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III.
Alla metà di giugno, cioè nella prima estate del suo matrimonio, Cesare Dias accompagnò sua moglie Anna e sua cognata Laura a villa Caterina, a Sorrento. Le accompagnò soltanto, poichè egli aveva bisogno di una ventina di bagni di Vichy, e quando questa cura fosse finita, tornando in Italia si sarebbe trattenuto un pochino in Isvizzera, nell'Engadina, in quel Saint-Moritz, dove vanno tutti quelli che vogliono aver freddo nell'estate, e che sono i medesimi che vogliono aver caldo nell'inverno, e vanno a svernare a Nizza. Il segreto, vivissimo desiderio di Anna, sarebbe stato di accompagnare suo marito in questo viaggio, anelando di restar sola con lui, lontana dal solito ambiente, lontana dalle solite persone, ma non le riuscì.
Da quella notte in cui ella lo aveva atteso invano sino all'alba, crudelmente tormentata e infine disillusa, con un esaurimento di fede che le aveva prostrate tutte le forze morali, fra marito e moglie era sorta una freddezza. Sì, Cesare non aveva tardato a riprendere il predominio sopra Anna, non dandole delle spiegazioni chiare, ma dicendo vagamente, distrattamente, che un uomo può passare una notte fuori di casa ed essere stato trattenuto dagli amici, da una partita di carte, da una qualunque sciocca ragione. Anna aveva teso l'orecchio, afferrando avidamente la spiegazione, non rispondendo, poichè aveva una paura orribile di impegnare una discussione con suo marito: e si era accontentata di quelle dichiarazioni poco precise, buttate lì con un certo disprezzo, accettando ad occhi chiusi tutto quello che egli dicea: non soddisfatta certo.
Erano indimenticabili, per lei, le ore di quella notte, in cui ella aveva bevuto un calice amarissimo e aveva visto il fondo della malvagità umana, la prima volta: e tutta la gran dolcezza del suo devoto amore ne era stata attossicata. In quanto a Cesare, egli ne era stato annoiatissimo di quella notte di aspettazione, che gli parea fosse una delle forme stravaganti della opprimente passione di Anna: annoiatissimo di essere stato sorpreso in quell'alba, in quel ritorno, dove egli appariva brutto e vecchio: annoiatissimo, di aver dovuto dare delle spiegazioni: annoiatissimo, infine, dal pensiero che tali scene desolanti si potessero rinnovare. Oh quanto egli detestava le donne tragiche e le loro tragedie! Dopo averle odiate per una vita intera, queste donne, con le loro lacrime e i loro svenimenti, gli era dovuto capitare giusto di sposarne una, per sua disgrazia: e il rancore della sua inconcepibile debolezza, ancora una volta si era rivolto contro Anna. Ella, triste nell'essenza dell'anima, umile ma scorata, aveva inteso bene tutte le impressioni di Cesare, e cercava di farsi perdonare, a furia di devozione, di tenerezza, di squisita gentilezza femminile, il peccato di averlo atteso, quella notte. Cesare, con la indulgenza un po' affettata delle persone superiori, aveva avuto l'aria di perdonare, un giorno in cui Anna si era mostrata più dolente e più teneramente rassegnata nel dolore, in cui ella aveva fatto miracoli di cortesia; ed ella aveva preso questo perdono, come lo schiavo prende il sorriso dopo la frustata, ridendo con le lacrime agli occhi, felice ancora che Cesare non l'avesse punita, della colpa che aveva commesso lui.
Ma in verità, egli era un uomo e non un angelo: aveva perdonato, ma volle anche punire. A nessun patto volle condurre Anna con sè, a Vichy e a Saint-Moritz. Le fece intendere che il loro viaggio di nozze era ormai compito, che essa non poteva lasciar sola, per due mesi, sua sorella Laura con la damigella di compagnia, a Sorrento; che, in famiglia, egli non avrebbe mai voluto viaggiare, come Giuseppe Prudhomme; e infine, in tanti modi le fece capire che voleva andar solo, che ella preferì restare a Sorrento, anzi che ostinarsi a partire con lui, contro la sua volontà. Si lusingava, poveretta, che questo atto di obbedienza, così grave al suo cuore, l'avrebbe messa in grazia del suo signore. Difatti egli partì assai lieto, quasi ringiovanito: l'idea della libertà assoluta, di quella libertà che egli si era giuocata così scioccamente, lo entusiasmava. Egli raccomandò alle sue donne – così, per ischerzo arrischiato, le chiamava – di non fare le monachelle, di uscir di casa, di ricevere, di divertirsi come volevano. Anna aveva udito queste raccomandazioni, senza rispondere, a occhi bassi, pallida; Laura le aveva udite con un bizzarro sorriso sulle labbra, guardando negli occhi suo cognato, pallida e muta.
Dopo che egli fu partito, un gran silenzio triste invase villa Caterina. Le due sorelle erano sempre pensose, e nessuna confidenza si stabiliva fra loro: anzi, talora parea che si sfuggissero. Del resto, quella giovanile, irresistibile serenità della bionda Minerva si era dileguata, e il bianco viso si era chiuso in una cogitazione di ignote cose. Erano nella stessa villa, ma per un certo periodo di tempo si videro poco.
Anna scriveva a Cesare due volte al giorno, delle assai lunghe lettere, dove gli narrava tutto quello che le avveniva, dove raccontava tutti i suoi pensieri, tutti i suoi sogni, con la effusione che dà la forma epistolare alle anime passionali a cui spesso, per timidità, manca la parola parlata, nel colloquio d'amore. Scrivendo, glielo poteva dire a Cesare, quanto lo amava, che la sua anima e la sua persona gli appartenevano, in un abbandono non imposto dalla legge, ma per propria elezione. Veramente, Cesare le scriveva un paio di volte per settimana e non a lungo: ma nelle sue lettere vi era sempre, se non una frase d'amore, una frase gentile, sulla quale Anna viveva tre o quattro giorni, sino alla prossima lettera: egli si divertiva, stava già meglio, sarebbe quindi ritornato presto – questo egli scriveva – ed arrivava sino ad aggiungere, talvolta, che desiderava la presenza di Anna per farle ammirare un paesaggio, per ridere con lei di qualche viaggiatore originale. Anna, ogni volta che arrivava una lettera di Cesare, dava i suoi saluti a Laura e le leggeva la parola cortese, che vi si trovava sempre per sua sorella.
– Grazie – diceva Laura, senz'altro.
Però, anche Laura scriveva molto, da qualche tempo. Che scriveva? A chi scriveva? Era nella sua stanzetta sulla sua scrivania da fanciulla, in certi grandi fogli di carta bianca che ella scriveva, col suo carattere chiaro e fermo: e quando qualcuno entrava ella cessava di scrivere, e senza far vista di nulla, metteva sullo scritto il foglio di carta asciugante; e restava a occhi bassi, silenziosa, giuocherellando con la penna. Più di una volta, era entrata Anna. Allora, quietamente. Laura aveva raccolto le sue carte e le aveva chiuse, a chiave, nel cassetto, con un colpo secco; e con uno sforzo, il turbamento della sua fisonomia si era dileguato.
– Che scrivi? – le domandò un giorno Anna, vincendo la timidità per un misterioso impulso.
– Nulla che t'interessi – aveva risposto l'altra.
– Come puoi dire questo? – le aveva replicato, con tenerezza indulgente, la maggior sorella. – Tutto che ti piace e ti commuove, m'interessa.
– Nulla mi piace e nulla mi commuove – Laura aveva soggiunto a occhi bassi.
– Neanche quello che scrivi?
– Neanche quello che scrivo.
– Come sei chiusa! Come nascondi i segreti del tuo cuore! Ma perchè li nascondi? – aveva insistito affettuosamente Anna.
– Così – aveva concluso Laura, levandosi, uscendo dalla stanza, portando seco la chiave del cassetto.
Mai più Anna aveva parlato di ciò che Laura scriveva, lettera o giornale. Nel luglio erano arrivati a Sorrento tutti i bagnanti, tutti i villeggianti, e malgrado la riservatezza malinconica di Anna e il costante pensiero che velava gli ormai intorbiditi occhi di Laura, non riusciva loro di sottrarsi alla vita mondana sorrentina. Le due sorelle erano troppo graziose ed eleganti, perchè la società aristocratica del Victoria e del Tramontano non le desiderasse e con mille lusinghe non le trascinasse, nel giro dei suoi divertimenti estivi.
Uno dei primi a comparire era stato Luigi Caracciolo che andava, veramente, ogni anno a Sorrento, ma solo nella seconda metà di agosto e trattenendovisi solo quindici giorni, disprezzando un poco Sorrento, egli che aveva viaggiato tutta l'Europa. Ma quell'anno, nella prima settimana di luglio, egli si era trovato colà, senza che nessuno si potesse meravigliare della sua presenza: e si era installato, per restarvi, sino a che fosse restata a Sorrento Anna Dias. Egli ne era fortemente innamorato. A suo modo, è naturale: vale a dire con quella raffinata sensualità che rassomiglia assai al sentimento nella sua apparenza, con quella tenerezza amorosa che è la forma esterna del desiderio cocente, con quella carezza della voce, degli occhi, dei saluti, di ogni parola che è la prerogativa dei grandi seduttori, che sono alla lor volta i grandi sedotti delle donne. Anche quella specie di mistero che avvolgeva il cuore di Anna, nel passato, e quel suo amore per Cesare Dias, amore che Luigi Caracciolo intendeva essere inappagato, gliela rendevano più cara. Egli era innamorato, è vero, ma come tutti coloro che molto hanno amato, e che molto debbono amare, così, perchè questo è il loro destino: Luigi Caracciolo perdeva un po' la testa accanto ad Anna, ma non la perdeva tanto, da non rimanere padrone del suo metodo per farsi amare da una donna. La stessa sua forte inclinazione amorosa, inconsciamente, come tutte le forti volontà che tendono a uno scopo piccolo o grande, era efficace di per sè; e quella levigatura di sentimentalità, che copriva l'amor suo, serviva mirabilmente a farsi tollerare da Anna.
Ella non gli permetteva, specialmente a Sorrento, dove era sola e dove era molto triste, di parlarle mai di amore: ma non poteva evitarne qualche visita, a casa, a villa Caterina, nè poteva evitare d'incontrarlo dovunque dentro Sorrento, ai bagni, alle scampagnate, ai balletti della sera. E Cesare, da Saint-Moritz raccomandava che lei e Laura si divertissero, si divertissero molto, che andassero dovunque, perchè egli detestava le reclusioni. Ogni tanto aggiungeva scherzosamente qualche parola per Luigi Caracciolo, chiamandolo il cavalier servente di Anna, ed ella per un senso di delicatezza, aveva taciuto queste frivole espressioni a Caracciolo. Costui non affettava troppo la corte, l'intimità: ma non si allontanava mai dal posto dove era Anna, ma le gironzava una sera intorno, per trovare, poi, il minuto per sederlesi accanto: usciva con lei, e col pretesto di fare due passi, al chiarore della luna, accompagnava le due donne, sino al cancello di villa Caterina. Era insistente, con una insistenza lenta, continua, instancabile, che non si faceva vincere dai silenzi, dalle malinconie di Anna, dalle sue profonde distrazioni, da quella lontananza d'anima che si faceva ogni minuto fra lui e Anna. Ella gli parlava così spesso di Cesare, con tale una emozione nella voce, che egli ne impallidiva, ferito nel suo amor proprio, deluso nel suo desiderio, eppure non disperato, poichè è sempre bene che una donna ami, anche se ne ama un altro. Allora, la sola, immensa difficoltà, ma la sola, è quella di cambiare la figura dell'uomo amato, per un giuoco di prestigio sentimentale o nervoso.
Tutto questo egli faceva cautamente, per varie ragioni; anzi tutto, perchè questo raffinato in amore, non era di quelli che godono di affiggere sulle muraglie il loro desiderio e il fiasco del loro desiderio; poi, perchè temeva che Anna, allarmata da una corte troppo stringente, non lo mettesse alla porta; ed anche perchè temeva molto la sorveglianza taciturna di Laura. La bionda e bellissima Minerva e il bel giovane non si erano mai potuti intendere e spesso si erano scambiati delle frasi pungenti, assai strana manifestazione in Laura, che parlava poco e diceva delle brevi frasi incolori. Ella aveva per lui un palese disprezzo, solo nel modo come lo squadrava, quando appariva con un nuovo vestito, solo nel modo con cui gli diceva, talvolta, cominciando, concludendo un discorso: voi che siete un bellissimo giovane. Ciò era alquanto arrischiato, per una ragazza, ma Laura aveva passato i venti anni, ma le due Acquaviva passavano per essere due creature buone, ma originali: originali ma buone come la loro madre Caterina Acquaviva, che era morta così presto, come il loro padre, Francesco Acquaviva, che era morto prima del suo tempo. Anche Luigi Caracciolo lo pensava, spesso, che quelle due donne erano stravaganti, ognuna nella propria espressione, ma la stravaganza di Anna gli sembrava adorabile e quella di Laura lo insospettiva. Aveva paura sempre, che un giorno o l'altro, Laura denunziasse a Cesare l'amor suo per Anna. Le vedeva un così sarcastico sorriso, talvolta, sulle labbra! La udiva, talvolta, ridere nell'ombra di un viale, fuori una terrazza, e in quel riso cristallino passava lo scherno di un sogghigno: egli fantasticava le più bizzarre cose, sul conto di Laura, e ne aveva una gran paura.
– Quanto è strana, questa vostra sorella... – diceva talora ad Anna, quando si trovavano soli.
– È buona però – osservava ella, pensosamente.
– Sì.
– Voi non sapete niente, voi siete una ingenuona. Essa è, probabilmente, un mostro di perfidia – diceva lui con dolcezza.
– Perchè mi dite questo, Caracciolo? Non sapete che anche lo scherzo mi dispiace?
– Se vi dispiace, non parlo più. Ma conservo la mia opinione: un giorno, mi direte che ho ragione.
– Zitto, Caracciolo, voi mi rattristate.
– Quanto è meglio non farsi delle illusioni, per non perderle, signora!
– Quanto è meglio perdere delle illusioni, anzichè non averle avute mai!
– Che cuore profondo, avete! Come mi ci annegherei volentieri! Lasciatemi naufragare nel vostro cuore, Anna...!
– Non mi chiamate così, per nome – diceva ella cortesemente, mostrando di aver udito solo l'ultima parola.
– Obbedisco – egli diceva, con umiltà.
– Voi anche siete buono – ella mormorava distratta.
– Io sono pessimo, signora – egli soggiungeva, indispettito.
Ella crollava il capo, bonariamente, con un indulgente sorriso di persona fiduciosa che, a malgrado le delusioni avute, non può credere alla malvagità della natura umana: e più Luigi Caracciolo, in certi giorni, si ostinava nella sua figura di uomo perverso, sprezzatore convinto di ogni nobile forma dello spirito, più ella si mostrava mite, semplice, mostrando la sua fede nell'ideale principio, che regge tutte le anime candide e buone. Egli si stringeva nelle spalle, e talvolta, arrabbiato, le domandava:
– Tutti sono buoni, secondo voi? Anche vostro marito Cesare è buono?
– Anche: più di tutti, anzi. È buonissimo – proclamava ella, con la voce velata di emozione, il che le avveniva sempre, quando parlava di Dias.
– Quello che vi lascia qui, sola, dopo pochi mesi di matrimonio?
– Ma io non sono sola – soggiungeva lei, semplicemente.
– Non siete sola, ma siete male accompagnata – diceva lui sempre più nervoso.
– Non si potrebbe dirmi con più grazia, che io sono uno sciocco. Ma lui, lui, che è lontano, che, certamente, ve ne fa di tutti i colori, potete dire che è buono?
– Cesare non me ne fa di tutti i colori – mormorava lei, diventando un po' pallida.
– Chi ve lo dice? Lui? E gli credete?
– Non mi dice niente. Io ho fede in lui – seguitava a dire, la poveretta, fattasi terrea in volto, a vedere espressi così i suoi quotidiani timori.
Caracciolo la fissava, nervosissimo. Solo a udire nominare suo marito, si capiva che Anna Dias lo adorava: e Luigi Caracciolo era troppo esperto di anime muliebri, per non apprezzare quei pallori, quell'emozione, quel turbamento. Egli non lo sapeva, ma immaginava benissimo che Anna scriveva a suo marito ogni giorno e che Cesare Dias le rispondeva di rado, con brevità; egli sapeva bene che le lunghe ore di solitudine, in quella verdezza e in quell'azzurro di campagna sorrentina, erano pesanti e tristi per Anna, la quale non invocava che la presenza del suo marito; egli capiva perfettamente che ella si torturava di gelosia, in segreto, e che significava farla soffrire crudelmente, provocare i suoi sospetti con una parola, con una insinuazione: ella era così ingenua, così intera nell'amor suo, che egli leggeva in quel cuore come in un libro aperto. Ma appunto per questo, ma per questa passionalità profonda che emanava da ogni parola di Anna, ma per questa vibrazione dello spirito e dei nervi che rendeva quella figura muliebre così interessante, egli se ne innamorava sempre più e non disperava di riescire, un giorno, a vincere quell'ostacolo insormontabile. È il vecchio metodo dei seduttori, quello di demolire il marito assente, il vecchio metodo antico quanto il mondo, ma sempre di effetto sicuro, quando la donna ha il candore e la profondità vera del cuore; Luigi Caracciolo lo adoperava con quella grazia e con quella astuzia delle persone che sono innamorate, ma che non hanno perduto la testa.
Certo, ogni volta che egli, delicatamente, accennava a qualche amore passato di Cesare, a qualche relazione che durasse ancora, poichè era impossibile che il matrimonio la spezzasse, ogni volta che egli accennava a questo abbandono della giovane sposa, fatto con una disinvoltura così crudele da un marito che era vecchio al confronto, egli vedeva che Anna si tramutava in viso, per l'angoscia che le rinasceva in cuore: ed egli stesso, che ne era innamorato, si tormentava di vederla fremere, di vederla tremare, per amore di un altro; e il suo vecchio metodo era un'arma a due tagli, feriva profondamente lei, ma faceva sanguinare anche lui. Che importava! Egli continuava, torturando Anna e se stesso, sapendo, supponendo che alla fine di una di quelle scaramucce di conversazione, donde usciva, tramortita in faccia, con gli occhi vaganti nel vuoto, l'immagine di Cesare Dias era scrollata, un poco, dall'altare dove Anna le consacrava la sua adorazione. Adesso, egli andava anche più in là, raffinando l'antico metodo della demolizione del marito; vale a dire, pronunciando una qualche frase così, che offrisse ad Anna il destro di poter parlare lei di Cesare. E la semplice donna, a cui la gran corruzione umana era apparsa in una sola notte, come visione di orrore e che la scacciava naturalmente da sè nella rettitudine della sua coscienza, si lasciava prendere a questo tranello, così comune, che ogni uomo tende sempre, a una donna innamorata di un altro: farla parlare di quell'altro, parlare spesso, perchè egli potesse delicatamente, finemente combattere quell'assente, con un'occhiata, con un gesto, con un motto solo. Anna ci capitava, sempre: poichè l'amore le sgorgava dall'anima, poichè aveva bisogno di parlare con qualcuno di Cesare, poichè nella bontà grande del suo cuore, dimenticando, volendo dimenticare che Luigi Caracciolo l'aveva amata e che l'amava ancora, nell'acciecamento della sua passione per Cesare, ella fantasticava che Caracciolo potesse diventare un eccellente amico, un confidente sicuro. Oh, il metodo per Caracciolo era doloroso, poichè egli vedeva bene di quale fiamma ardeva Anna: ma non si ottengono le grandi cose, senza molta pazienza, e senza molto dolore. Quando Anna, involontariamente, ricominciava a parlare di Cesare, egli aveva un sogghigno amaro.
– Noi siamo in tre – egli mormorava. – Buon giorno, Cesare – continuava a dire, rivolgendosi a una figura immaginaria.
Ad Anna si velarono gli occhi di lacrime per quel saluto.
– Scusate, scusate – continuava lui, amaramente – ma vi avverto, che di questo passo, saranno tante le torture che m'infliggerete, che io mi guadagnerò la mia parte di paradiso. Andiamo, via, sono già legato al cavalletto, stringetemi pure il cuore in una morsa di ferro... carnefice gentile...
E lei, prima timidamente, poi con l'abbandono dei caratteri aperti e generosi, parlava di Cesare. Dove era, che faceva, quando sarebbe tornato? Ella se lo domandava: e dopo averla udita vaneggiare, senza dirle nulla, egli la interrompeva, con una piccola risposta gelida, dicendole che forse, a quell'ora, Cesare era sul Righi con la contessa di Béhague, una sua antica passione francese, con cui si ritrovava, ogni anno, in Isvizzera: oppure che Cesare non sarebbe tornato subito, poichè spesso aveva trascurato la società di Sorrento, per tutta la stagione, ricomparendo a Napoli, solo alla fine di ottobre.
– Non credo, non credo – diceva lei, con gli occhi smarriti.
– Non lo credete? Perchè quest'anno dovrebbe fare diversamente?
– Ah cara Anna, cara Anna, vi tiene così poco!
– Non mi chiamate a nome – diceva sempre lei facendo un cenno con la mano, per farlo tacere.
– Se lo sapesse Cesare, gli dispiacerebbe, eh?
– Lo immagino – ella rispondeva, abbassando gli occhi.
– Lo sperate, cara signora, il che è una cosa diversa. Ma egli non è geloso.
– Non è neppure geloso – ripeteva lei, pianissimo, perduta nelle sue dolorose contemplazioni – ma che uomo è, dunque?
– È un uomo che ha fatto il piacer suo, sempre.
– Triste, triste! – soggiungeva lei, sottovoce.
Ma pure intendendo quanta maggior delusione le sarebbe venuta da una maggior conoscenza della vita anteriore di suo marito, ella era giunta, per la gran sete che aveva di una più profonda ma crudele sapienza, a interrogare Luigi Caracciolo, sulle avventure di Cesare Dias. Ah, come si vergognava di domandare! Se ne vergognava, poichè le pareva di violare un sacro segreto, non suo, deturpando l'idolo che si ergeva, sempre solitario, nell'altare del suo cuore; se ne vergognava, poichè la più santa condizione dell'amore è il segreto, ed ella parlava troppo di questo suo amore, con un altro uomo che l'amava. Pure, non le era possibile di resistere più, ormai: e cautamente, con qualche domanda suggestiva, ella cercava di sapere da Caracciolo qualche fatto, qualche episodio, un particolare, un nome, una data: ne chiedeva fingendo di non avervi, poi, molto interesse, facendo la donna di spirito senza riescirvi, poveretta, poichè ella era una donna di cuore. Caracciolo capiva subito e si faceva un poco pregare, per la forma, ma come vinto, come se trionfasse della propria riluttanza solo la volontà di Anna, le diceva qualche cosa, un fatto, una data, un episodio, un nome, condendo il racconto con qualche sua osservazione, commentando con una parola la condotta di Cesare senza dirne male, è vero, senza nessuna volgarità, ma sottolineandone la continua manifestazione di durezza di cuore, ma facendone rilevare l'aridità, ma dicendole sempre che Cesare Dias non aveva mai avuto una passione, un forte amore. Che dolorosa sapienza, le veniva ad Anna, da quei racconti smozzicati, detti sbadatamente, senza darvi troppo peso, in fondo, ma da cui ella desumeva, ahimè, ahimè, che il cuore di Cesare era stato sempre troppo freddo e arido! E come in quei particolari gelidi, di abbandoni, di partenze, di capricci cominciati senza impeto e finiti senza catastrofi, ella vedeva che tutto era inutile, che quell'uomo era restato sempre il medesimo, che nulla varrebbe a mutarlo, mai! Tante volte, nauseata, stanca, con un gesto della mano, ella pregava Luigi Caracciolo di interrompere quel discorso: e restava muta, pensosa, con la ferita sanguinante dell'anima, su cui ella stessa aveva voluto versare un acido corrosivo. Talvolta a questa conversazione era presente Laura, la bellissima fanciulla bianco vestita, dagli occhi belli e velati: ed ella ascoltava Luigi Caracciolo, con un'attenzione immensa, col suo misterioso sorriso sulle labbra verginali. Di quando in quando, Luigi Caracciolo, poichè vi era una fanciulla presente, si fermava; ma Laura aveva allora, negli occhi che non conoscevano il male, un cattivo sguardo d'interrogazione, ardente sguardo che meravigliava Caracciolo, come una bizzarra e ignota manifestazione. Ma anche questo ricordare della vita di Cesare Dias, questa morbosa ricerca di fatti che in fondo portavano sempre una nota dolorosa, avevano, sì, avvelenata la villeggiatura di Anna Dias, ma non avevano fatto avanzare di un passo l'opera di seduzione di Luigi Caracciolo.
Egli era un innamorato pieno di pazienza, pieno di fiducia nel proprio metodo; egli sapeva che una forte passione o un forte desiderio, finiscono per vincere, un giorno, gli ostacoli più insormontabili: ma aveva dei minuti di grande scoraggiamento. Come lo amava Cesare Dias, quella donna! Questi amori dove la differenza dell'età è grande, dove la differenza dei caratteri è immensa, diventano dolentissimi per il contrasto: e quella bella giovane, fresca, appassionata, non chiedente altro che di essere amata, sopportava l'abbandono di quell'uomo che aveva passato i quarant'anni, che era sciupato dall'età e dalla vita che aveva fatta, e il cui cuore non aveva un palpito più rapido di un altro, per la sua giovane moglie. Talvolta, Luigi Caracciolo arrivava alla conclusione che le donne sono degli esseri stravaganti, incoerenti, capaci di tutto, e che era meglio non curarsi di loro. Ma, infine, era innamorato. Si era messo al giuoco, volendo sposare Anna: e l'aver perduta la prima partita, lo aveva fatto accanire alla seconda. Infine, infine, alla sua maniera, era innamorato.
Un giorno, senz'avvertire, improvvisamente Cesare giunse. E al pallore della moglie che fu lì lì per isvenire, a quel tremore che ella non potè domare, neanche un'ora dopo il suo arrivo, Cesare intese quanto fosse stato amato nella sua assenza. In verità, egli fu assai buono con lei, molto galante, molto tenero: l'abbracciò e la baciò varie volte con effusione, le disse che le aveva portati dei doni dalla Francia e dalla Svizzera: era di buonissimo umore, ed ella non faceva che ridere, nervosamente, con gli occhi pieni di lagrime, sentendo bene, ancora una volta, che il solo, l'unico segreto della sua vita era Cesare, standogli seduta accanto, prendendogli la mano, ogni tanto, chinata verso di lui, umile, innamorata, come una povera sciocca sublime. Erano restati in un salotto, accanto alla camera nuziale, a chiacchierare, e due o tre volte Cesare aveva domandato:
– E Laura?
– Non ha trovato ancora marito?
– Non ne vuole.
– Tutte le ragazze dicono così.
– Laura è ostinata: non vuole proprio. La gente ha anche detto che si voleva fare monaca.
– Sciocchezze!
– Lo strano è che, una volta, quando gliel'ho chiesto, mi ha risposto di no.
– È una curiosa fanciulla – osservò Cesare, fattosi un poco pensieroso.
– Io non la capisco.
– Eh via, tu capirai poco, in generale – disse il marito, facendo una lieve carezza ai capelli della moglie, per temperare l'impertinenza.
– Oh veramente, pochissimo – ella rispose, con un sorriso di persona estatica. – Io sono una scema.
Ma Laura non veniva, sebbene fosse stata chiamata; Anna rimandò la sua cameriera. La signorina veniva subito: si vestiva. Difatti, si fece aspettare qualche altro minuto: e quando comparve sotto l'arco della porta, vestita di quella nobilissima, leggerissima batista bianca, che pare orientale tessuto di seta, coi biondi capelli rialzati in un grosso nodo sul capo, coi biondi riccioli che le aureolavano d'oro fino la fronte e le tempia, coi chiari e limpidi occhi diventati un'altra volta sereni. Anna le gridò:
Cesare si alzò e si avanzò verso la cognata: essa gli diede la mano, che egli baciò: ma vide anche che Laura gli aveva offerto il volto, ed egli allora l'abbracciò, baciandola sulla guancia tenue come il petalo di una camelia. Ciò era accaduto in un minuta solo: ma ad Anna sembrò che quel minuto durasse troppo lungamente, ed ebbe un istintivo moto di repulsione, quando Laura, un po' rosea in viso, bellissima, fulgida di gioventù e di freschezza, venne ad abbracciare anche lei. Istintivo era il movimento di Laura, facendosi baciare dalla sorella: istintivo fu il movimento di repulsione di Anna, ma subito represso. Non era stato neanche un cattivo pensiero; era stato uno di quei brividi lunghi che assalgono le pure coscienze, le quali attingono dalla massima purità della loro anima, la chiaroveggenza delle cose spirituali. Era piuttosto un senso di fastidio, una pena sottile, niente altro. E ogni tanto ella guardava la guancia di sua sorella, dove, lei presente, le labbra di suo marito si erano posate.
Ma quel giorno, nella quiete della villa Caterina fatta per la pace, per la meditazione, per l'amore, cominciò una vita un po' febbrile, un po' esteriore, dove Cesare, Anna e Laura erano travolti in un turbine grazioso di visite, di scampagnate, di balletti estivi, di gite sui yachts che erano ancorati a Sorrento. La stagione era allegrissima, quell'anno, a Sorrento, poichè vi erano capitati molti forestieri, fra cui due o tre americane indiavolate, che nuotavano, remavano, giuocavano al crocket, al lawn tennis, erano seducentissime e avevano una forte dote: così che, quell'anno, a Sorrento, corse il motto, fra gli uomini, di fare la corte alle ragazze, il che, nella società mondana, è un costume assai raro. Cesare, ogni tanto, diceva ad Anna che quella era una buona stagione per lanciare Laura, anch'essa molto seducente, con una bella dote, ma la cui posatezza non reggeva al paragone della vivacità, della diavoleria delle americane: e di sera o di mattina, senza stancarsi, con un brio veramente da giovanotto, accompagnava sua moglie e sua cognata, dovunque. Tutti facevano la corte alle ragazze, quell'anno, decisi, quei celibi ostinati, a fare una bella fine: ma Luigi Caracciolo, apprezzando il matrimonio solo per il prossimo suo, continuava a farla ad Anna. Con quella sfioritura di cinismo che prende le apparenze della raffinatezza di spirito, Cesare aveva subito chiesto, in casa, se Luigi aveva fatto il dover suo di cavalier servente, e Anna aveva voluto troncare, con la sua riservatezza, questo discorso che la feriva: ma Laura, intonandosi meravigliosamente al sarcasmo gentile di Cesare, aveva subito narrato che Luigi aveva fatto miracoli di fedeltà, che si era visto difficilmente, nei tempi moderni, un esempio di tanta costanza.
– E la dama, che dice? – aveva domandato Cesare, arricciandosi i neri mustacchi, ancora belli, ancora dalla curva elegantissima.
– Spietata, Cesare – aveva risposto Laura, sorridendo a sua sorella, a cui questi scherzi davano il martirio.
– Nobile dama: ma spietata – aveva ripetuto Cesare.
– Ti piacerebbe, che io avessi pietà? – avea chiesto Anna, vivissimamente, guardando negli occhi suo marito.
– No, non mi piacerebbe – era stato pronto a dire lui.
Malgrado questa sentenza tagliente, in cui il marito con tutta la freddezza, con tutto lo scetticismo, rivelava il suo diritto invincibile alla fedeltà, malgrado che Cesare, senz'averne l'aria, sorvegliasse l'andare e il venire di Luigi Caracciolo, egli scherzò apertamente col corteggiatore di sua moglie, con quel vocabolario arrischiato che viola i segreti del cuore e che deturpa tutte le idealità:
– Bè, come va la corte, Luigi? – gli disse un giorno.
– Male, Cesare: non potrebbe andar peggio – rispose l'altro, assumendo un tono malinconico, che era mentito solo per metà.
– Eppure, ti avevo lasciato libero il campo...
– Sì, sei generoso come un Cesare; ma quando hai preso una provincia, te la tieni, da lontano o da vicino.
– La gente della nostra età fa sempre così, Luigi.
– Ah voi avete un'altra tradizione – mormorò il giovanotto, quasi inconsciamente.
– Quale tradizione?
– Voi non amate...
– E che, amate voi, forse? – chiese Cesare, con un lievissimo, quasi impercettibile aggrottamento di sopracciglia.
– Alle volte, sai, facciamo questa sciocchezza...
– Errore di metodo, mio caro, errore grave. Spero che tu non te ne sia reso colpevole...
– Io non ne so niente – disse Luigi, fingendo il misterioso – e il tuo mi sembra un interrogatorio troppo geloso. Non ti dirò più una parola. Qui accade una tragedia.
– Non credo – concluse con una risatina, Cesare.
– Ma tu vuoi la mia disperazione, Dias? Non vedi che questa tua fiducia mi tortura? Fammi la grazia di esser geloso, perdio!
– Tutto per te, caro, salvo questo: io non sono mai stato geloso, di nessuna donna che mi abbia appartenuto.
– E perchè?
– Per questo: un giorno o l'altro te lo dirò – e lo prese a braccetto, ridacchiando ancora, conducendolo seco nel salone dell’hôtel Victoria. Ma ogni tanto, quel discorso ritornava, sempre scherzoso, da parte di Cesare, ironico e tranquillo, da parte di Luigi agrodolce, e spesso aspro. Nei ritrovi, nelle festicciuole di villeggiatura, Cesare accompagnava sempre Laura, perchè trovava supremamente ridicolo che un marito accompagnasse sua moglie: ed Anna, dopo due minuti di solitudine, in un salone, in un giardino, ai bagni, era subito raggiunta da Caracciolo. Quando Cesare tornava e li trovava, o discorrendo, o ballando, faceva un cenno d'intelligenza a Caracciolo, ridendo su quell'assiduità.
– Consegna rispettata rigorosamente, eh? – gli diceva il sarcastico marito.
– Almeno me l'avesse data lei, questa consegna! – diceva tristamente il corteggiatore.
– Ma insomma, Anna, tu vuoi far morire il più bel giovane della cristianità – esclamava il marito.
– Se si morisse d'amore, quanto migliore sarebbe il mondo – mormorava Anna, senza guardare i suoi interlocutori.
– Aforisma sentimentale – concludeva Cesare, con uno di quei sorrisi di tagliente ironia.
E si allontanava di nuovo, per figurare nei lancieri, di fronte a Laura, mentre fra Anna e Luigi si prolungava un penoso silenzio. Le era impossibile di sopportare, senza soffrire, quegli scherzi: e l'idea che suo marito potesse parlare, così leggermente, di un altro amore, l'idea che egli considerasse come una frivolezza mondana, l'assedio quotidiano fatto al suo cuore da Luigi Caracciolo, la martirizzava. Ella non era dunque niente per quest'uomo, che la lasciava corteggiare così? Neanche le apparenze della gelosia, apparenze che lusingano il cuore della donna, anche quando essa le riconosce per una certa finzione! E s'indignava egualmente contro Cesare, come contro Luigi.
– Voi scherzate troppo sui vostri sentimenti, perchè nessuna donna vi prenda mai sul serio – gli disse una sera, dopo una delle solite scenette, mentre udivano un concerto di mandolini e di chitarre.
Era la prima volta che gli rispondeva direttamente, che gli faceva un rimprovero: egli capì tutto e impallidì di emozione.
– Avete ragione – disse Caracciolo. – Ma sono stato serio, una volta: e mi hanno rifiutato egualmente.
Era triste, dicendo ciò. Sempre quel rifiuto di sposarlo lo amareggiava, più ancora, forse, della indifferenza con cui lo accoglieva adesso. Rifiutare un bello e ricco giovane, intelligente e grazioso, per un uomo che aveva passato i quarant'anni, che aveva sciupato la sua vita e il suo cuore, in tutti gli attriti nobili e volgari: che non amava prima, e che, per premio, non amava neppure dopo! E adesso, messa in giro misteriosamente, non si sa bene da chi, correva la voce della perfetta sfortuna di Luigi Caracciolo presso Anna, come fidanzato prima, come amante, poi: e il suo duplice rifiuto, del passato e del presente, massime, che si svolgeva sotto gli occhi di tutti, era commentato a maggior gloria di quel trionfante Cesare Dias, che aveva così completamente innamorato quella bella giovane. E a Sorrento, fra gli altri quattro o cinque romanzi d'amore di cui si discuteva, man mano che se ne assentavano gli eroi, il romanzo della passione di Anna per Cesare, di quella di Caracciolo per Anna, riappariva nelle conversazioni, sempre per venire alla conclusione che Cesare Dias era un grande affascinatore: che egli aveva l'arte suprema di accattivarsi il cuore degli uomini e di prendersi il cuore delle donne, e che tutti, veramente, avevano ragione di volergli bene e di adorarlo. E quando un nuovo arrivato, a corto di notizie, constatava la passione di Luigi Caracciolo, tutti crollavano le spalle. Era la storia di un insuccesso, quella.
Lo strano era che Luigi Caracciolo, mosso da non so quale istinto di lealtà, o di raffinata vanità, o di calcolo sottile amoroso, accettava ed esagerava questa parte di innamorato infelice. Giammai più il suo sorriso orgoglioso di giovinotto bello e felice, era apparso sulle sue labbra: e giammai più si era mescolato a una di quelle riunioni di giovanotti, dove spesso era stato l'anfitrione, o almeno uno dei protagonisti. Si vedeva, che egli viveva solo nell'aspettazione di Anna, quando si trovava in un salone, in un teatro, e che era inquieto, nervoso, sino a quando ella arrivasse: si vedeva il tramutarsi del suo volto, quando ella entrava, lo salutava, gli stendeva la mano: si vedeva la sua partenza precipitosa, quando ella se n'era andata: e la sua preoccupazione di ogni momento, tutti la vedevano, e tutti vedevano la sua pensosa malinconia. Forse egli amava che tutto questo si vedesse. Anna era una creatura assai diversa dalle altre; giammai sarebbe riuscito, con lei, il metodo della freddezza esteriore e dello scetticismo. Era troppo freddo e scettico Cesare Dias, il marito a cui egli voleva prendere il posto, perchè lui, l'amante ideale, diventasse come Dias. Quella creatura semplice e passionale che era Anna, doveva simpatizzare coi volti pensosi dove si legge la misteriosa traccia di un dolore, poichè ella godeva ogni sera e ogni mattina il tranquillo volto di un indifferente. Luigi Caracciolo amava, è vero: Luigi Caracciolo soffriva, è anche vero, ma il suo amore e il suo dolore erano adoperati assai finemente, con un metodo psicologico assai giusto.
Pure, malgrado la sua perspicacia, nell'autunno, egli vide che Anna era di nuovo agitata, distratta in altri pensieri; e tutta la bella gioia del ritorno di Cesare era svanita. Anna si chiudeva in un silenzio profondo, pallida, con quei segni lividi sotto gli occhi, che accrescevano la seduzione del suo viso, leggermente consumato. Egli capiva bene che quel poco di pietosa simpatia che Anna aveva avuto per lui, svaniva, scacciata da un'ignota ragione d'inquietudine. Egli la interrogò, un giorno, in una gita che avevano fatta, sul Deserto, una montagnola sorrentina dove sorge un convento.
– Avete qualche cosa che vi preoccupa? – egli le chiese, dandole il braccio per uno di quei lunghi corridoi claustrali freschi e chiari.
– Volete dirmi che cosa è?
– No, non voglio – ella soggiunse, con eguale lealtà.
– Non sono degno della vostra confidenza?
– Non posso dirvelo, non posso; è una cosa orribile – ella mormorò, con un tono così spaurito e desolato, che egli tacque, temendo che gli altri si accorgessero della sua emozione.
La interrogò ancora dopo. Non ottenne nulla. Anna si turbava: e sembrava che avesse ella medesima, orrore del suo pensiero e del suo sentimento. Luigi fece tutti i sospetti: dal più gradevole, che Anna si fosse innamorata di lui, al più sgradito, che Anna si fosse innamorata di un altro, di qualche incognito personaggio. Ma intese subito che erano ubbie, che ella non aveva cessato un minuto di amare Cesare Dias, e che la sua segreta tortura veniva sempre da quell'amore.
Suo marito era stato tenero e cortese, non altro, per lei, solo la prima settimana del suo arrivo; dopo, quasi avesse saldato il conto arretrato di tenerezza e di cortesia, aveva a poco a poco ripreso quella disinvoltura, per cui egli stava il meno possibile in compagnia di sua moglie, senza esagerare l'abbandono, ma abbandonandola costantemente. Aveva trovato una nuova forma, adesso: cioè quella di andare con Laura, dovunque, con la scusa che essa era troppo grande per essere accompagnata da una damigella di compagnia, e con la più forte scusa che egli doveva necessariamente maritare quella ragazza, posto che ne era il cognato. Talvolta Anna, per non perdere di vista il marito, andava anche lei, in tutti quei ritrovi mondani dell'estate e dell'autunno, sforzandosi di mettersi all'unisono, cercando di dissimulare l'interesse amoroso, che la conduceva ai bagni, alle regate, alle gite, ai ricevimenti campestri: ma, appena giunti, essa perdeva di vista suo marito e sua sorella; Cesare pareva ridiventato un giovinotto di ventidue anni, che ballasse la sua prima quadriglia; egli si dichiarava capace di qualunque sacrifizio e di qualunque miracolo, visto che era il cognato di Laura e che doveva sposarla necessariamente. Spesso, dinanzi ad Anna i due cognati scherzavano su questo matrimonio.
– Ma insomma, quanti sono i tuoi corteggiatori? – domandava Cesare Dias, con una gravità burlesca.
– Quattro dichiarati: e altri tre o quattro, ancora incerti – rispondeva Laura, con un risolino.
E ridevano insieme. Anna si sentiva esclusa da quella intimità e tentava invano di penetrarvi: qualche cosa, una parola, un'occhiata, una sfumatura di gesto, la respingevano indietro. Un assai acuto ma tacito tormento le cresceva dentro; aveva confusamente il senso di una grande ingiustizia che le si usasse: ma se scendeva ai particolari, analizzando tutto quello di anormale che le accadeva intorno, vedeva bene che erano delle puerilità. Era una puerilità, sicuramente, quella spiacevole impressione che ella riceveva quando Cesare e Laura si davano del tu, lei presente. Si eran dati del tu, sempre, Laura e Cesare, dal giorno in cui Cesare, lasciato il grave posto di tutore, aveva preso quello più familiare di cognato; ma Anna non ci si poteva abituare; ogni volta che essi ricominciavano a darsi del tu, lei presente, ella riceveva lo stesso urto nervoso, una sensazione sgraditissima. Una puerilità, di cui ella si vergognava, anche innanzi a se stessa; e che nulla avrebbe mai detto a Cesare, a Laura, per nulla, mai.
Ma non reggeva a una lunga conversazione che facessero suo marito e sua sorella, così familiare, così intima: doveva lasciare la stanza, non osando gridar loro di tacere, di finirla, se non volevano farla morire. Tante volte, si levava ed usciva, temendo che qualche parola le sgorgasse dalle labbra, suo malgrado. Poi, si pentiva. Si sentiva puerile, meschina, talvolta folle. Cercava di far forza a se stessa, per non udire, per non vedere. Sì, anche per non vedere. Qualunque atto di cordialità fosse scambiato fra sua sorella e suo marito, la facea trasalire, in tutte le fibre di donna giovane e sensibile. Se suo marito offriva il braccio a sua sorella, per entrare in un salone, o per la via, allontanandosi, ella aveva l'impeto di raggiungerli, di staccarli violentemente, di portarsi via Cesare; se suo marito dava la mano a sua sorella, per discendere dalla carrozza, per entrare in barca, ella voltava gli occhi in là, per celare il lampo del suo sguardo; se Cesare, quasi per celia, baciava la mano di Laura, inchinandosi galantemente, Anna chinava gli occhi a terra, avendo paura che tutto le si leggesse, in quegli occhi, il pensiero dell'anima sua. E quasi, quasi, come per torturarla, quei due erano familiari, familiari molto: Cesare si occupava dei vestiti di Laura, dei suoi cappellini, le annodava una sciarpa, le dava dei fiori per completare la sua toilette, le faceva cambiare la foggia della pettinatura. Anna fremeva: e dopo si pentiva di questi fremiti, di questa sensibilità morbosa. Diceva a se stessa:
– Io sono vigliacca e perfida, perchè suppongo delle perfidie e delle vigliaccherie.
Si pentiva amaramente della gelosia, in ogni momento; ma niuna potenza, umana o divina, le poteva distruggere nell'anima la gelosia. Essa sorgeva dall'essenza medesima della sua passione, cieca gelosia, ma imperiosa, gelosia distinta, ma sottile e tagliente come una sega che si esercitasse crudelmente sulla carne e sui muscoli: gelosia che non osa mettere un nome, che non ha il coraggio di assodare la verità di un fatto, ma che freme di tutto, di una mano stretta, di un braccio sfiorato, di due sedie messe accanto, di una parola scambiata sottovoce, di uno sguardo più lungo dell'usato. Ella s'imponeva il silenzio per punirsi di questa novella forma di follia, ella s'imponeva di lasciare le stanze dove erano suo marito e sua sorella, per far penitenza della propria viltà, ella s'imponeva di dare la massima libertà alle relazioni di suo marito e di sua sorella, per frustare il proprio sangue indomito, per punirsi, per punirsi! Ah ella era una creatura abietta, con l'anima ormai deturpata da tutti i più sacrileghi sospetti, ella faceva orrore a se stessa, quando immaginava che una innocente e casta fanciulla come Laura, che un onest'uomo come Cesare, potessero commettere questo tremendo peccato! Venivano dei minuti, in cui ella stessa si sentiva così colpevole contro loro, che avrebbe voluto chieder loro perdono, se li offendeva così, turpemente fantasticando sul loro casto amor fraterno. Si accorgeva, Cesare, di quest'ansietà segreta, di questi fremiti, di queste morbose e tormentose fantasie in cui avvampava la passione di Anna? Forse. Ogni tanto, senz'averne l'aria, egli la fissava nel volto, volendo scrutarne l'intimo, divorante pensiero, ed ella impallidiva, sgomenta, quasi che lei, poveretta, si trovasse in pericolo. E Cesare si era anche fatto, in quel periodo, marito più affettuoso, più tenero: tanto che ella talvolta, quando Cesare le dava un bacio, si metteva a tremar tutta, con un singhiozzo sordo, ma senza lacrime.
– Che hai, che pensi? –: le chiedeva Cesare con una certa ansietà repressa.
– Niente, niente – diceva ella, smorta, con gli occhi chiusi, cercando di farsi baciare ancora.
– Che hai? – insisteva il marito, con la sua dominante voce.
– Non mi domandare, non mi domandare – esclamava lei, affannosa, mettendogli una mano sulle labbra.
Ma una sera, quando eran soli, glielo disse, tremando, non potendo guardarlo in viso, come una donna che ha errato.
– Ti amo tanto, Cesare, tanto ti amo!
– Lo so – mormorò Cesare, con un lieve sorriso. – Ma non è questo, cara Anna.
E le arruffò, quasi per scherzo, i neri capelli sul collo.
– Hai ragione, non è questo, Cesare: io sono gelosa di te.
– E di chi, Anna? – chiese lui, diventato freddo freddo a un tratto, imperioso.
– Di tutte. Se tu tocchi una mano di donna, Cesare, io mi sento dilaniare.
– Di qualunque donna?
– Di qualunque donna.
– Di nessuna, in particolare?
Ella esitò un minuto secondo: una esitazione fugacissima.
– ... di nessuna, in particolare.
– Fisime, ubbie – egli disse, arricciandosi i mustacchi, il che era un suo movimento di soddisfazione.
– È amore, amore – ella disse. – Ah, se tu ne ami un’altra, amore, io mi uccido!
– Non credo che morirai di morte violenta – soggiunse lui, ridendo.
– Pensaci, amore, io mi uccido.
– Morirai a ottant'anni, di morte naturale – concluse Cesare, ridendo ancora.
Ed ella prese questi scherzi per una promessa, per un conforto. Fu rassicurata, per qualche giorno: ma la prima volta che ella volle provare le sue forze e lasciò uscire sua sorella e suo marito per andare a prendere un gelato, a Sorrento, la scusa per fare una passeggiatina, ella fu ripresa dal suo male e soffrì atrocemente. D'allora la sua condotta fu stravagante, bizzarra: a volte si sforzava a essere ilare, i suoi nervi si eccitavano, il suo riso diventava stridente, e tutto questo finiva in una malinconia profonda, in un silenzio tetro, da cui nessuno poteva trarla. A volte ella trattava Laura con una umiltà, con una tenerezza senza pari, abbracciandola, baciandola: e nella medesima giornata, senza causa apparente, ella si faceva aspra, la sua voce si velava di rancore, ed Anna finiva per andare a chiudersi in camera sua, dove restava delle ore, per domare la tempesta che le tumultuava nel core.
Era però singolare che Laura, vedendosi ora accarezzata, ora maltrattata, non domandava mai spiegazioni delle carezze e delle asprezze: soltanto sorrideva, bellissima, ridiventata rosea, luminosa negli occhi, coi capelli biondi dove scintillava, qua e là, dell'oro. Più di una volta, in qualche minuto che eran sole, le due sorelle, Anna si era scolorata quasi le urgesse una grave domanda, ma nel vedere sua sorella Laura così serena in ogni suo sguardo, nella trasparenza della sua carnagione, in tutta l'espressione della sua fisonomia, le era caduto ogni coraggio di parlare. Pure, per lei, le cose voltavano alla peggio: l'autunno e la campagna concedevano tanta libertà ai villeggianti, che gli amori, i capricci, i corteggiamenti germogliavano con un rigoglio così prepotente, che non valea nessuna gelosia di marito, di fratello, di amante abbandonato a soffocarli. Tutti si divertivano, tutti si volean bene, e si piacevano, con un trasporto, con un impeto fra giocondo e amoroso, che era accresciuto dalla idea della prossima partenza. Ad Anna tutto questo faceva male al cuore. Si trovava in contraddizione col suo ambiente. Ella amava e non si sentiva amata: ella era gelosa, e questo delicato e gran tripudio dell'anima ora la faceva dolorare nuovamente, più acutamente. Per una settimana si mescolò anche lei, nervosa, alterata, sempre seducente, anzi più seducente che mai, in quella fittizia esaltazione, e trovandosi sempre alle spalle Luigi Caracciolo, il pensoso amatore infelice, provava un'amarezza grande per quella stagione estiva, perfettamente perduta per il suo amore. Egli sentiva però, che qualche cosa si andava infrangendo, giorno per giorno, nel cuore di Anna: e Caracciolo conservava quella sua consegna di uomo che aspetta, senza chiedere, ma sperando sempre. Ma Anna non resistette più di una settimana a quella vita tumultuaria; e disperata di non potersi consolare in nessun modo, disperata di portare in pubblico le sue malinconie, si chiuse in villa, fino al termine della stagione. Diceva di star male. Stranamente, insisteva presso Laura perchè andasse, perchè si divertisse: e quando era restata sola a villa Caterina, quando non vi era più nessuno che badasse a lei, ella si buttava in ginocchio nella stanza dove era morta sua madre, chiedendo la grazia dei suoi tormenti. Ah ella peccava, peccava, sospettando, e trovava la sua punizione nello stesso ribrezzo, che le facevano i suoi sospetti. Il marito e la sorella, spinti da lei stessa, partivano, tornavano, dopo quattro o cinque ore di assenza nella giornata, tornavano a ora avanzata nella notte: con quale sguardo scrutatore, tetro, ella li accoglieva, ma senza dire nulla! Laura girava sui tacchi delle scarpette, e se ne andava, tutt'avvolta nel suo fresco e molle scialle di crespo bianco: Cesare dava una crollata di spalle e accendeva una sigaretta. Anna taceva: riprendeva il libro, di cui non aveva letto una linea; o chiudeva gli occhi come se dormisse.
Ma il grido del cuore, represso, soffocato, sgorgava prepotente:
– Quando ce ne andiamo, da questa Sorrento, quando?
La domanda pareva diretta a se stessa, tanto che Cesare la lasciò cadere, due o tre volte. Spesso sua moglie discorreva ed egli trattava quel discorso come un soliloquio. Ella si accorse che suo marito voleva prolungare il suo soggiorno, fingendo di non avvedersi della sua impazienza: allora glielo disse apertamente:
– Andiamo via, Cesare, te ne prego!
– Così presto? Napoli è ridicola, in questa stagione; non vi è nulla da fare, avremo l'aria di provinciali.
– Non importa, andiamo via, Cesare.
– Ti secchi, qui, nel più bel paese del mondo?
– Il paese è bellissimo, ma me ne voglio andare.
– Come vuoi – egli disse, cedendo subito, ma diventato freddissimo. – Dà pure gli ordini della partenza.
E per vendicarsi di lei, negli ultimi tre o quattro giorni, l'abbandonò totalmente, portando sempre seco la sua cognata, glorioso di quella bella giovane, serena creatura, che portava al suo braccio, che aveva lo stesso carattere e lo stesso umore di lui, che sorrideva nel medesimo modo leggiadramente sarcastico e che non diceva nessuna frase di melodramma: felice di lasciar a casa quella stravagante seccatrice di sua moglie, che le inventava tutte per seccarlo, mentre gli aveva così formalmente promesso di non esser seccante. E questa nota che egli aveva, andandosene, e il modo trionfale come si portava via Laura, Anna vide e intese perfettamente, poichè ella, nel silenzio, aveva imparato a leggere nel cuore di suo marito. Una profonda oppressione la vinse: e giammai come in quei tre giorni, ella ebbe il senso della sua disfatta. Mai più, mai più avrebbe riannodato la sua vita; mai più, mai più, avrebbe potuto trasformare se stessa. Fu in questo stato di abbattimento che la trovò una sera Luigi Caracciolo, alla vigilia della loro partenza per Napoli. Egli veniva per il saluto di congedo. Si era alla metà dì ottobre, ma anche lui si era trattenuto oltre l'usato, nutrendo la vaga, ma insistente speranza degli uomini che conoscono l'arte di aspettare. Soltanto, anche egli era triste: il suo amore, di quelle tinte dolci dell'autunno, prendeva un po' di carattere sentimentale. Anna stava nel salotto, poichè quell'anno aveva avuto freddo prima del tempo e aveva subito abbandonato il giardino e la terrazza, appena finito il settembre; sceglieva alcuni oggettini suoi, da portar via, certi vasellini di fiori, uno stracciacarte, un portalibri che aveva sempre seco.
– Buona sera, signora Dias – disse lui, entrando, e queste assai comuni parole avevano un'intonazione melanconica.
– Buona sera. Non ballate al Victoria, voi, per l'addio?
– No, io non ho che da dare a voi l'addio.
– Addio, dunque – diss'ella venendosi a sedere presso a lui.
– Addio – egli mormorò, sorridendo, guardandola negli occhi. – Ma ci rivedremo presto, fra una quindicina di giorni.
– Non so, Caracciolo, se riceverò così presto: non so neanche se riceverò – diss'ella tristamente, lentamente.
– Mi volete scacciare? – domandò lui, un po' pallido.
– Non è per voi, è per tutti. Non sono fatta per il mondo, io sono una spostata, sono una stonata. Mi vale meglio la solitudine.
– Vi languirete di tristezza... – egli mormorò. – Invece, venendo qualcuno... qualche amico devoto... chissà... potrete anche distrarvi.
– Le mie cure sono troppo profonde – ella disse, sottovoce.
– Non vi pare di essere un po' egoista? Anche qualcun altro soffre, e voi non ci badate, signora. E volete togliergli anche la rara dolcezza di potervi vedere? Ma non sapete che il male che si fa, anche senza saperlo, si paga? Non siate egoista, signora.
– È vero; sono forse egoista. Ma chi di noi non è capace di male? L'essere più puro, più innocente, senza volerlo, vi può trafiggere il cuore, mentre sorride.
Egli la guardò, indagando, intuendo che si trovava di fronte al segreto di Anna, al fenomeno spirituale che la esaltava e l'accasciava, da due o tre settimane. Ma Caracciolo non chiese nulla, direttamente. Forse, ella avrebbe parlato, così, per naturale confidenza.
– Sorrento vi ha annoiata, è vero?
– Non annoiata, precisamente: vi ho sofferto.
– Più di Napoli?
– Più di Napoli.
– E perchè?
– Così. Porto meco la mia infelicità.
– Credevate che Sorrento trasformasse la persona che amate?
– Speravo...
– Nulla potrà trasformare quell'uomo, mai. Egli non è cattivo, poi; ma è come è.
– È vero – ella annuì, smorta, simile a chi vede uno spettacolo improvvisamente lugubre.
– Perchè, poi, cercate l'impossibile? – disse lui, difendendo anche se stesso, in quella difesa di Cesare.
– E voi, non cercate l'impossibile? – replicò ella.
– ... già, ma mi contento di desiderarlo. E vedete, come sono ragionevole. Voi siete assai triste, assai triste, Anna, non per causa mia, per un altro: eppure io sarei così contento di esservi di conforto in qualche modo, in qualche forma...
– Grazie, grazie – ella rispose, commossa.
– Credo che vi attendono dei brutti giorni a Napoli: non ve lo auguro, cara Anna, ma lo credo.
– Io ne son certa – e una subitanea disperazione le disfece il viso.
– Ebbene, volete trattarmi da amico? In un minuto di dolore mi rammenterete?
– Sì, vi rammenterò.
– Ricorrerete a me?
– Ricorrerò a voi, come ad un fratello.
– Sentite, Anna. Io abito ufficialmente con mia madre, a via Tribunali, nel vecchio palazzo di famiglia. Ma la mia casa vera, è al Chiatamone, nel villino Rey; si entra dalla strada interna. Vi giuro, Anna, che vi dico questa cosa, come se la dicessi alla carissima fra le mie sorelle. Fra quindici giorni da oggi, ricordatevi, ricordatevi che ogni giorno, sino alle quattro pomeridiane, io aspetterò un vostro messaggio, una vostra lettera, una parola. In quella casa non vi sarò che io, io solo, Anna, aspettando che ci venga, se vuole, la donna che io più rispetto sulla terra, o un suo ordine: aspettando che mi si chieda un servigio, il più grave, il più duro. Obbedirò con entusiasmo. Anna, Anna, quando vedrete scorrere le ore, ricordatevi che io aspetto: quando avrete bisogno di un amico, di un cavaliere, di un servo, ricordatevi che la mia giornata passa, aspettandovi.
– Ma perchè volete dare la vostra vita, così? – ella chiese, sorridendogli amichevolmente.
– Perchè è bello, darla così. Voi, amando, non fareste come me?
– Farei come voi... Gitterei la mia vita.
– Vedete! Ma dimenticate la parola d'amore che ho pronunziato, adesso: essa è sfuggita involontariamente. Non è l'innamorato, non è l'uomo che vi adora, ma è l'amico devoto, ma è il fratello che vi rammenta: Ogni mio giorno è vostro. Giuro che nessun impuro desiderio mi muove.
– Lo credo – diss'ella, credendogli veramente.
E gli stese la mano; egli la baciò, per confermare il doppio giuramento che aveva fatto. Egli era sincero, in quel minuto: la menzogna esisteva, forse, nel fondo dell'anima, ma egli non l'avvertiva.