessa di ritornar presto che Cesare le aveva fatta.
– Chissà! buona sera – e si levò per andarsene.
– Ma che fai ora?
– E che leggi?
– Le mot de l'enigme, della signorina Paolina Craven.
– Un romanzo mistico? ti vuoi far monaca?
Anche Anna aveva preso un libro, dopo partita Laura. Era l'Adolphe di Beniamino Constant, che aveva trovato, un giorno, sulla scrivania di suo marito, e dalle cui fredde eppure ardenti pagine usciva il fascino delle storie vere, sgorgate dal cuore in un solo e straziante grido di dolore. Anna aveva letta la storia di quell'atroce impotenza spirituale, due o tre volte: ne ricominciava ancora la lettura, attratta bizzarramente. Ma non lesse a lungo. Due o tre visite vennero: la marchesa Sibilia sua zia, accompagnata da Gaetano Althan, che aveva la predilezione di accompagnar sempre le vecchie; il commendatore Gabriele Mari, un vecchio sessantenne e poi il principe di Gioioza, il bel calabrese della Calabria di Reggio, la Calabria azzurra, un gentiluomo finissimo e intelligente. La conversazione, naturalmente, ebbe quel miscuglio di frivolezza e di serietà che hanno sempre questi piccoli circoli, dove si tiene a non esser troppo gravi e si vuol avere l'aria di essere paradossali. Anna, per lo più, non faceva che prestarsi gentilmente, con un movimento tutto esteriore del suo spirito: ma quella sera trattenne di più i suoi visitatori, poichè voleva non accorgersi troppo delle ore che dovevano passare, sino al ritorno di Cesare; li trattenne, con una repressa letizia, poichè aveva in cuore una divina speranza. Quando il principe di Gioioza, restato ultimo, se ne fu andato, erano le undici passate.
– Non verrà più nessuno – ella pensò.
Ma talvolta, qualche amico passava per piazza Vittoria, tornando dal San Carlo, o da qualche circolo, e vedendo le finestre dell'appartamento illuminate, saliva a passar mezz'ora presso la signora Dias. Ella non era precisamente alla moda, poichè non era entrata ancora nel turbine mondano: però aveva intorno non so quale indefinita aureola di romanzo, una storia poco conosciuta, e che aveva tutte le seduzioni del mistero: tutti, poi, sapevano che ella aveva amato Cesare Dias sino a volerne morire, tutti sapevano che egli aveva rinunciato al suo dolcissimo celibato, per questa passione che aveva ispirata. E queste leggende danno sempre un carattere di simpatia strana alle loro eroine: così, malgrado non fosse una regina alla moda, Anna Dias aveva già un gruppo di conoscenze, che avean per lei quella cordialità amichevole, che le relazioni mondane consentono.
– È tardi: non verrà più nessuno – pensò ella di nuovo.
Ma s'ingannava. Il servo annunziò Luigi Caracciolo, e il bel giovane entrò, con la sua correttezza inglese che temperava la vivacità della sua bionda gioventù. Era in marsina, portando il suo fior di mughetto all'occhiello: e il vestito serale del gentiluomo modellava benissimo la sua persona. Anna gli stese la mano, amichevolmente: le gemme scintillarono sotto la luce della gran lampada che rischiarava tutto il salotto.
– Mano stellata – egli disse, inchinandosi nello stringerla lievemente.
– Donde venite? – chiese ella, con quella curiosità cortese che non implica un vero interesse.
– Da San Carlo – rispose lui, sedendosi sopra uno sgabello, accanto alla sedia di riposo, dove Anna si era seduta di nuovo.
– E che si dava?
– Gli Ugonotti: sempre quelli.
– Sempre così belli – ella mormorò pensosa.
– Vi rammentate? – egli chiese, con la sua tenera voce che carezzava sempre. – Si cantavano Gli Ugonotti, la sera in cui vi fui presentato.
– Sì, sì, mi rammento quella sera – ella disse, a un tratto immalinconita.
– Quanto vi dispiacqui, eh, quella sera? non vi è altro paragone, che nella piacevole impressione che mi faceste.
– Che dite! – disse lei, cortesemente.
– E quella vostra prima impressione continua, non è vero?
– Il che, poi, supposto che sia, non vi rende molto infelice – disse ella, mettendosi sulla stessa nota di quella conversazione frivola e pur seria.
– Che ne sapete, voi? Quando mai voi altre belle donne, ammirate e amate, sapete niente? – disse lui, con un certo impeto.
– Avete ragione: infatti, noi non sappiamo nulla.
Ma egli vide bene che la sua anima, ogni tanto partiva per un paese di sogno, assai lontano: egli sentiva la distanza che li divideva improvvisamente.
– Quando sarete ritornata dal vostro viaggio, mi avvertirete, per darvi il benvenuto – le disse con la sua soave voce carezzatrice.
– Quale viaggio? – disse ella, trasognata.
– Mah!... se sapessi dove se ne vola il vostro spirito, mentre io vi parlo, se potessi venir con voi, nelle vostre fantasie, come vi seguirei!... Invece, io vi parlo e voi non mi ascoltate... io vi dico delle cose gravi, in tono di scherzo, e voi non intendete nè la gravità, nè lo scherzo... e mi lasciate qui, tutto solo, mentre voi vagabondate, chi sa dove... e a me, umile mortale senza sogni e senza fantasie, non resta che aspettare il vostro ritorno, cara signora mia...
In verità, se le sue lente parole avevano una certa poesia, la gran poesia della dolcezza, della tenerezza, era nella sua voce. Egli parlava, seduto dirimpetto a lei, guardandola negli occhi, quasi che non si potesse distrarre da quella contemplazione. Ella, spesso, chinava gli occhi, o si voltava in là, o fissava, senza vederla, una pagina dell'Adolphe, che le era restato fra le mani. Pure, se quello sguardo di persistente ammirazione la metteva in un imbarazzo, che cercava dissimulare, la voce di Luigi Caracciolo, toccante, le calmava ogni ribellione dei suoi nervi eccitati, quasi assopendone la squisita sensibilità. Ella si sorprendeva ad ascoltarla, talvolta, senza bene capire il senso delle parole: e si scuoteva sorridendo vagamente, come a una musica che si dilegua.
– Non vi annoiate di aspettare?
– Io? No, mai qui. Capirete, quando si hanno questi spettacoli innanzi agli occhi...
– Quali spettacoli? – chiese ella, ingenuamente.
– La persona vostra, cara signora...
– Ma non mi vedete sempre – diss'ella, ridendo, tentando sempre di volgere allo scherzo la conversazione, che si faceva troppo tenera.
– Questo è il fatale errore... come si dice nei romanzi... Io dovrei passare la vita presso a voi, è vero? E invece la passo fra una quantità di persone che mi sono indifferenti. Che errore!... un grande errore...
– Non è colpa vostra – osservò ella, con un debole sorriso.
– Certo. Ma questo non mi consola. La facciamo, questa cosa di passare tutta la vita insieme? Gli errori si possono correggere. Tutta la vita: sono moltissimi anni...
– Ma io sono maritata... – diss'ella, sentendo che si era ingolfata in una pericolosa via di parole da cui non poteva ritirarsi più.
– Ma che! – egli disse con una vivace negazione.
– Caracciolo, credo che abbiate trovato il mezzo di non vedermi più – ella gli disse, lentamente. – Che volete da me?
– Niente, signora mia, niente – rispose egli subito, con una desolazione vera nella faccia e nella voce.
– Non bisogna arrischiare così le proprie amicizie – ella rispose, lentamente. – Che avrebbe detto Cesare, se vi avesse udito, da mezz'ora a questa parte?
– Oh nulla, poichè egli non avrebbe potuto udirmi, lo sapete. Egli non è mai qui.
– Qualche volta, vi è – diss'ella superando una improvvisa emozione.
– Mai, mai, non dite delle bugie pietose.
– Egli, però, vi è sempre.
– Nel vostro cuore, lo so. È un domicilio assai gradito, tanto più che se ne possono avere degli altri, identici, un po' dovunque...
– Che dite?
– Una delle solite volgarità inevitabili. Vi dico male di vostro marito.
– Tacete allora – diss'ella con una certa imperiosità.
Ma per temperare l'ordine dato con tanta recisione, ella gli stese la scatola delle sigarette.
– Grazie dell'elemosina – egli disse, quasi confortato.
E si mise a fumare, fissando una delle scarpette di raso lilla ricamato di argento, che usciva dai flutti dello strascico. Ella aveva appoggiato un gomito al tavolino che era presso la sua sedia di riposo e pensava. Era mezzanotte, ormai. Fra pochi minuti Caracciolo se ne sarebbe andato: e certo, non molto Cesare poteva tardare, al più un'oretta.
E quasi indovinasse il suo pensiero, Luigi Caracciolo disse:
– Dopo questa sigaretta, vi lascio. Temo di non avervi dato una grande idea del mio spirito.
– Io detesto gli uomini di spirito.
– Meno male. Credete che io abbia cuore?
– Lo credo.
– Tanto meglio, dunque. Un giorno o l'altro ripenserete a quello che vi ho detto questa sera e lo intenderete.
– Forse – ella disse, vagamente.
– Avete avuto una felice idea di vestirvi in lilla. È un assai tenero colore. Sono tinte che si vedono nei crepuscoli, a Venezia... Siete mai stata a Venezia?
– No, mai.
– Peccato! È un paese pieno di soavi lacrime: se ne fa provvisione per tutta la vita. Colà gli amori frivoli si fanno profondi e i forti amori diventano indissolubili. Buona notte, dunque.
– Buona notte – e gli stese la mano sottile che sorgeva come un fiore dai merletti bianchi e folti delle sue maniche di raso.
Egli appoggiò appena le labbra su quella mano sottile, fulgida di anelli, e se ne andò. Anna rimase pensosa. Giammai un minuto, durante la conversazione con Luigi Caracciolo, le era uscito di mente suo marito: e tutte le cose che il bellissimo giovane le aveva detto che non erano l'amore, ma che contenevano, intimamente, l'intenzionalità dell'amore, dopo averle carezzata l'anima con la musicalità toccante con cui erano state dette, l'avevano riportata al suo eterno pensiero, che era Cesare. Anzi, adesso ne rammentava tutte le frasi nitidamente, con la loro affettuosità celata nelle apparenze della leggerezza, con quell'indefinito seducente delle cose spirituali che mentre hanno in sè il calore, prendono le gelide e leggiadre forme della frivolezza; e ognuna di esse la riportava a Cesare Dias, poichè ella aveva nell'assolutismo della passione, la candida, sentimentale abitudine di far convergere tutte le cose e tutte le figure, a lui! Era la mezza dopo mezzanotte: si levò, suonando il campanello, e la sua cameriera comparve. Ambedue lasciarono il salotto e andarono nella stanza da letto di Anna, dove una delle grandi lampade coperte da un roseo paralume di seta leggera che Anna prediligeva, illuminava la stanza.
La cameriera l'aiutò a spogliarsi, credendo che andasse a letto: ma a un certo punto, Anna le chiese la sua vestaglia di crespo crema e si vestì di nuovo, come se volesse vegliare. Aveva disfatto il bruno elmo dei suoi capelli, riducendoli in una sola grossa treccia nera: ed era più attraente, con quell'incanto che dà alla donna il vestito che ella porta nel segreto della sua stanza, per un uomo solo.
La cameriera chiese se poteva andare a letto. Anna le rispose di sì. Cesare aveva stabilito, seguendo la consuetudine della sua vita da scapolo, che nessun servo lo attendesse, la notte. Aveva una chiavettina inglese, bizzarramente lavorata, attaccata all'anello dell'orologio e che apriva tutte le porte di casa sua. Così poteva rientrare, a qualunque ora della notte, senza essere visto e udito, soddisfatto di quella assoluta libertà, trionfando in queste quotidiane vittorie del suo delicato e ostinato egoismo. Anna era stata la prima a ubbidire e quando ella non usciva con lui, a mezzanotte, tutti, padroni e servi, erano ritirati nelle loro stanze, e tutti i lumi erano spenti. Pian piano la cameriera si ritirò, chiudendo la porta della camera di Anna e costei, che si era seduta nella poltrona, accanto al proprio letto, tenendo sempre in mano il volume dell'Adolphe, quasi si disponesse a una lunga lettura, udì che la donna andava chiudendo finestre e porte, fino a che il rumore si allontanò; poi tutto tacque. Allora Anna si levò, andò ad aprire la porta della sua stanza, passò nel corridoio, e nell'ombra, schiuse la porta anche della camera di suo marito: vi regnava un'oscurità completa. Poi ritornò in camera: avrebbe potuto udire, adesso, appena suo marito rientrava. Non poteva tardar molto, ed ella, socchiusi gli occhi, col capo appoggiato alla spalliera, con le mani abbandonate sui bracciuoli della poltrona, tendeva l'orecchio; Cesare le aveva promesso formalmente, sapeva che ella lo attendeva, era già il tocco, sarebbe mancato pochissimo al suo arrivo. E come in tutta la serata, ma con più concentrazione, con più forza, con una intensità che si accresceva dalla solitudine e dall'ora, ella si mise a desiderare la presenza dell'amor suo: non, dunque, tutto era deserto e tutto era senza dolore, quando egli non vi era? Quella sera, poi, dopo averlo visto così lieto e cortese, dopo quella graziosa promessa che nell'animo di Anna diventava una parola solenne, un tremolìo di emozione l'agitava; e tutta la soavità della notte di primavera, nel suo tiepido soffio la turbava nei suoi nervi, esaltandoli.
Ella, seduta nella sua poltrona, chiusi gli occhi, sognava solo l'arrivo di Cesare, e provava una necessità ardente di essergli accanto, di tenere la mano di lui fra le sue, di appoggiare la testa sul suo petto, nella più dolce e più profonda calma, udendo il suo respiro, udendo il battito del cuore, sentendo la forza del suo braccio sostenitore, sentendo le sue labbra sfiorarle i capelli, le palpebre, le labbra... un sogno di amore, vivido e languido, pieno di ardore delicato e di malinconica voluttà. Ella si sorprese, in sussulto, a dire sommessamente il suo nome, chiamandolo, invocandolo, come faceva in tutte le ore, ma in quest'ora con una passione umana, femminile, che la visione di quel bacio rendeva più acuta. – Cesare, Cesare – ella diceva, stringendo con le mani i bracciuoli della poltrona, tremando di amore al suono della propria voce. Ecco, fra un minuto, fra dieci minuti sarebbe giunto, il dolcissimo amor suo, la cui carezza le dava l'esaltazione di tutto il suo cuore, ed era l'inno di ogni sua facoltà, di ogni sua forza. Ella aspettava, fremente, tremante, con quella commozione che ogni cuore appassionato ha provato, almeno in un'ora della sua vita, commozione grande quanto l'amore stesso: e la imminenza stessa di quell'arrivo le confondeva le idee in un lento e caldo turbine.
A un tratto, le parve di udire qualche rumore nella stanza di suo marito; egli doveva essere tornato. E rapida come un'ombra fugace, attraversò il corridoio e guardò. Ancora l'ombra, ancora il silenzio; Anna si era ingannata. E un po' di sudor freddo le imperlò la fronte, a quella delusione: si sentì fiacca, con le gambe spezzate. Si appoggiò allo stipite della porta, che era di quercia scolpita: stette un lungo minuto colà, per riaversi. Poi, lentamente, a capo chino, se ne tornò in camera sua, pensando che a un nottambulo come Cesare, il presto non potea significare che le due dopo mezzanotte. Era questo: Cesare sarebbe ritornato alle due, bisognava aver pazienza ancora: e riprese Adolphe, volendo distrarsi nella lettura, supponendo di poter così annullare la propria impazienza. La sua stanza, nelle sue tinte chiare, nei suoi arazzi smorti, era assai chiara in quella luce rosea della lampada, quell'aspetto le ridiede la fede. Riaprì coraggiosamente il libro, verso il mezzo, quando già il truce e passionale combattimento fra Ellenore e Adolphe si svolge, in tutta la sua dolorosa manifestazione: e da quelle parole secche e precise, da quello stile duro ed efficace, da quella narrazione breve e austera, tale grido di strazio si levava, era tale lo spasimo di quell'anima d'uomo rôsa dallo scetticismo, arida, impotente, che Anna n'ebbe una impressione di sgomento. Ah che nella sincera e vivace fede giovanile, ella aveva orrore di quella malattia moderna, che è la corruzione dello spirito, che è la depravazione cosciente e dolente delle più nobili forme dell'anima! Che sapeva ella, povera donna ignorante e semplice, la cui sola fede, la cui sola legge, la cui sola speranza era la passione, delle infinite morbosità spirituali di chi ha troppo vissuto, di chi ha troppo amato, di chi ha abusato, infine, del purissimo tesoro che è il sentimento? Che poteva conoscere, ella, in quelle desolanti torture dell'anima che non crede nè alle altre, nè a se stessa, che ha perduto l'ultimo sorriso dell'ideale, e che in se stessa, ancora non è giunta a spegnere la nostalgia dell'ideale? Ella ignorava tutto. Eppure un terrore l'assalse. Forse, come quella di Adolphe, che non poteva più esser felice, giammai più, e che giammai più poteva dar la felicità ad alcuno era l'anima di Cesare. Ebbe un brivido di orrore, e gittò il libro. Il suo turbamento era immenso. Un orizzonte funebre le si era aperto dinanzi: ed ella ne torceva lo sguardo. Si levò automaticamente, e prese dal suo tavolino, presso il suo letto, un rosario di legno di santal, portatole da Gerusalemme, da un frate missionario.
Ella non era mai stata molto devota, poichè la sua fantasia era troppo fervida, e il misticismo la invadeva a intervalli, come una tempestosa raffica di amor divino. Meridionale, ella non aveva l'abitudine costante, placida e pacificatrice della preghiera; ma pregava quando una forte ansietà, quando una forte pena la tormentava, buttata in ginocchio innanzi al Signore, solo quando tutti gli scampi terreni erano spariti, dimenticando poi di pregare, nei giorni giocondi, assaporando, sorbendo la vita, come tutti i meridionali, senza più pensare all'Inconoscibile. Spaventata da una visione tetra, nella duplice commozione di quell'attesa e di quella lettura, sentendo che vi erano intorno a lei degli ignoti pericoli, cercando di pacificare l'anima nelle sante orazioni dell'infanzia, ella si appoggiò il rosario alle labbra, e si mise a dire lentamente, lentamente la lunga e poetica fila di preci che Domenico de Guzman dedicò alla Vergine. Ingenuamente, mentre si raccomandava alla Madonna, ella pensava che il tempo sarebbe passato, sino alle due, l'ora in cui, certamente, Cesare sarebbe arrivato. Ma tentava invano di concentrarsi nelle orazioni: l'anima sua si distraeva e andava incontro al suo Diletto, e le labbra mormoravano ancora le parole dell’Ave e del Pater, mentre ormai gliene sfuggiva il senso e l'espressione. Due o tre volte si fermò: un intervallo di tempo passò: ella riprese la preghiera, confusa, chiedendo perdono al Signore della sua poca attenzione, ma quel rosario fu finito alla meglio. Erano le due giuste. Adesso, Cesare sarebbe venuto.
Ma non resistette alla nervosità: prese la gran lampada della sua stanza, e quasi volesse abbreviare la distanza fra sè e Cesare, se ne andò nella camera di lui, posando il lume sopra la scrivania, sedendosi in uno di quei grandi seggioloni di cuoio, sospirando di sollievo. Le pareva di essere giunta in porto. Nell'austera stanza, la luce rosea, assorbita da quei legni scolpiti, da quel cuoio bruno, da quegli arazzi cupi, da quei velluti tetri, non si diffuse molto; ma ella si sentì più tranquilla, in quell'ambiente severo, dove tutto le diceva, che l'animo di suo marito era più profondo di quegli sterili e frivoli piaceri, in cui egli aveva già perduto la metà della notte. Nuotava nell'aria, sempre, quell'acuto odore di sigaretta, e qua e là, nella lama snudata di una sciabola, sul calcio di una rivoltella, sopra una coppa di metallo lavorato a cesello bisantino, una scintilla di luce brillava: ed Anna sentiva di nuovo la gran seduzione personale di Cesare invaderle l'anima, salirle al cervello, col turbamento della gioventù che ama bene, intensamente, che chiede l'amore a tutte le cose della vita. Sopra un tavolino era buttato un paio di guanti, portati nella stessa giornata, perchè parea quasi che conservassero la forma della mano, posati così, con la curva delle cose viventi. Ella prese quei guanti e li baciò con un impeto folle di passione, come se fossero le labbra di Cesare: poi, intenerita, li passò a metà, nell'apertura del vestito, fra il petto e il molle crespo della vestaglia. Ma dove era dunque Cesare? Il fastidio del suo ritardo si fece acuto ed ella si mise a passeggiare su e giù, nella vasta stanza, con la coda dell'abito che la seguiva, fluttuando come una bianca onda. Perchè non tornava? Era tardi, infine, assai tardi, e che ella sapesse, non vi erano balli, in quella notte, e non vi era nessun circolo di gentildonna che si prolungasse fino a quell'ora.
Dov'era, dunque, Cesare? Ogni tanto, cercando domare quell'impeto dei suoi nervi, si gettava nuovamente sul seggiolone, chiudendo gli occhi, volendo calmarsi per forza: ma immediatamente le pareva che Cesare fosse già giunto, che venisse a lei annoiato delle ore perdute, e tutto lieto di trovarla sola, che le prendesse le mani, che la baciasse teneramente, e il sogno d'amore, per lei che non dormiva, aveva tutta l'ardente evidenza della realtà. Ah Cesare, Cesare, Cesare, il caro amore, dove era, dove era? Si doveva levare, di nuovo, mossa da una forza ignota, passandosi le mani sulla fronte che bruciava, scuotendo un po' la grossa treccia dei capelli neri, che le si appesantiva sul capo. In una delle sue giravolte di anima in pena, dai cristalli di un balcone vide, lontano, delle finestre e dei balconi illuminati: erano quelli del club che frequentava Cesare. E subito, ebbe un senso di pace nell'anima. Cesare doveva essere colà a giocare, a chiacchierare, trattenuto dalla compagnia degli amici, dimentico dell'ora. Le consuetudini di tanti anni sono così difficili a vincersi! Ed ella non si mosse più da dietro i cristalli di quel balcone, fissando i balconi del club, dalle grandi tende rossastre, avendo in quella luce la stella polare del suo cuore: fissando con un'intensità profonda, quasi il suo sguardo dovesse varcare col suo fluido quel breve spazio, attraverso la notte o attraverso le cose, per giungere sino al cuore del suo caro amore, che la dimenticava. Due o tre volte le parve di vedere delle ombre che si agitassero dentro quell'ambiente, ma la distanza non le permise di distinguer bene. E presto lo spasimo dell'aspettazione essendo giunto ad uno stadio acutissimo, non potendo più levarsi da quel posto, ma rodendosi di una suprema impazienza, ella schiuse il balcone e uscì fuori. Così avrebbe visto venire più presto Cesare, che doveva solo attraversare, sopra un lato, la piazza della Vittoria. Profondo era il silenzio, intorno. Ella si era messa a un angolo del balcone, per veder meglio, sicura ormai che egli fosse colà e che fra breve lo avrebbe visto apparire. Difatti, poco tempo dopo, due uomini uscirono dal portone del club; ella distinse bene uno piccolo e uno grande, ambedue in cappello a cilindro. Chiacchierarono un minuto innanzi al portone, poi se ne andarono ambedue, passo passo, per la strada di Chiaia. Ella si scoraggiò, un minuto: ma riprese speranza, pensando che ormai la gente se ne andava dal circolo, e che anche Cesare sarebbe finalmente venuto via. Così, dopo altri dieci minuti, in cui ella restò colà, non sentendo il fresco abbastanza pungente della notte, ella vide uscire altri quattro gentiluomini, insieme: anch'essi chiacchierarono sulla soglia, poi si divisero, due se ne andarono per la Riviera di Chiaia, due sparvero subito, avendo infilato la via Vittoria. Adesso, adesso, certo. Cesare sarebbe venuto: ed ella acuiva il suo sguardo, quasi avesse voluto avere la forza della lince che vede attraverso le muraglie. Una persona sola, questa volta, apparve sotto il portone del circolo e senza esitare rasentò il giardino di piazza Vittoria: ad Anna crebbe, crebbe la speranza, ella si spenzolò sulla ringhiera e vide bene che quell'uomo guardava in alto...
– Buona notte, signora Anna – disse la voce toccante di Luigi Caracciolo.
– Buona notte – mormorò ella, smarrita, colpita bizzarramente, prestando orecchio all'eco del suo nome, vibrante ancora dolcemente, nella notte. Essa vide bene che Caracciolo si era fermato, appoggiato al cancello del giardinetto, guardando in su, e quasi quasi le parve scorgere la luminosità di quegli occhi azzurri, che carezzavano così dolcemente, guardando. Ma ella si gittò indietro, quasi volesse sottrarsi a quella carezza: e ancora una volta, più dolcemente, la invescatrice e tenera voce disse:
Anna non rispose. Caracciolo si decise ad andarsene, ma lentamente, voltandosi, fermandosi un minuto all'angolo di via Partenope. Ella riportò gli occhi sui balconi del club: non vi si vedeva più luce, le imposte erano sbarrate. Caracciolo era dunque stato l'ultimo frequentatore. Cesare non vi era. Ella provò un freddo orribile alla testa, al cuore; rabbrividiva: i suoi denti battevano. Rientrò nella stanza tremando, ebbe appena la forza di chiudere i cristalli: cadde sul seggiolone, esausta, morta. In quel momento suonavano, all'antico orologio sullo stile di Luigi XVI, le tre e mezzo.
Ma in quell'accasciamento che aveva seguito la tensione dei suoi nervi, in quell'esaurimento di ogni speranza, ormai un'idea vivace si fece strada, prima con la imprecisione delle fantasie scorate che non hanno più forza di sognare, poi con la nitidezza della inevitabile verità. Non vi erano nè balli, nè ricevimenti, nè clubs, nè caffè che trattenessero i più accaniti nottambuli, sino a quell'ora alta della notte. Dovunque si chiacchierava, la conversazione era finita: dovunque si mangiava e si beveva, eran finite le cene, e l'ultimo ritardatario era andato via: dovunque si giuocava, il giuoco era finito: la vita di notte, ardente e opprimente, che esaltava e che istupidiva, era cessata, dovunque, e i più ostinati nottambuli si erano rassegnati a ritornare alle loro case, attraversandone tacitamente le stanze, non volendo svegliare la placida gente di famiglia, che dormiva da quattr'ore. Dunque, Cesare Dias, suo marito, era presso una donna. E l'acuto morso della gelosia le fece sanguinare il cuore, nuovamente. Presso una donna, era certo. Questa verità le abbruciava l'anima, simile a sole meridiano di agosto. Non si sta, a quell'ora, che presso una donna. I mariti amorosi presso le loro mogli: gli amanti appassionati presso le loro amanti: gli esseri depravati, presso colei che eccita tutta la morbosità dei loro sensi: e infine tutti, anche i più brutali, presso una donna, presso una donna. La verità risuonava nel suo cuore, con un clangore di tromba. Macchinalmente, quasi fosse un sogno, si turò le orecchie, per non udire quel clamore: presso una donna, presso una donna. Ma qual donna? E che ne sapeva lei, del cuore di suo marito, dei sensi di suo marito? Che conosceva lei, moglie, compagna, dei suoi amori passati, dei suoi amori presenti? Non era lei forse un'estranea, tollerata, compatita da lui, e che non giungeva neanche ad occupare il posto di confidente, di amica?
Era colei che rappresentava un legame annoso, reso invincibile dalla consuetudine, dai doveri della riconoscenza, o qualcuna che rappresentava la vampa passeggera delle estreme ore di fuoco? Un legame antico, stracco ma pur forte, o il breve nodo del capriccio? Quale donna, quale donna? Invano ella tentava, in quel suo delirio dell'ora alta notturna, mettere un nome, dare una forma vivente muliebre alla sua gelosia; poichè ella vagabondava con l'accesa fantasia, coi nervi vibranti di una passione e di un dolore senza nome, in questa tenebra, per distinguervi qualche fioco lume lontano che le desse la parola di quel segreto: e col corpo proteso in avanti, coi due gomiti puntati sul piano della scrivania, con la fronte appoggiata alle dita intrecciate, ella aveva l'aspetto concentrato e disperato, di chi si trova innanzi al più terribile problema dell'esistenza. Quale donna, quale donna? Oh certamente, non una signora, non una dama, poteva trattenere nella propria casa un uomo, quando anche fosse il suo amante: nessuna signora, nel suo paese, nella sua casa, può disporre così della propria vita, può disonorarsi così innanzi ai suoi servi, col pericolo di esser sorpresa dal marito, dai parenti; non la contessa d'Alemagna, certo, poichè ella affettava ed aveva veramente, in pubblico, una grande libertà di contegno, ma la dicevano rigorosa e guardata a vista in casa: e nessun'altra: nessun'altra: una gentildonna, anche folle, anche perduta d'amore, non fa questo, non trattiene il suo amante sino a quell'ora! Doveva essere un'altra donna, di quell'altro mondo, dove la sola legge è il piacere, dove il solo dominatore è il capriccio, dove sono sciolti tutti i vincoli sociali, dove ogni rispetto sparisce, dove gli uomini possono mostrare il loro animo, senza le finzioni della morale, del dovere, della convenienza: solo una di queste seducenti e invincibili donne poteva trattenevo Cesare Dias, l'uomo fine ma corrotto, l'uomo che adorava la femminilità elegante, ma che in fondo disprezzava la donna: l'uomo che odiava tutte le esaltazioni della passione, del sentimento, della gelosia. E quando Anna ebbe quest'idea, immediatamente uno spiraglio di luce le apparve; il problema le sembrò risoluto. Si rigettò indietro, invasa da un ribrezzo profondo. A che cercare il nome e la fisonomia? Tutte queste donne si valgono, bionde e brune, giovani e mature, taciturne e chiassone, appartengano al teatro o recitino l'amore nel loro salotto. Che le poteva importare un nome? Il fatto era quello, innegabile. Suo marito non era rientrato: era presso una femmina qualunque. Questo era il fatto. Non doveva cercare altro. Avesse la parrucca bionda, gli occhi tinti d'azzurro, le labbra crudelmente tinte in rosso, o fosse una di quelle creature pallide e tranquille, senza cipria e senza gioielli, in cui il contrasto è più piccante, che cosa importava? Un fatto solo esisteva: quella notte passata fuori del tetto coniugale, accanto a un'altra donna.
E il ribrezzo le inondò l'anima. Ma che è dunque l'uomo, che uomo era dunque suo marito, di freddamente pervertito, di glacialmente corrotto, di perfidamente brutale, per abbandonare una moglie, una giovanetta, che vi adora con tutte le forze del suo cuore, con tutto l'abbandono della sua giovinezza, con tutto il candore della sua fede, per passare le notti accanto a un essere dalla falsa bellezza, dalla falsa gioventù, senza cuore e senza onore, senza amore e senza lealtà? Ma questo, dunque, è l'uomo, quest'uomo era dunque Cesare Dias, che per piacergli, per attrarlo e vincolarlo, bastava essere una creatura vile in cui la seduzione fosse un'arte e l'amore un mercato? E così, forse, erano tutti gli uomini; e per la prima volta, nella sua vita, ella apprendeva la profonda brutalità dell'istinto che predomina e del capriccio che deturpa; per la prima volta, ella sentiva che per esser felici, non per esser amate, per avere almeno le apparenze della felicità e dell'amore, non serve l'onestà, non serve la gioventù, non serve la purezza, non serve tutto il sacrificio di un'esistenza; per la prima volta ella intese, nell'uomo che ella adorava come un Dio, tutta la incommensurabile perversità del cuore umano, tutto l'abbassamento dello spirito, del carattere, in legami senza dignità e senz'amore, in dedizioni senza coscienza e senza rimorsi.
Ah che in quel momento, la suprema desolazione che può colpire un cuore amante, cioè il ribrezzo per la persona che ama, la fece scoppiare nei più amari singhiozzi che le avessero mai spezzato il petto: ella pianse su se stessa, sulle sue illusioni falciate dal temporale, ella pianse sopra Cesare, il cui ideale le si era per sempre intorbidato nell'anima. Non doveva essere la prima notte, certo, in cui egli non rientrava a casa: ed egli continuava così i costumi della sua vita dissoluta di scapolo! e mentre ella si addormentava nella stanza solitaria dove egli l'aveva freddamente relegata, mentre ella profferiva il suo nome, sommessamente, prima di dormire, per poter sognare di lui, dormendo, Cesare passava le sue notti accanto alla sconosciuta di ieri, o alla sconosciuta di oggi, passando di sconosciuta in sconosciuta, vilipendendo il purissimo amore di Anna. Quanto tempo ella pianse? Chi sa! Lentamente i singhiozzi si chetarono, le lagrime si vennero asciugando sulle calde guance, e un chiarore e un freddo la colpirono. Levò la testa. Era giorno. Una luce verdina, livida, entrava nella stanza. E nello stesso tempo, stridette la maniglia della porta. Cesare entrò, era pallidissimo: con gli occhi stanchi e smorti, un mozzicone di sigaretta spenta in un angolo delle labbra violette, il bavero del soprabito alzato e le mani in tasca. Fissò la moglie, con indifferenza, con freddezza: parve che non la riconoscesse. Ella si era levata, sbiancata, senza emozione, senza voce, come una creatura che non abbia più nulla nè da dire, nè da ascoltare.
– Che fai qui? – egli le chiese, con una voce infranta dalla stanchezza.
E intanto aveva gettato il suo mozzicone di sigaretta in una ceneriera: si era tolto il cappello. Quanto pareva vecchio e consumato, coi capelli disordinati sulla fronte e le guance scavate dall'insonnia!
– Ti... aspettavo – ella disse, a occhi bassi, senza staccarsi dalla scrivania cui stava appoggiata.
– Tutta la notte?
– Tutta la notte.
– Ci vuole una bella pazienza – osservò lui, togliendosi il soprabito e buttandolo sopra un divano.
Era in marsina. Ma la cravatta bianca, in lui che era così corretto, era risalita verso la spalla, e tutto il vestito aveva le spiegazzature delle notti di veglia. Egli la guardò con un'aria interrogativa, quasi volesse domandarle che cosa faceva ancora lì. Ella non rispose, non battè palpebra. Allora Cesare fece una stretta di spalle, da uomo seccatissimo, e andò a chiudere le imposte dei due balconi. Si fece notte di nuovo: ma la gran lampada rosea languiva. Egli accese una candela, la portò sul tavolino presso il suo letto e spense la lampada.
– Buon giorno, Anna – egli disse, voltandosi a lei.
– Buon giorno, Cesare – ella rispose, staccandosi dalla scrivania.
E sbiancata, muta, ella se ne andò.