Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Addio, Amore!
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PARTE SECONDA

IV.

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IV.

 

Infatti, tornata a Napoli, Anna si rifugiò in una solitudine e in un silenzio grande, non ricevendo nessuno, non facendo alcuna visita, vivendo molto nella sua stanza; uscendo alla mattina per lunghe passeggiate a piedi, cercando di stancarsi, evitando di parlare, vivendo in una specie di sonnolenza morale, in cui i suoi dolori si facevano meno gravi. Sua sorella e suo marito, guardandola, ogni tanto, in atto di compassione, considerandola malata, continuavano a godere di quella libertà che avevano goduta a Sorrento: ella li lasciava, consumandosi nei sospetti, e nel rimorso dei sospetti. Anna aveva tentato invano di ricorrere alla religione, per calmare tutte le amarissime dubbiezze del suo spirito: ma il suo misticismo si dileguava subito, nuvola fantastica, al contatto di quella passione terrena che la vincolava con tutti i suoi legami. Aveva cercato del suo confessore, per dirgli tutto: ma quando fu inginocchiata innanzi alla grata di metallo, ella non osò accusare, a un estraneo, sua sorella e suo marito. Parlò confusamente, senza poter dire quale chiodo le si fosse conficcato nel cuore, soffocando le grida che le sgorgavano dall'anima: e il buon confessore non potette che darle delle consolazioni vaghe, parlando contro la gelosia che deturpa l'amore e avvilisce le anime innamorate: vaghe consolazioni, di cui svanì subito la traccia. Ella si abbandonava a un abbattimento morale così intenso, come se veramente tutta la fatalità del suo destino le si aggravasse adesso sul capo e la spingesse al naufragio. Anna usciva, camminando a guisa di sonnambula, per lunghe ore, fermandosi distrattamente a guardare le vetrine dei magazzini, salutando gli amici e le amiche che incontrava, rispondendo alle loro domande, se si fermava con loro, assai correttamente, ma con l'anima assente. Rientrava in casa molto stanca e passava varie ore della sua giornata, distesa sulla sedia di riposo, o buttata addirittura sul letto, leggicchiando, pensando, sonnecchiando e mancando spesso alla mensa familiare, con una scusa, con un pretesto qualunque.

– La signora è rientrata da mezz'ora e dormediceva il cameriere di Cesare al padrone.

– Sta bene, non la disturbatediceva subito Dias, liberato da una preoccupazione.

– La signora ha mal di capo, non viene a colazionediceva la cameriera di Anna a Laura.

Va bene: state attenta, se chiedesse nulla – rispondeva Laura, imperturbabile, serena.

E Cesare e Laura riprendevano lietamente la loro vita in comune, senza neppur pensare più a lei che acutamente soffriva, in tutta l'essenza dell'anima sua, in tutte le fibre del suo organismo. La gelosia imprime violenti spasimi fisici e contrazioni nervose che danno lunghi fremiti e stringimenti di cuore, per cui sembra che si muoia. Tutto questo, Anna soffriva. E sempre, in fondo a tutto il suo lungo dubbio crudele, ella si trovava indegna per tale dubbio, ella si biasimava per i suoi tormenti, ella si credeva, certamente si credeva, la più ingiusta fra le donne. Sua sorella che era stata sempre la purità istessa, suo marito che non aveva mai commessa una mala azione, erano creature superiori, degne di adorazione ed ella le vilipendeva, ogni giorno, le gittava moralmente nel fango. Quante volte avrebbe voluto buttarsi al collo di Laura e piangere su quel seno tutte le lacrime del suo, pentimento: ma temeva tanto di offendere il candore di sua sorella! Quante volte, nei rari minuti di espansione che adesso le concedeva il marito, ella sentiva il suo cuore struggersi nella pena e avrebbe voluto narrargliela in tutta la sua crudeltà, quella pena d'amore: ma ormai, suo marito la intimidiva, con le sue arie di compatimento, ed ella arrivava a domandarsi, se veramente quella gelosia non fosse una fissazione della sua mente inferma. E una illusione, infine, era stata quella precipitosa partenza da Sorrento, sperando di trovare a Napoli una pace, che Anna aveva perduta per sempre; poichè ella capiva ormai, che la sua tortura era tutta interiore, e che avrebbe dovuto strapparsi dall'anima quella passione, per guarire. D'altronde, mentre ella si accasciava nelle sue tormentose riflessioni, e fuggiva la presenza di suo marito e di sua sorella, non potendo sopportare più di vederli insieme, seduti accanto, sfiorandosi col braccio, stringendosi la mano, guardandosi, sorridendosi, mentre ella si allontanava dalla casa, come da un luogo d'inferno, o si rinchiudeva nella sua camera, chiedendo l'isolamento al suo dolore, ella si accorgeva bene dell'indifferenza di Cesare e di Laura, per la sua assenza. Capiva, anzi, che le sue malinconie erano un sollievo per loro, perchè evitavano loro l'aspetto di una pallida e triste donna, che non parlava, che era sempre in uno stato di sogno e per cui tutte le cose sembravano scolorate; capiva di esser loro di peso.

– Essi sono lieti: e io li seccopensava fra .

Due o tre volte, però, Cesare, un po' preoccupato di questo inguaribile stato di tristezza di sua moglie, aveva cercato di scuoterla; e ne erano seguite delle scene, in cui Anna, spaventata dai sarcasmi, dalla fredda collera di suo marito, non aveva voluto dire il suo segreto.

Un giorno, irritato, Cesare Dias le aveva dichiarato che egli non le dava il diritto di atteggiarsi a vittima, che ella non era una vittima, e che tutte queste fisime sentimentali lo seccavano immensamente.

– Io ti secco dunque? Ti secco? – aveva chiesto Anna, frenando a stento i singhiozzi.

– Sì, moltissimo. E spero che finirai di seccarmi un giorno o l'altro, è vero?

Dovrei morire, sarebbe megliomormorava Anna, smarrita.

– Ma come, non puoi vivere ed essere meno noiosa? È un compito, una missione, quella che ti sei assunta, di seccare?

        Meglio morire, meglio moriresingultava lei.

Egli se ne era subito andato, maledicendo la propria sorte e il proprio errore, poichè aveva sposato quella folle creatura; ed ella, che avrebbe voluto chiedergli perdono, non lo trovò più. Ah che ella non poteva mai, mai, aver ragione con lui! E dopo, nella giornata, anche sua sorella Laura la trattò con un certo disprezzo, stringendosi nelle spalle, al vederne gli occhi rossi. Per reazione, Anna volle uscire da quello stato di desolazione in cui si venìa profondando, volle rivivere, cercare di essere, almeno nelle apparenze, come tutte le altre donne del suo ceto, tranquilla e felice. Cominciava la bella stagione invernale napoletana: ella andò dalla sua sarta, si fece fare otto o dieci vestiti, decisa a diventare una persona frivola e vuota. Adesso, quando usciva alla mattina, incontrava sempre Luigi Caracciolo, dovunque ella andasse, quasi ella gli avesse comunicato il proprio itinerario: invece egli lo indovinava, con quella felice intuizione degli innamorati che ritrovano sempre la persona che amano. Ma non si fermavano, scambiavano un saluto: niente altro. Ella gli sorrideva. Non era un cattivo amico e col suo amore non le aveva dato nessun fastidio. Ma nel modo come egli la guardava, ansiosamente, nel saluto che egli le faceva, ella leggeva, ancora una volta, l'appuntamento:

Ricordatevi: ogni giorno: sino alle quattro.

Anna sorrideva, benevolmente, con una benevolenza tutta esteriore, e continuava la sua strada, dimenticando subito l'incontro. E giammai, nella tortura della sua passione e della sua gelosia, esaltandosi e languendo per un uomo come Cesare Dias, ella aveva pensato, ella pensava, giammai, che le sarebbe stato assai meglio sposar quel biondo e bel giovanotto, che le aveva voluto bene, e gliene voleva, a suo modo, che gliene avrebbe voluto molto, anche nel matrimonio, almeno per un certo tempo, e che infine era giovane, e tutte le corde dell'entusiasmo d'amore vibravano ancora in lui. Giammai ella aveva pensato a paragonare Cesare Dias, cuore arido e sdegnoso, temperamento raffinato e quasi esaurito, uomo in cui nulla più vibrava che il piacere fantastico di un minuto, anima senza entusiasmo e senza emozione, creatura disperante, poichè era come il fuscello di legno secco e fragile che si spezza fra le mani e che non ricorda neppure lontanamente il fiore di primavera: giammai, dunque, ella aveva pensato a paragonarlo con Luigi Caracciolo, bello, sano, intelligente e in cui, un'anima sentimentale, poteva anche cancellare tutta la influenza corrompitrice della vita galante. Quando mai ella aveva fatto tal paragone? il suo cuore era preso, la sua anima era presa, i suoi sensi erano presi del vecchio, dell'uomo freddo e disprezzante, più disprezzante ancora perchè le ultime potenzialità andavano a sparire in lui, ella era presa di lui, inguaribilmente, sino alla morte. Ella chiedeva alle occupazioni dei vestiti, delle visite, dei teatri, quello stordimento superficiale, quella ebbrezza degli occhi e delle orecchie che svia l'anima, per successivi minuti, e talvolta la deprime fino all'abbattimento. Cesare Dias incoraggiava questo annegamento di Anna nelle cure frivole ed esterne della mondanità, lieto di avere una donna che si occupasse di cappelli, di ricevimenti, di teatri, di mode, che si facesse far la corte, ma non tanto, sino a certo punto, che avesse dei corteggiatori, ma un amante mai, e che infine, soddisfatta nel suo amor proprio, trionfante nella sua vanità, carezzata in tutti i suoi istinti femminili, ella conservasse il suo amore per suo marito, ma che non lo seccasse: ecco! Vedendo che Anna si metteva, almeno per un tentativo, per quella strada, egli era ridiventato galante con lei, osservava minutamente tutti i suoi vestiti, le dava dei consigli, sapienti consigli dell'uomo che conosce tutta la gamma dell'eleganza muliebre; e quando la vedeva bella, attraente, le dava un bacio sulle labbra, o sopra una spalla che usciva dal busto scollacciato, e la mandava con Dio, o col diavolo – egli diceva fra . – E in fondo dell'anima di Anna vi era una collera contro se stessa che si avviliva in tal modo, che diventava una bambola vestita ogni giorno di nuovi cenci, che trascinava per le feste e per i teatri un cuore trangosciato, curvando la bruna testa, sotto il diadema scintillante che Cesare le aveva donato il giorno del suo matrimonio, agitando nelle delicate mani il ventaglio di piume bianche e sentendosi struggere e soffocare. Ah, ella non avrebbe mai travato un rimedio al suo dolore; quello così volgare di diventare una donna alla moda, quel rimedio così facile a una donna bella, di trasformarsi in una stella del firmamento muliebre, non la confortava, e le faceva spesso orrore. Talvolta, assorta in malinconiche riflessioni, vedendo tante altre donne ornate come lei, cariche di gemme sorridenti, con gli occhi lucidi, ella si chiedeva, se non tutte quelle donne avessero una ferita sanguinante per cui non vi era balsamo, per cui perdevano la forza e avrebbero perduta la vita: se non tutte quelle creature risplendenti come idoli ieratici, non avessero come lei un cuore straziato chissà quanto, chissà! Coloro che incontravano Anna Dias, dovunque, dicevano che ormai ella era una gran mondana; ma i più fini vedevano bene, ogni tanto, sulle sue labbra, la morte del sorriso, quando ella non aveva più la forza di sorridere; i più fini vedevano bene i suoi improvvisi pallori, e le nebbie torbide che, a un tratto, coprivano gli occhi belli, i più fini vedevan bene che, in un momento, mentre pareva che si divertisse tanto, ella chiedeva il suo mantello, e se ne partiva senza volger la testa, sparendo, andandosi ad immergere nella solitudine della sua stanza. E coloro che erano osservatori, dicean bene che la signora Dias era una donna attraentissima, ma che un giorno o l'altro ella avrebbe fatto una corbelleria.

– Quale corbelleria?

Mah!... qualche cosa di molto stravagante...

Una sera, verso la fine di gennaio, Anna doveva andare al San Carlo; era una serata di prima rappresentazione. Durante il pranzo, ella aveva chiesto a Laura se volesse accompagnarla.

– No, non vengo – aveva risposto Laura, distrattamente.

– E perchè?

Debbo levarmi presto, domattina: ho da confessarmi.

– Ah! Sta bene. E tu mi accompagni, Cesare? – disse Anna, rivolgendosi al marito con uno sguardo interrogativo, scrutatore.

– ... Sì – disse questi distratto.

– Viene la zia Sibiliasoggiunse Anna.

– Allora, se mi permetti, verrò al secondo atto – e sorrise a sua moglie così gentilmente, che ella trasalì.

– Hai qualche cosa da fare?

– Sì: ma torneremo insieme – e pronunziò questa frase, con una intonazione di galanteria perfetta.

Ella arrossì e impallidì. Suo marito la trattava come un'amante a cui si è fatto, o si vuol fare qualche torto, e verso la quale si aumenta di amabilità.

E che importava? Purchè le volesse bene, in una forma o in un'altra, purchè fingesse di volerle bene, tutto era guadagnato di fronte al disprezzo e alla indifferenza; e quell'idea di ritornare insieme, dal teatro a casa, in carrozza chiusa, la inebbriava come un convegno di amor proibito. Suo marito l'adeguava, forse avvilendola, alle sue innamorate illegali; ma non gli aveva ella giurato, sulla terrazza di Sorrento, che voleva essere la sua serva, la sua schiava? Andò a vestirsi pel teatro. Mise per la prima volta un vestito di broccato azzurro, con un lungo strascico, vestito audace per il colore che è adattato alle donne bionde, ma la cui tinta era così indovinata, che la carnagione di avorio di Anna ne aveva un risalto magnifico. Il busto del vestito era screziato, qua e , di piccole e grandi stelle di brillanti, lembo di cielo in una notte stellata: e nei capelli bruni di Anna, rialzati sul capo, erano fissate tre stelle di brillanti, tremolanti sullo stelo, meravigliose. Ella non portava nessun braccialetto: aveva al collo un sol filo di perle. Quando ebbe finito di vestirsi, mandò a chiamare suo marito. Non dunque lei era una qualunque vilissima amante, che spera solo nel brutale trionfo della sua bellezza, per affascinare un minuto il suo volubile signore? Egli venne. Era ancora in abito da casa. E sua moglie gli piacque subito.

– Stai benissimodisse.

Le prese le mani, le baciò: poi le baciò il bel braccio nudo, che usciva dai veli azzurri; e infine, la baciò sulle labbra. Ella ebbe un lungo fremito e abbassò il capo.

– Ci vedremo – egli disse, in forma di promessa, per consolarla – e torneremo insiemesoggiunse confortandola come un'amante tradita a cui si riaccorda, per bontà d'animo il favore di un convegno.

Ella accettò, poichè doveva accettare tutto da lui. Uscì, senza aver salutato Laura, che si era ritirata nelle sue stanze, e andò a prender la zia Sibilia, che abitava adesso nella loro antica casa di via Gerolomini, dove ella aveva tanto amato e tanto sofferto. La zia era pronta. Andarono al teatro. Ma per Toledo, trovarono una quantità di carrozze che tornavano indietro; le due donne non ne intesero la ragione che sotto il portico del San Carlo, dove un cartellino rosso era attaccato sul cartellone bianco. Per una indisposizione improvvisa della prima donna, non vi era più spettacolo quella sera al San Carlo: per l'ora tarda, era stato impossibile apprestarne un altro. Così, piccoli coupé che racchiudevano un marito e una moglie che probabilmente non avevano scambiata una parola durante il tragitto, o grandi landaux di famiglia, dove due genitori si trascinavano dietro tre o quattro figliuoli, o carrozzelle da nolo, tutti gli equipaggi, dopo essere stati fermi un pochino, tornavano indietro, lentamente. E nelle carrozze, tutto, era un malumore subitaneo, manifestato col broncio taciturno delle ragazze, colla nervosità delle giovani spose, coi sospiri delle madri; ed erano mille cose guastate, mille progetti andati a male, un dispetto, un rancore, una collera di tutti coloro che avevano perduto un trionfo della vanità, dell'amore, per quella serata perduta. Anche Anna ebbe un vivacissimo moto di dispetto, piegandosi fuori del coupé, a leggere il cartellino rosso origine di tante delusioni; e quando si vide innanzi allo sportello, Luigi Caracciolo che aspettava , sicuro che ella sarebbe arrivata, si tirò indietro, quasi non volesse salutarlo.

Marchesa mia, avete una nipote veramente ferocediss'egli, scherzando, baciando la mano guantata della vecchia, appoggiata allo sportello. E salutò Anna, con tale sguardo che diceva, sempre, l'eterna idea:

Rammentatevi: vi aspetto: ogni giorno.

Ella crollò il capo, nell'ombra. Era tristissima per la sua serata perduta, mentre sarebbe stata sola in palco con Cesare, sola con lui, certamente, nel coupé, sola con lui, a casa, e tutto questo svaniva, e il suo bel vestito azzurro era perfettamente inutile! Malinconicamente, domandò a sua zia che cosa volesse fare: e costei la pregò di riaccompagnarla a casa; era una serata perduta, non voleva più andare in nessun posto.

– E tu che fai? – aveva chiesto, a sua volta, la zia Sibilia.

– Niente, vado a casa – aveva tristamente risposto Anna, stringendosi nel suo gran mantello di velluto azzurro zaffiro, foderato di una pelliccia bianca morbidissima.

Pure, aveva una certa speranza di trovare a casa Cesare, di passare almeno mezz'ora con lui prima che uscisse. Egli mettea molto tempo a vestirsi: e non aveva costume di affrettarsi, neppure quando gli urgeva un appuntamento. Forse, lo avrebbe trovato ancora in camera sua, dietro ad annodarsi la cravatta bianca, dietro a mettersi la gardenia all'occhiello, con molta attenzione. Bisognava far presto. Difatti, il coupé filò rapidamente dal San Carlo, un'altra volta al largo di Gerolomini: ella si licenziò in fretta da sua zia e disse al cocchiere di tornare immediatamente a casa. Ma per quanto filasse la lieve piccola carrozza, era passata quasi un'ora da che Anna era uscita di casa: e tornando ella chiese subito al portiere se il signore era già uscito. No, non era uscito. E vedendo che il portiere metteva la mano al cordone della campana, per suonare un colpo, ella, istintivamente, gli disse di non suonare. Voleva fare una sorpresa a suo marito. Difatti, ella si mise un dito sulle labbra, sorridendo, quando apparve innanzi alla cameriera stupefatta, e attraversò la casa senza far rumore, arrivando sino alla porta della stanza di Cesare, a quella porta dove egli sempre entrava, non a quella che era in comunicazione col corridoio della camera di Anna. Questa porta, innanzi alla quale ella si fermò, era chiusa con la maniglia, non con la chiave: ella la schiuse, pianissimamente, sempre con l'intenzione di fare una lieta sorpresa a suo marito. Ma dopo aver aperto il battente, si trovò ancora in penombra, poichè, Cesare, di dentro, aveva abbassato le due portiere di pesante velluto oliva. Una forza interiore, improvvisa, impedì ad Anna di sollevare la portiera e di farsi vedere: ed ella restò dentro, perfettamente nascosta, all'oscuro, ma vedendo benissimo, dalla linea di apertura delle portiere, tutta la stanza di Cesare illuminata, udendo tutto quello che vi diceva e non respirando più, per non farsi udire. Cesare era già vestito, in marsina, con l'inappuntabile panciotto bianco, la catenina dell'orologio che andava dalla taschina del panciotto alla tasca dei calzoni, con una bellissima gardenia di un bianco avorio all'occhiello, coi bei mustacchi neri arricciati e la sua aria profondamente soddisfatta. Egli era seduto in uno dei suoi grandi seggioloni di cuoio, appoggiando la bella testa alla spalliera bruna, e il pallore del suo volto consumato spiccava in un modo seducente. Egli non era solo.

Laura, tutta vestita di quella morbidissima lana bianca, che pareva appositamente tessuta pel suo corpo molle e flessuoso, con un fascetto di rose bianche d'inverno, passato nella larga cintura di amoerro che le girava due volte, senza costringerlo, intorno al bel busto, coi biondi capelli avvolti artisticamente intorno al pettine di tartaruga, e formanti quel nimbo d'oro alla fronte e alle tempie, che era la gloria della sua beltà muliebre, Laura, era nella stanza di Cesare. Ella non era seduta in una di quelle poltrone di velluto oliva, sparse qua e ; su qualche sgabello di legno scolpito, di cui la camera era provvista; sul seggiolone di cuoio, dirimpetto a Cesare; sull'altro seggiolone di cuoio, accanto a Cesare; ell'era seduta, alla meglio, sul bracciuolo del seggiolone, dove Cesare era sdraiato: seduta di fianco, alla birichina, e un piedino appariva, calzato da una scarpetta nera tutta ricamata di perline e da una calza di seta nera traforata, un piedino irrequieto, che dondolava.

Un suo braccio era allungato sulla spalliera del seggiolone di Cesare: ed ella, stando più in alto, s'inchinava a parlare sul volto di Cesare, sorridendo, con un sorriso profondo, folle, mai visto su quel purissimo e rosso arco delle labbra. Cesare col viso levato la guardava, e ogni tanto le prendeva la mano abbandonata lungo la persona, e la baciava, la baciava con una lentezza, con una lentezza, mentre la bellissima creatura impallidiva di emozione. Quando Cesare baciava la mano di Laura, ella taceva: e dopo, tacevano ambedue, non melanconici o pensosi, ma come se assaporassero intimamente quel silenzio, quella solitudine, quella libertà, quella amorosa compagnia, quel bacio che veniva dopo tanti altri, e che precedeva tanti altri. Giusto, Anna era capitata dietro alla tenda, in un momento in cui le labbra di Cesare si posavano delicatamente, lungamente sulla mano di Laura; mentre quei due si guardavano negli occhi, presi, vinti, nel gran mutismo delle ore sublimi. E Anna non sentiva, in quel silenzio, che il battito tumultuoso del suo cuore: un battito che saliva, tumultuoso, sino sotto la gola, tumultuoso, tumultuoso.

Ma la mano bianca e fine di Laura era restata in quella di Cesare, mollemente abbandonata: poi, quasi non bastasse il contatto delle palme, quasi a chiudersi in modo stretto, indissolubile, le dita di Cesare, ad una ad una, si erano intrecciate alle dita di Laura. La fanciulla, che non distoglieva gli occhi da quelli di Cesare, in quel momento sorrise con un sorriso tutto languore, come se tutta la sua anima fosse in quella mano, unita per sempre alla mano di Cesare: un sorriso lungo, fatto del languore di un'anima vinta e domata, ma fatto anche di trionfo, per la presa di possesso dell'altra anima. Non dicevano nulla: ma la loro istoria era in quelle persone amorosamente ravvicinate, era in quelle dita congiunte con la forza spirituale e nervosa che nulla potrà mai infrangere, era in quello sguardo lungo, che niente poteva distrarre, in cui la espressione si tramutava dall'uno all'altro polo dell'amore. Anna vedeva le persone ravvicinate, in quell'irresistibile necessità che ha l'amore di annullare lo spazio fra i due che si amano, vedeva le due mani vincolate, vedeva che, guardandosi, essi passavano dalla passione alla tenerezza, dalla voluttà spirituale all'affetto pietoso; lucidamente, in ogni suo particolare, ella aveva la riproduzione visiva ed implacabile di quella silenziosa scena d'amore. Ma era anche così forte il tumulto del suo sangue che batteva al cuore, alle tempia e ai polsi, era tale la vibrazione dei suoi nervi, che ella disse, fra :

Adesso sto sognando.

E immobilizzata, simile a coloro che fanno un orribile sogno, e la cui volontà non è abbastanza forte per destarsene, incapace di aprire la bocca per cacciare un suono, di levare una mano per ischiudere le tende, incapace di muovere un piede per avanzarsi, schiacciata e irrigidita sotto l'incubo, non le restava che l'acutissimo senso della visione, per cui ogni linea di quel gruppo, ogni sfumatura del volto di Cesare e di quello di Laura, le si ripercuotevano nel cervello, in una precisione tagliente, esagerata. Nel cuor suo spasimante, non discerneva che una preghiera muta, continua, infantile: non veder più quello che vedeva, liberarsi da quella scena, liberarsi da quel sogno. E tutti i suoi sforzi interiori di volontà, erano per poter chiudere i suoi occhi a quello spettacolo, per poter abbassare le palpebre schiuse e immobilizzate, per mettere un velo fitto fra e la sua visione. Preghiera inesaudita! Invincibilmente presi, i suoi occhi spalancati, ipnotizzati, dovevano vedere.

Adesso, Laura aveva preso dalla sua cintura di amoerro bianco, il fascetto di bianche rose invernali che vi era passato dentro, sempre guardando Cesare e sempre sorridendogli: due o tre volte, con uno scherzo d'amore, aveva battuto con le rose sulla spalla di Cesare. Poi aveva portato le rose alla faccia chinandosi sovra esse, volendo assorbire in una sola aspirazione tutto il loro sottile e delicato profumo, baciandole lungamente, volendo dar loro, in quel bacio, tutta la morbidezza e il profumo delle sue labbra di donna. E sorridendo, guardando Cesare con un'intensità amorosa profonda, gli aveva offerto le rose da baciare, ed egli aveva quasi ricercato con le labbra, il bacio lungo di Laura sulle rose. Dopo di che, Laura aveva ribaciate le rose, con un movimento convulso, arrovesciando la testa. Gli occhi di Cesare e di Laura avevano lampeggiato. Mentre per la seconda volta Cesare aveva baciato le bianche rose, la testolina bionda della fanciulla, affascinata, si era inchinata, inchinata, a baciare quei fiori, mentre Cesare li baciava. E lentamente, sulle rose invernali, bianche e fredde, ma dal profumo fine e inebriante, le labbra di Cesare e di Laura si erano congiunte insieme, in un bacio. Vicine erano le persone, congiunte e vincolate le due mani, vicine le teste, e le labbra unite, finalmente, in un bacio: e gli occhi che avevano lampeggiato di passione, erano adesso velati, morenti.

– Io, forse, sono pazzadisse fra Anna, udendo i colpi folli che le dava il sangue al cervello.

E nel dubbio della follia, credendo, volendo credere a una allucinazione della sua vista, inferma di pazze visioni, invocando la fine di quell'incubo mortale, ella desiderò che almeno una parola uscisse dalle bocche di Cesare e Laura, perchè fosse distratto il malefico incanto di quello spettacolo. Quelle due persone si guardavano, si muovevano, agivano, ma come in una fantasmagoria: non un suono usciva dalle loro labbra: forse erano degli spettri che si amavano e si baciavano, per farla morire. Poichè ella era colpita dalla grande stupefazione, poichè non poteva parlare, muoversi, per rompere il maleficio, poichè ella sentiva dilaniarsi le fibre, ad una ad una, poichè intendeva che, fra un minuto, non avrebbe resistito più a quello che vedeva, ella pregava, perchè parlassero, perchè quei fantasmi le dessero una prova della loro esistenza.

Signore, Signore, una parola! – ella diceva a Dio, nel suo cuore, mentre gli occhi stralunati non si toglievano da quel gruppo, mentre il senso dell'udito le si faceva più acuto, quasi per afferrare l'impercettibile rumore, che doveva darle l'ultima prova.

Ella udì, infatti, un profondo sospiro. Era uscito dal petto di Laura, dopo il bacio: e la fanciulla, bruscamente, era scivolata dal seggiolone, dove stava seduta, aveva sciolto la sua mano da quella di Cesare e aveva fatto qualche passo, allontanandosi, restando in piedi in mezzo alla stanza. Adesso era più vicina ad Anna: Anna la vedeva a dieci passi di distanza, perfettamente. Il volto di Laura era sconvolto. Una fiamma era salita ad abbruciarle le guance, i capelli erano arruffati, mentre nessuna mano era venuta a disordinarli ed ella, nervosamente, distrattamente, con un moto vago, inconscio della mano, li sollevava dietro le orecchie. Le labbra erano schiuse, stirate da un convulso sorriso che scovriva i denti candidissimi: e lo sguardo vagava, fiero e melanconico nello stesso tempo: l'altra mano stringeva il mazzolino delle rose bianche. Cesare vedendo allontanarsi Laura, non aveva fatto nessun gesto per trattenerla, non l'aveva seguita, non si era levato neppure. Ma veramente, anche lui, inchiodato nel suo seggiolone, era turbatissimo, nel suo pallore crescente, nello sguardo diventato un po' duro, nel nervoso modo con cui arricciava il suo mustacchio: due o tre volte, quasi volesse soffocare la sua collera, si morsicò le labbra. Egli fissava Laura, di lontano, richiamandola a imperiosamente. Ella fece ancora qualche passo, esitando, vacillando, incerta, affascinata. Nella sua allucinazione, Anna avrebbe voluto, se avesse potuto parlare, muoversi, dare a Laura la forza di togliersi da quel fascino della passione, liberarla, e liberar da quella magìa.

Dio, Dio, dàlle la forza, dammi la forza... – pregò ancora Anna, nel suo sogno, nella sua follìa.

Ma Laura non ebbe la forza di andar via. Una contrazione dolorosa le stirò le braccia, quasi ella facesse uno sforzo per vincere un inesorabile impulso: subito dopo, le linee del bellissimo e chiaro volto si distesero e si ammollirono: la passione trasformò nuovamente, con la sua fiamma, quel candore, quella purità. Ella tornò verso Cesare, guardandolo, sorridendogli: giunta proprio innanzi a lui ella gli scivolò ai piedi, levando la testa, tendendogli le mani, adorandolo. Ed allora Cesare, i cui occhi si erano velati di lacrime, vedendola ritornare, baciò quelle labbra, in una furia di baci. E Anna, che non aveva mai visto gli aridi e freddi occhi di quell'uomo bagnati dalle lacrime, sotto la tortura di una novella emozione, in quel vorticoso turbine che era diventato il suo cervello, disse fra :

Cesare non sa piangere; questi sono spettri: e io sono pazza.

Ma mentre un orribile calore le saliva dal cuore alla testa, e la faceva vacillare come nel massimo grado di temperatura febbrile, mentre ella diceva ancora che quella era follia, a un tratto, un freddo brivido le percorse il corpo, ne calmò il sangue e ne ricompose la mente. Ella aveva udito. Quegli spettri avevano parlato: parlavano. Erano un uomo e una donna, non due vane ombre. Erano suo marito Cesare e sua sorella Laura. Parlavano. Laura si era sciolta da quei baci furiosi di Cesare, si era rialzata e stava ritta innanzi a lui, mentre Cesare, sempre seduto, le teneva le due mani: si guardavano, si sorridevano:

– Mi vuoi bene? – aveva chiesto Cesare.

– Ti voglio bene – aveva risposto Laura.

– Quanto me ne vuoi?

– Tanto, tanto.

– Ma quanto?

– Tutto.

– E per quanto tempo me ne vorrai, Laura?

– Per sempre.

Adesso Anna tremava di freddo: tutte le sue facoltà, da quelle voci, da quelle parole, erano rientrate nel loro assetto: la realtà la faceva tremare: ella non si credeva più pazza, non pensava più che quella fosse una visione. Batteva i denti, nel suo abito scollacciato, nude le spalle, nude le braccia; batteva i denti malgrado il gran mantello di velluto azzurro zaffiro, foderato di una molle e calda pelliccia. Non aveva che un freddo atroce, quasi ogni sorgente di calore, di vitalità si fosse allontanata per sempre dal suo organismo: non osava fare un gesto, per rialzarsi sulle spalle la pelliccia cadente: e un terrore la prendeva di essere scoperta come se ella fosse in peccato. E il tempo le parve così interminabile, lungo, che era forse un secolo, da che ella spiava suo marito e sua sorella, che si baciavano. E nel suo tremore, in cui i denti le battevano, nel suo terrore della catastrofe in cui si aggirava, vacillando, agonizzando, da pochi minuti, ella ebbe il primo, il più alto, il più forte senso che colpisca gl'infinitamente sventurati: l'insopportabilità della sventura. Non poteva sopportare quel fatto, non poteva sopportarlo. Ma di nuovo, mentre ella si portava il grande ventaglio di piume azzurre alla bocca, per soffocare le sue grida di ribellione, le sue maledizioni a Dio, all'amore, al tradimento, ai traditori, ella udì parlare, di nuovo. Era Laura questa volta che, allontanandosi da Cesare, un poco, graziosamente, amorosamente, sempre guardandolo, sempre sorridendogli, gli domandava:

– Mi vuoi bene?

– Sì: ti voglio bene.

– Quanto me ne vuoi?

– Quanto è in me, Laura.

– Da quanto tempo?

– Da... sempre.

– E per quanto tempo?

– Per sempre.

Insopportabile, insopportabile. Una collera impetuosa, adesso, prendeva Anna, di entrare come una furia, in quella stanza, strappando la tenda, gridando, urlando per la insopportabilità di quel fatto. Ma Cesare, pian piano, aveva detto a Laura, con una voce velata di emozione:

Vattene via.

Perchè, amore?

Vattene, vattene; è tardi; debbo andare.

– Ah cattivo amore, cattivo.

– Non dirmi questo, non guardarmi così, vattene, Laura.

E amorosamente, con la forza dell'uomo che conosce la misura della propria forza, egli si era rialzato, e avendo passato un braccio attorno alla cintura di Laura, la conduceva verso la porta, per farla andar via. Ella si faceva portare un poco, riluttante, appoggiando la testa alla sua spalla, guardandolo di sotto in su, così teneramente, che la espressione fiera e dura, che era forse quella della passione repressa, riapparve sulla faccia di Cesare. Sulla porta essi si baciarono di nuovo, sulle labbra, e malgrado la distanza, Anna udì chiaramente le loro voci:

Addio, amoredisse Laura.

Addio, amoredisse Cesare.

La fanciulla, abbassando il capo, uscì. Anna vide ritornare Cesare verso la scrivania: egli era così disfatto che pareva morente. Pure, con la consueta presenza di spirito, egli prese una sigaretta e l'accese: si guardò intorno, stralunato, quasi non sapesse più dove si trovasse.

Allora Anna, rattenendo il respiro, senza lasciare il suo strascico che aveva tenuto rialzato tutto il tempo, indietreggiò, passò da quel vano di porta nel salotto attiguo, attraversò la stanza da fumare, si trovò nel salone, e di , sempre senza aver trovato nessuno, si precipitò in camera sua, richiudendone la porta alle sue spalle. Aveva fatto tutto questo con rapidità, senza un minuto d'incertezza, con l'istinto animalesco della povera bestia già ferita, che sente ancora il cacciatore dietro a , e che vuol morire in pace, nella sua tana. In camera sua avrebbe voluto gridare, tanto le stringeva il petto la soffocazione, tanto la insopportabile scena del tradimento la schiacciava e la esaltava. Ella aveva lasciato cadere ai suoi piedi il gran mantello azzurro, dalla forma regale, e si strappava dal collo il filo delle perle, buttava tutto intorno a , morendo di sdegno e di dolore, con un impeto cieco di distruzione. La cameriera venne a bussare alla porta, chiedendole se volesse essere aiutata. La rimandò, senz'aprire. Ma mentre ella strappava il cordoncino azzurro che stringeva il busto di broccato azzurro, ella udì bussare, di nuovo.

Anna, Annadisse la voce di Cesare, tranquilla.

– Che vuoi? – ella rispose, subito, appoggiandosi a una sedia, per non cadere: la voce era sorda.

– Non vi era spettacolo? O ti sei sentita male? – chiese lui senz'avvertire nulla.

– Non vi era spettacolo – ella soggiunse, chiudendo gli occhi, quasi svenendo.

– Quando sei tornata, adesso? – e invero, una lievissima esitanza si notava nella domanda.

– ... adessomentì ella, arrossendo anche di questa menzogna, ella che era innocente.

– E Vostra Altezza non è visibile? Io ossequierei volentieri l’Altezza vostra – disse lui con quella voce seduttrice, a cui ella non aveva mai resistito.

Ma tale un ribrezzo l'assalse, che ella strappò coi denti un nastro annodato del vestito, per non gridargli il suo tradimento, per non rinfacciargli l'atroce domanda che adesso le faceva.

– No – rispose con voce soffocata.

Addio, amore – gli disse graziosamente, attraverso la porta, per salutare.

– Ah infame, infame! – gridò ella, furente, slanciandosi verso la porta.

Ma egli si era già allontanato e non udì.

.   .   .   .   .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .   .   .   .   .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  . .   .   .   .   .  .  .  .  .  .

Era tardi quando Anna si levò dal letto di dolore, nel cui bianco origliere ella aveva soffocato, mordendolo, i gridi della sua collera e i singhiozzi della sua disperazione. Tremava di freddo, malgrado la gran coperta di piume che si era tirata addosso, in una delle convulsioni, in cui la sua carne e il suo spirito si ribellavano furiosamente nell'insopportabile fatto, visto e udito: era quel tremore che l'aveva vinta, dietro la tenda, quando il sogno fatale le era apparso, diventato una realtà fatale: un tremore che aveva, ormai, nelle ossa e nei nervi, e che nessuna fiammata di caminetto, nessuna pelliccia calda e profumata, e neanche il meridiano sole di agosto sarebbe mai giunto a vincere: un tremore sottile e interiore che ogni tanto, crescendo, le faceva battere i denti. Scendendo dal letto, si guardò intorno: nella sua stanza regnava un gran disordine; il disordine delle ore tragiche in cui tutte le cose assumono, quasi per influsso di simpatia, l'aspetto dell'irrefrenabile sentimento che anima le persone. Il lieve ventaglio di piume azzurre, buttato sopra una poltrona, si era schiuso, pendeva sino a terra, col gran fiocco di nastro azzurro che trascinava sul tappeto; il mantello regale, quello che parea destinato a coprire le belle e orgogliose spalle di una donna felice, formava un mucchio di velluto e di pelliccia per terra; il corsetto del vestito di broccato azzurro, strappato, coi veli laceri, giaceva sul letto aperto con quella linea disperata di vestiti smessi, che pare rimpiangano la persona assente: per terra i lunghi guanti, vuoti, quasi fossero stati tolti alle braccia di una morta: e sul tavolino, sulle mensole, lanciate alla rinfusa, le stelle di brillanti che avevano adornato la testa e il petto di Anna Dias in quella serata: lanciato via il filo di perle, che si era strappato violentemente dal collo: sull'origliere un mucchietto bianco, il fazzoletto di batista e merletti, tutto molle di lacrime. Ella crollò il capo, vedendo quella gran miseria di cose che, malgrado la loro beltà e la loro ricchezza, non erano valse a salvarla dalla sventura: e apparve a , seminuda, coi capelli disfatti sul collo, tremante di freddo, curva, camminante fra gli avanzi naufragati della sua bellezza e del suo amore. E allora, assai lentamente, con gli occhi ormai senza lucentezza, perduti in una nebbia che ne aveva spento ogni vivacità, ella indossò una veste di velluto nero, di foggia antica, con grandi maniche, un abito in cui ella sparve tutta: poi, come un automa, senza che una sola espressione apparisse sul volto terreo, ella ripose in ordine i gioielli, i guanti, il vestito, con una cura minuziosa, quasi fosse una donnina elegante e assestata, che tenesse immensamente agli adornamenti suoi mondani. Solo ogni tanto, un lungo brivido la percorreva; le mani quasi lasciavan cadere quello che portavano, non arrivavano a chiudere un astuccio di gioielli: ella si fermava, smemorata, in mezzo alla stanza, ombra nera in cui nulla più brillava, sorriso, sguardo; e dopo un minuto di assorbimento, di vuotaggine di pensiero, ella riprendeva il suo piccolo lavoro. Chiuse i suoi cassetti e il suo armadio: il rumor secco delle chiavi la scosse. E quando ebbe preso sull'origliere il suo piccolo fazzoletto, su cui aveva pianto tanto, ancora due lacrime lunghe, silenziose, le discesero dagli occhi rossi per le guance, cadendo sul velluto nero della veste. Di nuovo, si fermò, quasi raccogliesse le sue idee confuse: poi suonò il campanello. La cameriera giunse, mezzo addormentata.

– Che ora è? – chiese Anna, non pensando di avere a due passi, sul tavolino da notte, l'orologetto che le aveva donato Cesare.

– È l'una – rispose la cameriera, dopo avervi gittato uno sguardo.

– Così tardi! – mormorò la padrona, monotonamente. – Andate pure a letto.

– E Vostra Eccellenza? – osò di chiedere la donna, vedendo il viso terreo e udendo la voce infranta di chi ha lungamente singhiozzato.

– Non mi serve nulla – mormorò l'altra, abbassando gli occhi, vergognandosi di aver mostrato il suo dolore.

Ma quella adesso rifaceva il letto disordinato: la mano sentì l'origliere bagnato di lagrime: e scuotendo il capo, con una espressione di rassegnazione, osò di dire, con la familiarità affettuosa delle domestiche napoletane.

– Chi è buona, sempre soffre.

Ah, in quel minuto, quella pietà di una serva le franse il cuore, sentendo tutta la infinita miseria della propria esistenza, tutto l'orribile abbandono, tutta l'acutezza del tradimento. E forse quella serva sapeva tutto, poichè la cieca non era stata che lei; e quella miseria, quel tradimento, quell'abbandono eran commentati da tutti i servi: ed ella era l'oggetto della loro pietà. Chi è buona, sempre soffre; la parola della dolorosa fatalità, considerata umilmente, nell'abbattimento di qualunque speranza, dinanzi al fatto compiuto.

Buona notte e buon riposo a Vostra Eccellenzadisse la povera cameriera, guardando quelle palpebre arrossite, che probabilmente non si sarebbero chiuse al sonno, in quella notte.

Grazie: buona nottedisse Anna, a testa bassa.

Sola, di nuovo. Non aveva avuto il coraggio di chiedere se suo marito fosse rientrato: ma certo egli era ancor fuori, col suo tenace vizio mondano che gli aveva preso i nervi e il cuore. Ma quando una mezz'ora fu trascorsa, di scatto, ella si levò dalla poltroncina, dove aveva aspettato che il tempo passasse. Nella sua camera era acceso il grande lume, dal paralume roseo; ma la cameriera aveva preparata e accesa anche una lampadina da notte, di bronzo pompeiano, una piccola lampada pagana che serviva, certo, nell'antichità, a rischiarare i dolci sonni amorosi delle donne di Pompei. Anna prese questa lampadetta, dalla luce tremolante, e con un passo lievissimo, uscì dalla sua stanza: tutto nell'appartamento era ombra e silenzio. Passando davanti al grande specchio del salone, ebbe un minuto di spavento, vedendo apparirvi una figura nera, dal volto pallidissimo, che tenea nella mano una lampada sepolcrale, mal rischiarante i suoi passi; ebbe paura di se stessa e forse di quello che andava a fare. Ma tutto era inutile ormai, paura e pentimento; ella obbediva a un fatto irreparabile, a una volontà inflessibile. Attraversando l'appartamento, si diresse verso la stanza di Laura: e rapidissimamente, le passò in mente quella notte, quando era salita attraverso le tenebre, sulla terrazza, per proporre a Giustino Morelli di fuggire insieme. Giustino Morelli? Chi era costui? Un'ombra fugace, un morto, certo: una di quelle cose finite, una di quelle persone finite per sempre, attorno a lei. Fuggire? Quando aveva voluto fuggire? A che serve fuggire? Forse che si sfugge al proprio destino? Quel che deve accadere, accadrà. Ella si arrestò un istante, innanzi alla porta della stanza di sua sorella, tal quale come in quella prima notte, poichè ella temeva di violare la santa innocenza di Laura, coll'aspetto folle della propria passione: adesso... adesso tutto era irrimediabile, tutto. Schiuse la porta senza fare nessun rumore, e guidata dalla lampadina di bronzo, giunse presso il letto bianco e verginale di Laura. Come dormiva placidamente, la bellissima Minerva! Le palpebre chiuse avevano la tenuità di un petalo di fiore: tutto il bianco volto, purissimo, era soffuso di un roseo mite: dalle labbra schiuse usciva il calmo respiro, simile a quello di un fanciullo, e appena appena anelava il petto sotto il biancore delle coltri. Una gran serenità si diffondeva in quella leggiadra figura dormiente. Anna, levata la lampada, guardava il sonno quieto di sua sorella.

Guardava quel sonno giovanile, che nessuna delle segrete preoccupazioni quotidiane veniva a turbare, che nessun sogno di tentazione, di sgomento, agitava. E quasi involontariamente piegandosi a guardare quel puro volto dalla carnagione alabastrina che il bel sangue tranquillo e lieto della gioventù coloriva delicatamente, ella riparava con la mano la fiammella della lampadina, perchè non ferisse gli occhi di Laura. Ma ad un tratto, sulle labbra di quella dormiente apparve un sorriso acuto, ineffabile, che le diede ancora una volta, una espressione d'intensa felicità: e Anna rivide tutta la orribile scena, in un minuto secondo di visione; una collera dolorosa le tumultuò, nuovamente, nell'anima quasi atonizzata.

Lauradisse, soffiando la sua voce soffocata e il suo alito caldo, in volto alla dormiente, – Laura.

La bionda sorella ebbe solo un lieve moto delle labbra, ma non si svegliò.

Laura, Lauraproruppe la voce affannosa di Anna.

Allora, la bionda sorella si destò. Si vide innanzi una figura tutta nera, in cui solo il pallore livido del volto spiccava: una figura che pareva alta, alta, avvolta di tenebre, con quella faccia di fantasma che usciva da tutta quell'ombra. La fiammella, nella lampadina, vacillava: e i grandi occhi neri di Anna avevano la fissità vaga e quasi senza sguardo dei morti. E in Laura, levatasi sull'origliere, puntando le mani chiuse sul letto, vi fu un'indicibile contrazione di paura. Non disse nulla: restò stupefatta, immobile. Poi, con uno sforzo supremo di coraggio interiore, la sua fisonomia si ricompose, ed ella guardò sua sorella, senza baldanza ma senza sgomento.

– Sono io, Lauradisse Anna, posando la lampadina sopra una mensola.

– Ti vedo benerispose, con voce chiara e ferma la bionda sorella.

Un silenzio profondo. Ritta, in piedi presso il letto, ammantata nella sua bruna veste, terrea come una agonizzante, Anna non distoglieva gli occhi da Laura: e costei, seduta sul letto, senz'abbassare le palpebre, sopportava quello sguardo, e le sue bianche mani si distendevano sui merletti del candido letto, senz'aver un fremito.

Levati e vieni – disse duramente Anna.

Perchè?

Levati e vieni, Laurareplicò Anna, con maggior durezza.

Dove, Anna?

Levati e vieni, Lauradisse, implacabilmente, Anna.

Laura ebbe un battito di palpebre: poi, superbamente, soggiunse:

– Io non voglio obbedirti.

– Oh tu verrai! – esclamò, con un sogghigno imperioso, Anna.

– T'inganni, non verrò.

– Tu verrai, Laura.

– No, Anna.

– Tu dunque, hai molta paura? – ed ebbe tale uno sprezzo, dicendo queste parole, che esse colpirono Laura come uno schiaffo.

– Eccomi: vengo dove vuoi – disse orgogliosamente la bionda sorella, scivolando dal letto, infilando le pianelle, e cominciando a vestirsi subito.

Anna, in piedi, aspettava. Assai pacatamente, Laura si finiva di vestire: ma quando giunse al vestito di lana bianca, quando si avvolse ai fianchi la cintura di amoerro bianco, Anna ebbe un accesso di collera, così impetuoso, così pazzo, che si prese la testa fra le mani per non vedere. Quattro ore prima, non più di quattro ore prima, in quella veste, Laura era stata baciata da Cesare, sotto i suoi occhi, e più dolce cintura avevan fatto a quel corpo snello le braccia di suo marito – sotto i suoi occhi! Ora, la sorella le riappariva, in quella veste, vivente immagine del tradimento; era lei il fatto, atroce e insopportabile: e quasi che quella divina creatura, nella sua anima infernale, avesse inteso quel tormento novello che ella infliggeva alla donna che aveva tradito, quasi che una bizzarra intuizione le procurasse il piacere di una ingiusta e crudele vendetta, Anna la vide piegarsi e cercare qualche cosa, sotto il guanciale.

– Che fai? – gridò Anna, comprendendo.

Cerco qualche cosa.

E infatti cavò di sotto il guanciale un fascetto di rose bianche invernali, già col fiore abbandonato sullo stelo, quasi appassite: le rose galeotte, che avevano unite, nel peccato di un bacio, le labbra di Laura e di Cesare.

Gitta quei fiori! – gridò Anna.

– E perchè?

Gitta quei fiori, Laura, Laura!

– No – disse quella, fieramente.

– Per la Vergine dei Dolori, te ne scongiuro, Laura, gitta quei fiori!

– Tu mi hai minacciata: non hai più diritto di pregarmirispose pacatamente Laura, passando il fascetto delle rose nella cintura, allo stesso posto dove le aveva quattr'ore prima.

– Oh Dio! – fece Anna, comprimendosi le tempia disperatamente, cercando di riconquistare la propria volontà.

Vi fu, di nuovo, un gran silenzio. Le due figure, una tutta nera, spettrale nel volto, una tutta bianca e serena nella faccia, si trovavano di fronte. Laura aveva intrecciate le mani, quieta, in un'attitudine di riposo: ed Anna fissava quelle mani, che erano state intrecciate così amorosamente, soltanto quattr'ore prima, a quelle di suo marito – sotto i suoi occhi! Ma capiva così bene, che si fissava sui capelli biondi come l'oro di sua sorella, che Cesare aveva baciati, sulle labbra rosse e fresche di sua sorella, che Cesare tante volte aveva baciate, su quegli occhi chiari e sereni di sua sorella, dove le labbra di suo marito si erano posate, capiva che avrebbe smarrito, nel furore sempre rinascente della gelosia, ogni volontà e ogni forza. Anna si irrigidì contro quest'allucinazione gelosa, che le ripresentava, nella figura di Laura, il fatto insopportabile: e decisamente, disse:

Andiamo – senz'altro.

Prese la lampadina pompeiana e si avviò, avanti: ma le spalle erano curve e la testa si piegava sul petto, attraversando quell'appartamento oscuro e silenzioso. Dietro a lei, senz'aver chiesto altre spiegazioni, veniva Laura, snella e leggiadra figura candida, il cui passo aveva un seducente ritmo leggerissimo. Quelle due ombre passarono per tutta la casa, senza scambiare una parola: Anna schiuse la porta della propria camera, e ferma sulla soglia, accennò a sua sorella di entrare. Laura passò, senz'esitare: ma quando udì lo stridore della chiave, due giri, con cui Anna si chiudeva dentro, con lei, ebbe soltanto un battito di palpebre: e la grande emozione non trovò altro segno, nella fiera creatura. Poteva essere il preannunzio della morte, quel giro di chiave: ma ella non tremò. E poi, la stanza di Anna, in ordine perfetto, col suo gran lume che la illuminava in tutti gli angoli, con la sua aria di stanza di donna felice, le diede di nuovo un equilibrio morale.

Siedidisse Anna, tornando a lei senza guardarla.

Temeva, Anna, vedendo quei capelli, quelle labbra, quelle mani di nuovo, l'allucinazione furiosa della gelosia: reprimeva a stento un moto istintivo di collera, vale a dire di strappare dalla cintura di sua sorella, quelle rose già morte, dopo essere state complici del peccato! Erano sedute, adesso: Laura sulla poltroncina accanto al letto, le braccia abbandonate lungo i bracciuoli, tranquillissima: Anna sulla sponda del suo letto, poco distante.

– Io aspettodisse Laura.

– Tu non sai niente, dunque? – chiese, sogghignando, Anna.

– No, non so nulla.

– Non immagini neppure?

– Non ho immaginazione.

– E il tuo cuore, nulla ti dice? Laura, Laura, niente ti dice la tua coscienza?

– Niente – disse l'altra, quietamente, sollevandosi i riccioli biondi dietro l'orecchio.

Oh quel gesto, che Anna aveva veduto nella stanza di Cesare e che la faceva inorridire, di nuovo!

Laura, tu sei l'amante di mio marito! – proclamò Anna, levando le braccia al cielo.

– Tu sei pazza, Anna.

– L'amante di mio marito, Laura.

Va al manicomio, va, sorella: che sei pazza.

– Oh bugiarda, bugiarda creatura, sleale e vigliacca donna che non ha neppure il coraggio del suo amore! – gridò Anna, levandosi in piedi, fiammeggiando dagli occhi.

Pallida, mordendosi le labbra per reprimere la propria collera, anche Laura si era levata: rispose sdegnosamente:

Bada, Anna, bada, la rettorica, in questo momento, è un grave pericolo. Di' quel che devi dire, chiaramente, limpidamente, senza insultare per esaltazione, per istravaganza. Non insultare, così, per la eccitazione della tua fantasia malata, capisci?

– Oh Vergine santa! – esclamò Anna, levando le braccia al cielo.

– Ma lo vedi, che sei pazza? Lo vedi che non puoi dire nulla, per giustificare le tue ingiurie?

– Oh Madonna, Madonna, datemi voi la forzapregò Anna, disperata, torcendosi le mani.

– Lo vedi? – ribattè Laura, in atto di sfida. – Tu mi hai chiamata qui, per vilipendere una innocente!

Lauradisse piano, con voce soffocata e tremante, la povera Anna, – Laura, non mi è stato riferito che tu eri l'amante di mio marito, no; non l'ho neppure letto in una denunzia anonima, no; non è stata la delazione di un servo, no. In tutti questi casi, davanti a un peccato atroce, mostruoso, si ha il diritto di non credere a una denunzia senza nome, a una delazione interessata. Si preferisce non togliere la stima, l'onore, a una persona cara...

– Ebbene, Anna?

– ... Ma io ho visto, io – disse Anna, in preda a una emozione così vivace, che pareva la stessa del primissimo momento, in cui aveva visto il tradimento.

– Che hai visto? – chiese impetuosamente Laura.

Orribile, orribile! – esclamò Anna, ripresa dalla sua allucinazione.

– Che hai visto? – replicò Laura, scuotendo il braccio di Anna.

– Oh che cosa atroce, che cosa atroce! – disse Anna, nascondendo la faccia fra le mani.

Ma Laura, arsa adesso anche lei di collera e di dolore, le tolse le mani dal volto e le disse, sommessamente, ma con una durezza di persona decisa a tutto:

Ora, in questo momento stesso, devi dirmi che hai visto. Capisci?

E l'altra, a quell'impeto, a quel tono minaccioso, rientrò in , divenne livida: e con una freddezza strana in lei, le disse:

– Tu vuoi sapere che cosa ho visto, Laura? E me lo chiedi, con la rabbia della innocenza offesa, della virtù calpestata? Sei in collera, Laura? In collera tu? Che diritto hai di essere in collera e di parlarmi così? Non hai paura? Neppure un minuto di paura, di sospetto, niente? Mi minacci, dici che sono pazza? Tu vuoi sapere che cosa ho visto, e sei così altera, perchè ti credi sicura, perchè mi credi una donna esaltata. Ma per essere sicuri, bisogna chiudere le porte, nei convegni di amore: per essere sicuri, parlandosi di amore, baciandosi, bisogna chiudere le porte, chiudere, Laura, chiudere, per essere sicuri...

– Io non ti capiscomormorò Laura, fiocamente, pallidissima.

– ... questa sera, alle nove, quando... tu eri nella stanza di Cesare... io sono rientrata improvvisamente... non mi aspettavate... eravate soli, sicuri... e ho visto, da una porta...

– ... e che? – disse l'altra, a capo basso.

– Quanto si può vedere e udire. Ricordati.

Laura cadde sulla poltroncina e abbandonò le mani lungo il corpo. La istessa sua umiliazione desolava Anna, più acutamente. Ella fece un giro per la stanza, concitatamente, poi ritornò verso Laura. Quella aveva già rialzata la testa, e pensava: solo, il pallore sul volto persisteva.

Perchè hai fatto questo? – domandò Anna, brevemente.

Laura non rispose: non alzò neanche gli occhi verso sua sorella.

– Non osi rispondere? Ma vedi, che sei vile? Ma vedi, che sei la perfidia istessa? Ma che donna sei tu, dunque? Perchè hai fatto questo?

Quella, che trasaliva a ogni ingiuria, rispose solo:

Perchè amo Cesare.

– Oh Signore, Signore! – gridò Anna, scoppiando in singulti disperati.

– Non lo sapevi? I tuoi occhi non hanno forse visto, le tue orecchie non hanno udito? Forse che una donna come me, va nella stanza di un uomo senz'amarlo? Forse che si lascia baciare, lo bacia, senz'amarlo? E che chiedi ancora? Io amo Cesare.

Taci, taci, tacireplicò Anna, nella immensa confusione della sua ragione.

– E Cesare mi amaconcluse Laura.

Taci, taci, tu sei mia sorella, tu sei una fanciulla, non proclamare così questa infamia! Taci, non dire, che tu e Cesare siete infami!

– Tanto, l'hai visto: io amo Cesare ed egli mi amadisse implacabilmente la fierissima fanciulla.

Infamia, infamia!

– Sarà infamia: ma è così.

Anna aveva rasciugate le sue lagrime: e quella voce di sua sorella, fiera del suo peccato, quelle parole orgogliose del peccato, le facevan perdere i lumi.

– Ma non hai inteso quel che facevi? Non senti che è una infamia? Non capisci quante cose, quante persone hai offese? Non sono io, tua sorella, che tu tradisci?

– Io amavo Cesare, da prima: tu mi hai traditarispose tranquillamente Laura.

Scuse dell'infamia! Io amavo e amo Cesare; tu mi tradisci, amandolo.

– Tu lo ami male e lo secchi: io so amarlo bene.

– Egli è uomo ammogliato...

– Si è ammogliato per forza, Anna.

Infine, è mio marito.

– Oh molto poco!

Laura! – esclamò Anna, ferita al vivo, essa che era tutta una ferita.

– Io sono una ragazza istruitadisse tranquillamente Laura – e mi rendo conto della posizione.

– Ma la tua coscienza? Ma la religione che offendi? Ma il pudore femminile, macchiato da così atroce peccato?

– Io non sono l'amante di tuo marito, lo sai tu stessa...

– Ma lo ami! Ma fremi alla sua stretta di mano, ma lo baci! Ma gli dici di amarlo!

– Ebbene, questo appunto significa non esser l'amante di tuo marito.

– Il peccato è uguale.

– No, non è uguale, Anna.

– È un peccato mortale, solo ad amare l'uomo altrui.

– Ma non ne sono l'amante; sii esatta.

Varietà di vocabolo: non varietà di colpa.

– Anche le parole hanno la loro importanza: sono il segno del fato.

– È una infamiaproclamò Anna.

Anna, non ingiuriare.

Ingiuriare? E forse che questo tuo bel volto così sereno, così puro, è capace di arrossire più, sotto l'insulto? Forse che questa fronte castissima può turbarsi più, per un'ingiuria? Tu hai calpestato l'innocenza ed il pudore, tu, figlia di mia madre: tu hai straziato il cuore di tua sorella, tu figlia della stessa madre, e io t'ingiurio, ecco!

– Tu non hai il diritto d'ingiuriaresoggiunse Laura, abbassando le palpebre sopra il perverso lampo dei bellissimi occhi.

– Non ho il diritto dinanzi al tradimento? Non ho il diritto dinanzi al disonore?

– Se ti rammenti bene, non ne hai il dirittoreplicò Laura, con un sogghigno.

– Che mi debbo rammentare? – chiese impetuosamente Anna.

– Un sol fatto. Tu, fanciulla, come me, hai abbandonato la casa paterna, sei fuggita con un uomo che amavi, una persona qualunque, una creatura povera e oscura. Tu hai, allora, ingannato me, Cesare e tutti quanti: tu hai, con quella fuga, disonorato le tombe di tuo padre e di tua madre, tu hai disonorato il tuo nome, che è anche il mio...

– Oh Dio, oh Dio, oh Dio... – andava mormorando Anna, a ogni nuova accusa.

– Tu hai passato una giornata intera, fuori di Napoli, in un albergo di Pompei, sola, per una giornata intera, con l'uomo che tu amavi, sola, in una stanza chiusa...

– Io non sono stata l'amante di Giustino Morelli! – gridò involontariamente Anna, il cui sguardo prendeva il colore della follia.

– Già: e neppure io di Cesare Diasribattè ridendo malvagiamente Laura.

– Io non sono stata l'amante di Giustino Morelli! – ripetette l'altra, sentendo la follia sconvolgerle le ultime facoltà spirituali.

– Io non ero dietro la porta, come te, per sapere la veritàconcluse, perversamente ridendo, Laura.

– Oh crudele e perversa, crudele e perversa! – disse l'altra, con tristezza e con sdegno, principiando a girare per la stanza, di nuovo, simile a una leonessa chiusa in gabbia.

– E se ti vuoi rammentare bene, per la giustizia, Anna, in quel giorno, Cesare Dias corse a salvarti; caritatevolmente, senza dirigerti una sola parola di rimprovero, semiviva, egli ti ricondusse alla casa che avevi abbandonata, caritatevolmente, senza ingiuriarti, senza rimproverarti, io ti ho tese le mie braccia di sorella: e caritatevolmente, nella tua lunga infermità, ti abbiamo assistito: e non ti rimproverammo giammai! E lo vedi, lo vedi, tu non sei altro che una creatura ingiusta e sconoscente.

– Ma tu mi hai ferita nel mio amore, Laura! Ma io adoro Cesare, ma io sono orribilmente gelosa di lui, ma io non resisto all'idea di questo amor tuo, io non posso ricordare quei tuoi baci, senza sentire la pazzia salirmi al cervello! Oh Laura, Laura, tu che eri così pura e così bella, tu che eri degna di un uomo giovane bello e ricco, come hai potuto gittare la tua gioventù, il tuo onore, per Cesare?

– E tu non lo hai amato così, forse? E tu non sei giovane e non lo hai amato forse, e non volevi morire forse, per lui, se Cesare non ti sposava? Io ti ho imitata, ecco. Come tu lo ami, io lo amo, Anna. Siamo sorelle e una istessa passione ci brucia il sangue.

– Non dire questo, non dirlo. Il mio amore durerà quanto la mia vita, Laura.

– Ed il mio anche.

– Non dire, non dire.

Fino alla morte, Anna.

– Non dire!

– Il mio sangue è simile al tuo, i miei nervi sono simili ai tuoi nervi, il mio amore è ardente come il tuo, la mia anima è inebbriata di passione come la tua, noi siamo figlie di Francesco Acquaviva e di Caterina Acquaviva: ebbene, Cesare ha affascinato te, e Cesare ha affascinato me.

– Oh Madonna mia, Madonna mia, io debbo uccidermi, dunque? Debbo dunque morire?

– Che! – fece Laura, con moto di sprezzo.

– Io mi ucciderò, Laura.

– Chi lo dice, non lo fa.

– Puoi ingannarti, creatura sprezzante e perversa!

– Chi lo dice, non lo fa – replicò ridendo amaramente Laura.

– Ma tu capisci, che io non posso sopportare questa idea del tradimento? Capisci che debbo amare Cesare io sola, che Cesare è mio, e che non lo voglio cedere a nessuna? Capisci che io non ho scampo, non ho conforto, non ho consolazione che in quest'amore? Non vedi che non ho altro?

Luigi Caracciolo ti ama, però... – disse sorridendo Laura.

– Ma che mi dici?

– Tu potresti amarlo... – soggiunse, sempre sorridendo.

– Tu mi proponi una infamiadisse gravemente Anna.

– Ma Cesare ama me e non te, ma io amo Cesare, ma Caracciolo ti ama: ebbene, perchè non amarlo?

Perchè è una infamia, e perchè sono sette ore che tu mi fai ribrezzo, Lauradisse gravemente Anna.

– Tu ricominci a insultare, Anna. La notte è alta, io me ne vado.

– Non andartene ancora, Laura, pensa che terribile notte è questa per me. Senti, Laura, e chiama in aiuto tutta la tua bontà. Ti ho insultata, è vero, ma tu non puoi sapere che cosa è la gelosia, non puoi immaginare quale insopportabile tortura sia la gelosia! Chiama in aiuto la tua bontà, Laura. Pensa che lo stesso seno ci ha generato, che le stesse mani materne ci hanno accarezzato, pensa che abbiamo camminato insieme, nella vita, Laura, Laura, sorella mia! Vedi, tu mi hai tradita, tu mi hai offesa, io ho sofferto in queste sette ore quanto umanamente si può soffrire, tu non sai che cosa è la gelosia! Non fare atto d'impazienza, ascoltami, siamo nell'ora nostra più terribile, non sorridere, io non esagero, ascoltami bene. Laura, quanto hai fatto io lo dimentico, io ti perdono, senti, ti perdono come Cristo perdonava ai suoi flagellatori, senza però spetrarne il cuore: ma il tuo cuore è essenzialmente buono, tu sentirai tutta la tenerezza, tutta la umiltà che vi è nel mio perdono.

E quasi che ella stessa dovesse chiedere pietà per una sua colpa, le sue ginocchia si piegarono, innanzi alla colpevole sorella; ella ne prese le mani, carezzandole, baciandole, bagnandole delle sue lacrime. Quella ebbe un minuto di pallore intenso, vedendosi inginocchiata, davanti e plorante, quella donna che aveva offesa così crudelmente; e chiuse gli occhi come se svenisse. Ma tanta era la forza di quell'animo, che seppe vincere subito la commozione. Lasciò sua sorella inginocchiata, abbandonò a quelle lacrime e a quelle carezze le sue mani, senza parlare, per un poco. Poi, piano piano, venendo alla risoluzione suprema della loro esistenza, ella domandò:

– Che cosa chiedi, in cambio di questo perdono? – ed ebbe l'aria di accordare una grazia.

Laura, Laura, tu devi essere buona e grande, poichè io ti ho perdonato...

– E che domandi per questo perdono?

– Tu non devi amare più Cesare. Devi coraggiosamente strapparti dall'anima questo impuro amore che la deturpa: devi non amarlo più. E allora, non solo il mio perdono sarà completo, assoluto, ma tu troverai in me la più amorosa, la più tenera fra le sorelle; io non farò che esaudire il mio voto ardente, da anni, di poterti dimostrare quanto ti voglio bene; io sarò accanto a te il cuore più devoto e più efficace, nel desiderio di vederti felice. Ma devi essere buona e forte, Laura, devi ricordarti che mi sei sorella, devi dimenticare Cesare.

Anna, non posso.

Ascolta, ascolta, non deciderti ancora, non dire la parola ultima, la parola tremenda. Pensaci, Laura, è il tuo avvenire, la tua vita che giuochi, a questo amore: tetro avvenire, se persisti, fatale idea di morte, se persisti! E invece, se dimentichi, se un sorriso d'amore innocente, casto, buono, viene a illuminare la tua esistenza, vedrai che pace, vedrai che serenità. Si troverà, certo, si troverà un'anima di uomo che sia alla tua altezza, che intenda, che ti renda felice, che tu possa amare pienamente, nella santità del dovere compiuto. Tu sarai una moglie felice, l'uomo che ti sposerà sarà un marito felice, tu sarai madre, avrai dei figlinoli... tu li avrai, tu! Ma non devi amare più Cesare.

Anna, non posso.

Laura, non deciderti ancora, per carità, odimi, bisogna trovare una via, uno scampo: tu andrai a fare un viaggio, sì, un lungo viaggio, all'estero, ciò ti distrarrà, pregherò la zia Sibilla di accompagnarti, essa non ha nulla da fare, è vedova, verrà; tu viaggerai, non puoi credere che assopimento di dolori è il viaggio: tu vedrai dei paesi nuovi, dei paesi belli, dove il tuo spirito assorgerà dalle miserie quotidiane ad elevate sfere. Laura, Laura, vedi come ti prego, vedi come ti imploro, abbiamo lo stesso sangue nelle vene, siamo creature della stessa madre, tu non devi amare più Cesare.

Anna, non posso.

Anna si slanciò contro la sorella, ma quando fu faccia a faccia con lei, ebbe un moto d'orrore e si arretrò: andò fin verso il vano del balcone e vi si fermò, quasi guardasse nella via, nella grande ombra della notte. Quando ritornò presso sua sorella, il suo volto era chiuso, freddo, austero. Venne a Laura; e a costei parve leggere una minaccia nel nero sguardo.

– Questa è la tua decisiva parola?

– Questa.

– Non credi di poterti pentire, di cambiare?

– No, non lo credo.

Sai tu quello che fai?

– Lo so.

– Ed affronti questo estremo pericolo?

– Dov'è il pericolo? – chiese Laura, levandosi.

– Non temere, non temereriprese Anna, portandosi il fazzoletto alla bocca e mordendolo. – Ti chiedo, se non ti sembra un estremo pericolo, che due donne, come me, Anna Dias, come te, Laura Acquaviva, debbano vivere insieme con lui, nella stessa casa, e amarlo, con la stessa passione?

– È certamente, un estremo pericolodisse con lentezza Laura, in piedi, guardando sua sorella negli occhi.

Lasciami mio marito, Laura, – gridò Anna, impetuosamente.

Riprendilo, se ne hai la forza. Ma tu non l'hai mai avuto, mai.

– Tu sei un'infame, vattenedisse Anna, stringendo i pugni fino a ficcarsi le unghie nella carne.

– Tu m'hai chiamata. Sono venuta per mostrarti che non ho paura, per nulla.

Vattene, infame, infame, infame!

– Ah uccidimi, ma non dire più questa parolagridò Laura, arrivata alla disperazione.

Meriteresti che io ti uccidessi, è vero? Lo meriteresti, per tutte le anime dei nostri morti che ci ascoltano, per la Madonna, che, con loro, inorridisce nel cielo, lo meriteresti!

– Ma Cesare mi piangerebbe assai – disse Laura, di nuovo padrona di .

– È verosoggiunse Anna glacialmente. – Vattene, dunque, vattene una volta!

Addio Anna.

Addio Laura.

Senz'affrettarsi, ma senz'avere neppure l'aria di persona stanca, voltò le spalle alla sorella e se ne andò, diritta e snella nella sua veste bianca, quasi non facendo rumore, col suo bel passo ritmico. La mano sicura fece girare la chiave nella serratura: ma sulla soglia ella si fermò e guardò sua sorella, quasi involontariamente. Anna stava ferma in mezzo alla stanza, le braccia prosciolte lungo la persona, il capo chino, senza colore sulle guance, senza espressione nello sguardo, violacee e un po' schiuse, in espressione di stanchezza, le labbra. La esitazione di Laura fu fugacissima. Ella uscì, dando le spalle a quel dolore e richiuse la porta riprendendo nell'ombra il cammino della sua stanza. Anna, nella sua immobilità non ebbe l'aria neppure di aver udito quella chiusura di porta. Era sola, ormai. Fra , diceva una preghiera, mentalmente, a parole confuse e smozzicate; ringraziava la Madonna che l'aveva salvata da una sventura, in quella notte. Poichè, nell'accasciamento immenso che adesso la prostrava, le restava, della terribile scena avuta con sua sorella, solo un ricordo pauroso. Quando aveva pregato sua sorella, chiedendole la grazia di non amare più Cesare, offrendole in cambio tutti i beni dello spirito e del corpo, tre volte Laura, ostinatamente, ciecamente, le aveva risposto: non posso. Ebbene, alla terza volta, quelle parole, quella voce che le pronunciava, quelle labbra da cui uscivano, quella gola bianca che si gonfiava di orgoglio, profferendole, tutto ciò le aveva ridestato tale un morboso furore di gelosia, che aveva visto una gran nuvola rossa innanzi agli occhi, parendole che tutto quel sangue sgorgasse da una gran ferita, aperta da lei nel collo bianco di sua sorella, un fiume rosso, un fiume di sangue che lasciasse la bianca creatura esangue, esanime, impedendole di poter dire mai più, mai più che ella amava Cesare e che non voleva finire di amarlo. Ah un minuto, un minuto l'omicidio aveva soffiato il suo alito in quella povera anima conturbata ed ella aveva voluto uccidere la figliuola di sua madre! Adesso, con gli occhi spenti, pure sentendosi perduta, morente, in fondo a un abisso, ella faceva una profonda preghiera di ringraziamento al Signore, poichè Egli aveva diradata quella nebbia rossa, poichè le aveva permesso di soffrire senza vendicarsi. Pian piano, cadde sulle ginocchia, e congiunte le mani, ridisse tutte le antiche, ingenue preghiere della sua infanzia, le sante preghiere dell'innocenza: pregando il Signore anche una volta, che nel resto del suo disperato viaggio, attraverso i desolati paesi senza speranza, attraverso tutte le insoffribili spine che le laceravano il volto e le mani, ella potesse essere sempre quella miserabile creatura che era stata, capace di sopportare tutto il male, incapace di farne. E in quel desiderio di soffrire senza vendicarsi, ella ebbe come un approfondimento di anima, tanto che le parve di entrare nella regione degli estremi distacchi.

Quando ella tentò di rialzarsi da quella disperata preghiera, in cui tutta la sua infinita bontà e la sua infinita debolezza muliebre si erano confuse, nell'abdicazione della vendetta, ella non ebbe la forza di sollevarsi dall'umile giacitura, in cui aveva ringraziato Iddio di non aver ucciso sua sorella. Uno sfinimento succedeva alla violenza per cui ad Anna era parso, parlando con Laura, di vivere dieci volte di collera, di gelosia, di amore, di disperazione, in una vita sola; e nella mancanza di ogni forza, ormai, e di ogni volontà, ella mormorava, quasi senza più intenderle, le sacre parole delle orazioni. A stento, vincendo con un grave sforzo la vertigine che la faceva vacillare, ella potette trascinarsi sino al suo letto, e giacervi distesa, con l'abbandono di un corpo morto. Non trasaliva, non sussultava, tutte le sensazioni che avevano fatto vibrare altamente il suo sangue e i suoi nervi, erano ormai spente: nella profonda atonia di ogni fisica volontà, solo il pensiero vigilava, inguaribile tortura. Ed ella, giacendo semiviva sul suo letto, chiusi gli occhi, pensava, veramente, che sua sorella Laura l'aveva atterrata. Adesso riudiva nelle sue orecchie tutto quel lungo e concitato dialogo, passante dalle lagrime all'ira, dalla gelosia alla pietà fraterna; rivedeva quella scena, rivedeva il volto bianco, bello e pure austero di sua sorella, e il sorriso cinico che ne deturpava le purissime labbra, e la impassibilità di quella figura innanzi a ogni emozione, di compassione, di paura, di vergogna: e sentiva che sua sorella l'aveva atterrata. Anna era andata a lei, forte del suo diritto calpestato, forte del suo amore offeso, forte per la malvagità del tradimento subito, e avrebbe dovuto vedersi piegare innanzi, rossa di umiliazione, quella fronte superba; avrebbe dovuto veder tremare quelle mani, chiedendo perdono a lei, avrebbe dovuto udire dalla bocca della traditrice, la parola del pentimento e del ravvedimento. E per uno strano mistero, per un mistero dolorosissimo, la peccatrice non aveva avuto la punizione del suo peccato, essa aveva avuto l'audacia di difendere il proprio peccato, essa aveva avuto il feroce coraggio di non cedere, ferma nella sua infamia, invocando col suo altero contegno, una lotta fraterna, una catastrofe. Anna intendeva che ogni sua frase, buona o irosa, non aveva trovato nessuna eco di generosità o di affetto nel cuore di sua sorella: Anna capiva che, dal principio alla fine, ella aveva sbagliato tutto, anche questa volta, e non aveva saputo bene punire, bene perdonare.

– Io non l'ho uccisa: ed ella mi ha vintopensava ogni tanto, in preda a un disperato pensiero.

Disperato pensiero, poichè infine, la ragione del giusto e dell'onesto è unica, poichè ella, Anna, era nella verità, nella giustizia e nell'onestà, amando suo marito sino alla follia e volendo essere amata da Cesare; poichè Laura era fuori di ogni legge umana e morale, amando un uomo non libero, amando il marito di sua sorella, quasi un fratello: poichè, infine, lei, Anna, aveva ragione, innanzi a Dio e innanzi alla coscienza degli uomini, innanzi a Cesare e innanzi a Laura, ella aveva ragione, Anna, e se avesse punita l'infame, tutti i tribunali, umani e divini, le avrebbero dovuto dare ragione. Il suo amore per Cesare era così grande e sincero, e il peccato di Laura feriva così ogni legame di affetto e di decoro, che Anna vedeva giganteggiare in il concetto del proprio diritto. L'avesse uccisa quando ella rifiutava di dimenticare l'amore di Cesare, nessuno avrebbe potuto, umanamente, darle torto.

– Eppure io non l'ho uccisa ed ella mi ha vintopensava disperatamente.

Cercava la bizzarra, ignota causa di questa immensa disfatta, la cercava, in preda alla disperazione delle anime buone e giuste che vedono trionfare la malvagità e la ingiustizia, e non trovava nulla, no, nulla, poichè non si capovolgono le sante leggi della coscienza, non vi sono transazioni col peccato, poichè Anna soltanto aveva ragione, secondo il cuore e secondo la legge. Nella prostrazione delle sue forze, dentro di , rinasceva l'idea atroce della insopportabilità di quel dolore, assai più forte di prima, quando ancora non aveva parlato con Laura. Prima, ella aveva una idea, così tumultuaria del fatto ed era anche tanta la sua stupefazione, che non aveva potuto giudicare l'entità dell'offesa, non aveva potuto analizzare tutta la infamia del tradimento. Ma ora... in un abbattimento del suo fisico, senza singhiozzi, senza lacrime, senza scoppii d'ira, ella vedeva perchè il tradimento era insopportabile, ella soffriva con una perfetta coscienza di quello che era la sua ferita, ella sapeva la larghezza e l'inguaribilità della piaga.

Prima di parlare con Laura, ella era nell'ebetismo di un colpo sul cervello, e, in fondo a tutto, viveva anche una speranza: ma ora... ora il tradimento era veramente, realmente atroce, insopportabile, poichè sarebbe durato, questa notte, domani, sempre, senza rimedio, senza pietà per la tradita. Ah certo nel cuore di Laura la passione aveva portato uno sconquasso, tanto da farle perdere ogni senso fraterno, ogni gentilezza muliebre, ogni delicato pudore di fanciulla, tanto che si era vista innanzi, implorante, la donna tradita, e il suo cuore non si era infranto di tenerezza: certo in quell'anima di donna che non aveva mai pianto, dubitato, sofferto, amato, la furiosa passione doveva rumoreggiare, nel fragore della tempesta: certo in quel cuore chiuso, in quel cuore freddo e scettico, la passione aveva fatto germogliare tutti i sentimenti di orgoglio, di ambizione femminile, di vanità, tutta una volontà di vivere e di trionfare contro la felicità e contro l'amore di tutti, lottando per la propria passione.

Vinta, vinta, vintapensava Anna, avendo lo strazio incommensurabile degli esseri perduti, a cui non isfugge più nessuna delle amarezze della loro perdita.

Una feroce ingiustizia, dunque, si consumava, così, ed ella non aveva trovato, in se stessa, la forza morale per reagire: per la terza volta, nella sua vita, quando si era trattato di salvare la propria esistenza da una tragedia spirituale, ella aveva ceduto, fragile canna che il vento della bufera abbatteva. Nella fatale giornata di Pompei, adorando Giustino Morelli, e mentre egli l'amava con tutte le sue forze, ella non aveva trovato tanta volontà da non farsi abbandonare da lui, sola, perduta, semiviva, in una stanza d'albergo, avendo tutte le apparenze della colpa: ed ella aveva ragione in quel giorno, perchè amava, ed era innocente, ed era bella! Nella sera fatale di Sorrento, quando Cesare Dias, glacialmente le aveva offerto il mefistofelico patto, per cui ella rinunciava all'amore, alla dignità femminile, a ogni manifestazione di affetto, a ogni diritto di donna e di moglie, in quella sera ella non aveva avuto tanta volontà di vincere quel fascino, ella non aveva osato di respingere quel patto di perversità e di corruzione, ella aveva detto di sì, ciecamente, bestialmente, giuocando il suo avvenire e la vita: ed anche allora, essa era la creatura più appassionata, più entusiasta, essa amava con un abbandono supremo, ed aveva dalla sua la immensa ragione della passione – e a Sorrento come a Pompei, ella era stata vinta, vinta da chi aveva torto, da Giustino Morelli che non sapeva amare, da Cesare Dias che non voleva amare.

E in quella notte terribile, per la terza volta, avendo dalla sua parte il più alto grido della coscienza offesa, avendo per tutte le più pure forze dell'anima violate, essendo una moglie innamorata e una sorella devota, tradita da suo marito e da sua sorella, potendo vendicarsi senza timore di esser punita, essendo nella ragione, infine, per la terza volta, ella non aveva indotta Laura a pentirsi del peccato, a fuggire il peccato. A Napoli, come a Pompei, come a Sorrento, ella era stata vinta da Giustino Morelli che non sapeva amare, da Cesare Dias che non voleva amare, da Laura Acquaviva che non doveva amare. Sempre, ella aveva avuto ragione, contro loro: ma, in verità, l'avevano vinta sempre.

– Ma perchè, ma perchè? – si chiedeva ella, nella desolazione di tanta sconfitta.

Non sapeva. Tutto ciò era così contrario alla legge dell'amore e della vita, era così contrario a ogni idea di rettitudine e di morale, era tale un crollo d'ogni santo principio di equità, che ella non sapeva. Ella vedeva soltanto il fatto, lucido, crudele, inesorabile, attraverso gli anni, le persone, le passioni: la disfatta, sempre la disfatta per lei, che amava, che si dava, che chiedeva solo l'amore. E sulla loggia di Sorrento, quando Cesare le aveva detto la parola della felicità, non era stato quello suo un miserabile e vigliacco trionfo, una vittoria pagata a prezzo delle più sublimi rinunzie? E a che serviva cercare le cause dell'irreparabile fatto? Era così schiacciante nella sua monotonia questo fatto terribile, era così veramente implacabile nella sua fissità, che ella preferiva credere a una fatalità.

Era destino. Una forza arcana combatteva contro lei, contro ogni suo sforzo di passione. Nulla le sarebbe riescito, giammai, amando, anche in altri paesi, in altri ambienti, con altre persone; ella portava in , avvinghiata alla propria vita, quella fatalità; ella l'avrebbe trascinata dovunque, al glaciale polo, negli ardenti tropici, fra la gente dal cuore frivolo, fra la gente dal cuore profondo. Era destino che ella dovesse esser vinta. A che indagare? E il suo abbattimento diventò simile a un torpore, come coloro che sulle altissime nevi, circondati dai pericoli delle bufere, delle valanghe, dei precipizi, si addormentano nel letale sonno che il ghiacciaio. Sarebbe inutile resistere alla fatalità delle vette incommensurabili dove, se non vi uccide la tormenta, vi ucciderà la caduta nell'abisso, o vi adagerete nel letargo mortale, mentre l'altra neve candidissima viene ad adagiarsi su voi, e vi ricopre, e vi soffoca. Anna aveva, adesso, il senso dell'ineluttabile. E nel suo segreto, annullata ogni volontà, straziata sotto il peso dell'arcana forza, ella pregò, perchè l'ultima parola le fosse detta; pregò con tanto ardore, invocò la liberazione con tanta intima passione, che ne rimase estenuata.

E solo dopo un'ora, macchinalmente, quasi obbedisse a una voce ch'ella sola udiva, si levò dal letto.

Cerchiamo l'ultima parolapensava.

Ogni tanto, nelle sue mosse di statua che camminava, si fermava indecisa, quasi non rammentasse più quel che doveva fare: poi si riaveva, d'un tratto, come se le rotelline interiori di quel meccanismo ricominciassero a girare. Così, andò prima a vedere che ora fosse: erano le quattro del mattino, la notte d'inverno era altissima e fredda. Si fermò rammentandosi una notte d'inverno in cui era andata, fra l'ombra e il freddo, sulla loggia di piazza Gerolomini a parlare d'amore con Giustino Morelli. Quanti anni! Quattro anni, quaranta anni, quattrocento anni, da allora, ma sempre perduto, l'amor suo e il suo dolore, sempre. Automaticamente, andò presso la scrivanietta, si sedette, e appoggiata la faccia alle mani, ebbe un lungo minuto di stordimento, non sapendo più che cosa fosse venuta a fare, vicino. Poi prese un fogliettino di carta e vi scrisse qualche parola, sopra: poi rileggendolo, le dispiacque, essa lacerò il foglietto e lo buttò via. Finalmente, dopo avere scritti e lacerati altri due o tre foglietti, ella versò dell'arena d'oro su queste linee:

«Cesare, debbo dirti qualche cosa, subito: appena avrai lette queste parole, in qualunque ora della notte, della mattina, vieni in camera mia – Anna».

Chiuse la letterina in una busta e vi scrisse su l'indirizzo a suo marito. Uscì dalla sua stanza nel corridoio e andò a quella di suo marito. Era chiusa a chiave, la porta. Non si vedeva lume, attraverso le fessure: non si udiva rumore, dentro.

Si appoggiò un minuto alla porta, sentendosi svenire. E pensò di nuovo: mentre cercava riunire le scarse sue forze fisiche, e un'altra notte simile, in cui piena di giovanile passione, con l'ardente impazienza dell'amore, ella era venuta nella stanza dell'amor suo, qui, in questa stanza ad aspettarlo, col palpito della felicità imminente: ed ella aveva consumate le ore lunghe, fremendo e desolandosi in quell'infinita attesa, per vedere rientrare al mattino, sfinito, esausto, quel simulacro d'uomo, che è un uomo al ritorno di una veglia di giuoco o di amore. Anche quella notte, cominciata con le più balde speranze di vittoria, era finita, per lei, con una disfatta.

– Ho sempre perdutopensava ancora con una desolazione che non aveva più confine, ma che non poteva strapparle più una lacrima, un sospiro.

Adesso, egli chiudeva addirittura quella porta contro lei, trattandola come una estranea, quando, dieci ore prima, aveva lasciato tutte le porte aperte, per dire a sua sorella che le voleva bene e per baciarla sulle labbra. Un fatto così inesorabile, quella disfatta nelle piccole e nelle grandi cose, negli struggimenti quotidiani, come nella catastrofe! Ma poichè ella doveva inchinarsi a una forza ignota, poichè ella doveva sapere da altri, non da se stessa, il motto decisivo del proprio destino, ella cavò dalla cintura il bigliettino che aveva scritto a Cesare e piegandosi, lo passò sotto la fessura della porta, spingendolo molto, perchè egli potesse vedere quel biancore, sul tappeto.

        Cesare deve dirmi l'ultima parolapensò.

Ancora un istante, spaurita da uno sgomento oscuro, all'idea che tutto, tutto era nelle mani di Cesare, restò presso quella porta serrata, immagine di un cuore chiuso per sempre: se ne staccò a forza, consumando le sue ultime, miserabili forze, a ritornare nelle sue stanze. Ivi, ancora, rientrando, ebbe un altro ricordo, ma questa volta vicinissimo, il ricordo della scena che aveva avuta, con sua sorella, fra il pianto e le grida, fra le preghiere e le minacce: e in ultimo non aveva ella tre scongiurata sua sorella, a non amar più suo marito? E tre volte ella aveva risposto, ineluttabilmente, che non poteva, non poteva, non poteva: dentro, due ore prima, non era un sogno, era un fatto, nella sua implacabilità, nella sua ineluttabilità.

– L'ultima parolapensava Anna.

Si distese sul letto, senz'aver potuto svestirsi del suo lungo abito, che la copriva come una coltre funeraria. Cominciava per lei una veglia lunga, nel gelo, nella solitudine, nella gran ruina di quel che aveva amato, mentre ancora alta, in lei, ardeva la vampa immortale della sua passione. Ed ebbe come un desiderio più profondo di desolazione, un desiderio più acuto di dissolvimento, anche nell'ombra. Spense il lume: e le tenebre circondarono, col loro annientamento, quel corpo di dolori, quell'anima agonizzante.

 

V.

 

Quante volte aveva fissati gli ardenti occhi al balcone di cui aveva lasciato socchiuse le imposte, aveva visto una fascia di luce scialba allungarsi nella stanza, una luce bigia e triste che non si effondeva e che pareva quella di una lunghissima e gelida alba, dove il sole non veniva a metter gaiezza. Era morto, dunque, il sole? Anna si levò dal letto, d'un tratto solo, meravigliata di trovare le sue forze fisiche ringagliardite da quelle ore, in cui ella aveva giaciuto, vegliando nell'ombra: andò ad aprire il balcone, ansiosa del sole. Ma la mattinata era bigia, nel cielo e nel mare: le nuvole lente si abbassavano sulla collina di Posillipo, tingendosi del color del piombo e un grave vento sciroccale soffiava. Parea che su tutto il paesaggio napoletano, il vento fastidioso avesse cosparso della cenere. Nella piazza della Vittoria erano rari i viandanti e laggiù, nei viali della Villa, si vedeva appena qualche solitario passeggiatore. Tutto il mare sembrava una vastità di cenere morta. La palma del giardino, in mezzo alla piazza, muoveva i suoi lunghi rami languenti, dalle foglie morte nel freddo invernale. Anna si trasse indietro, subito. Le bruciavano gli occhi, dalla insonnia: e intanto un peso di piombo le si aggravava sulle palpebre: era il solo segnale della stanchezza, in lei. Passò nel suo spogliatoio e immerse la faccia nell'acqua fredda, tenendovela, sentendo il grande ristoro di quel fresco, sulla pelle, nel cervello. E lentamente, senza quasi guardare, con una incertezza di movimenti da sonnambula, ella pettinò i suoi lunghi capelli neri che non aveva mai affidati alla mano di una cameriera, e li raccolse in una grossa treccia, sulla nuca, passandovi dentro un grosso spillone d'oro, per reggerli meglio: e così, man mano, si spogliò di quella veste di velluto nero, che ella aveva trascinato sul suo povero corpo tormentato, per tutta una notte di dolori, e si vestì di un abito di lana nera, tutto ricco di perline nere scintillanti, un abito per uscire a piedi, di mattina. Voleva uscire, forse? Ella non ne sapeva nulla, non pensando, non volendo niente. Si era vestita, così, per quel bisogno istintivo femminile di occuparsi, in certe ore, della propria persona. Non sapeva se sarebbe uscita o se sarebbe restata in casa. E quando andò a chiudere il goletto del suo vestito nero, col suo ricco e grosso spillo, un trifoglio formato da tre perle nere, un dono fattole pel suo matrimonio, da sua sorella Laura, ne trovò una mancante, di perle. Il beneaugurante trifoglio era deturpato: e il suo fascino era spezzato.

– Che importano i trifogli e i fascini... – ella disse, fra .

E se fino a quel momento ella non aveva pensato, bastò quella perla perduta e la sua triste riflessione per ricondurla alla sua desolazione notturna. Fiaccata, come da un colpo di martello sul capo, dovette sedersi. In quel momento suonavano le undici al suo orologetto e si bussava discretamente alla porta. Ella non trovò voce da rispondere, guardando con gli occhi stralunati quella porta, dove si bussò per la seconda volta.

– Avanti – ella disse, fiocamente.

Cesare entrò, riposato nel volto, sereno, pronto anche lui per uscire, anzi portando il cappello e la mazzettina di ebano in mano.

Buon giorno: esci? – le domandò, con la sua voce tranquilla.

– No... non so – ella rispose, con un gesto vago. Di nuovo, come nella sera innanzi, tutti i nervi di lei tremavano, guardando il nobile e consumato volto del traditore, un volto così quieto e quasi ridente!

– Volevi dirmi qualche cosa? – egli chiese, con un lievissimo corrugamento della fronte.

– ... sì.

– Son rientrato tardi... e non ho voluto disturbarti – egli disse, prendendo una sigaretta e chiedendole con gli occhi il permesso di accenderla.

– Non mi avresti disturbata – ella soggiunse, con una certa fermezza.

– Non sarà cosa di grande importanza, credo, – ribattè lui, ma senza dare nessuna espressione alla sua voce.

– È cosa di grande importanza, Cesare.

– Al solito – egli disse, con un'ombra di sorriso.

– Ti giuro sulla memoria di mia madregridò ella – che niente è più importante!

Perdio! – esclamò lui, ironicamenteatto terzo, scena quarta.

Scena ultimadiss'ella, sordamente, strappando qualche perlina del suo vestito e frantumandola fra le dita.

– Meno male, che siamo alla catastrofe: il dramma era lungo, cara – egli disse, battendo la sua mazzettina di ebano sulla gamba.

Abbreviamo, Cesare. Ti debbo chiedere una grazia. Vuoi farmela?

Chiedete, o bella dama: e malgrado che ieri sera mi abbiate chiusa la vostra porta, eccomi pronto.

– Che dici? Voglio una grazia, Cesare.

– E chiedila, dunque, che debbo uscire.

– Voglio fare un viaggio di un anno, con te.

– Una seconda luna di miele? Non si è mai visto.

– Un viaggio di un anno, intendi? Mi porterai come un compagno, come un amico, come un servo, per un anno, lontano di qui, lontano assai.

Portando con noi la sorella, la istitutrice, il cane, il gatto e tutto il serraglio delle belve?

– Noi due, soli – ella disse, recisamente.

– Ah! – disse lui, senz'altro. Ma pensava.

– Che decidi?

– Ci penserò.

– No: devi decidere subito.

– Quanta fretta! Ci minaccia qualche epidemia?

Decidi, adesso.

Decido di no – egli disse, senz'altro.

– E perchè? – chiese ella, di nuovo orribilmente pallida.

Perchè, no.

Dimmi la ragione.

– Non ho voglia di viaggiare.

– Ti è sempre piaciuto.

Adesso non più. Sono stanco, sono vecchio, resto a casa mia.

– Io te ne prego, andiamo via, lontani assai.

– Ma perchè vuoi andare via?

Ascolta, non domandarmelo; e dimmi di sì.

Perchè vuoi andar via, Anna?

– Così: voglio andare: fammi questa grazia.

– La signora fugge qualche pericolo della sua virtù? Qualche amore infelice?

– È in pericolo qualche cosa di più che la mia virtù: e io fuggo un amore infelice, Cesaredisse ella, gravemente, chiudendo gli occhi.

Cielo! E io vorrei mettermi in queste tragiche complicazioni? No, Anna, no: io non mi muovo.

– Per qualunque preghiera io ti facessi, tu diresti sempre di no, è vero?

Direi sempre di no.

– Neanche se io te lo chiedessi sul punto di morire?

– Per fortuna, stai benone in salute – e la sogguardò, sorridendo un poco.

– Tutti possiamo morire, da un minuto all'altro – ella disse, semplicemente. – Andiamo via insieme, Cesare.

– Ti ho detto di no: ed è no, Anna. Non cercare di piegarmi, sai che è inutile.

– Allora fammi un'altra grazia. Questa, me la farai!

Sentiamo.

Andiamo a stare soli, ai Gerolomini.

– In quella brutta casa?

Restiamo qui, soli, allora.

Soli, come?

– Noi soli, noi due.

– Senza Laura?

– Senza Laura.

– Ah! – egli fece, soltanto.

Ella lo guardava, ansiosamente, e nei bruni occhi egli avrebbe dovuto leggere la dolorosa verità. Ma egli non aveva la carità delle anime amorose, che risparmiano queste amarissime confessioni: e forse gli piaceva, per misteriose ragioni, che Anna le dicesse tutte.

Sii lealeriprese Cesare, con una nuova gravità nella voce. – Tu vuoi separarti da tua sorella?

– Sì.

– E perchè? Dimmi la ragione.

– Non posso dirla. Voglio separarmi da Laura.

– Quando?

– Subito, oggi stesso.

Nientemeno! Avete litigato? Farò io da paciere.

– Non credo – ella disse, con un bizzarro sorriso.

– Se mi dici la ragione della lite, io vi metto d'accordo.

– Ma perchè tante domande e tante offerte? Io voglio separarmi da mia sorella, ecco tutto.

– E io, no – ribattè lui, guardando glacialmente sua moglie negli occhi.

– Tu non vuoi separarti da Laura? – ella gridò, sentendosi mancare sotto i piedi la terra.

– Non voglio, affatto.

– E allora me ne andrò io! – gridò ella, col cervello scombussolato dalle allucinazioni della follia.

– Fa quel che ti piace – egli rispose tranquillamente.

– Oh Madonna mia! – ella disse, sottovoce, vacillando, mancandole ogni forza.

Adesso avremo lo svenimentosoggiunse Cesare, dominandola con lo sguardo imperioso, col sorriso sarcastico. – E così finirà questa scena di stolta gelosia.

– E che gelosia? Chi ti ha parlato di gelosia? – ella chiese, fieramente.

– Ti avverto che non fai altro, da mezz'ora; ti avverto, che tu mi sembri avere smarrito quel poco di senno che ti restava; e ti avverto, in ultimo, che io non mi renderò ridicolo, per tua causa.

– Tu vuoi restare con Laura? – ella domandò, con l'anima fissata su quella idea.

– Non io, soltanto: anche tu. Di fronte al mondo e anche di fronte a noi, non possiamo abbandonare questa fanciulla, che è affidata alla nostra protezione: sarebbe uno scandalo e io non ti permetterò di farlo. Si soffrono mille morti, ma non si fa uno scandalo. Hai capito?

Ella lo guardò, trasecolata, sentendo che le fuggiva l'estrema speranza.

– E poi – egli soggiunse – io non conosco la ragione, per cui tu non vuoi vivere più con tua sorella. Essa è buona, è saggia, è seria, e non ti nessuna noia, tu non hai diritto di farle rimprovero. Deve essere un tuo capriccio, il desiderio di essere infelice che tu hai, sempre. A ogni modo, dunque, anche questo stupido capriccio sarà soddisfatto, fra poco. Laura si mariterà presto...

– Tu speri che Laura si mariti? – chiese ella, indagando.

– Lo spero, vivamente.

– E ne saresti contento?

        Contentissimo – egli concluse, con un sorriso.

Ah nei bei giorni della sua semplicità muliebre, quando il suo cuore non aveva avuto le atroci rivelazioni del tradimento, ella non avrebbe inteso il valore di quella parola e di quel sorriso; la sua anima, adesso, conosceva tutto l'umano fango. Ella intese, immediatamente: ed ebbe un moto di ribrezzo. Egli sorrideva ancora, alla propria idea, a una immagine, forse: e si arricciava il bel mustacchio bruno. Anna perdette la testa.

– Tu sei, dunque, più infame di Laura – ella disse, col viso sconvolto dalla collera e tremando di commozione, poichè inveiva contro suo marito, per la prima volta.

Egli sorrise.

– È il vocabolario di Otellodisse, con calma. – Ma tu lo sai, è dimostrato che Otello era epilettico.

– E uccise Desdemonadisse sordamente Anna.

– Ti pare che io abbia la figura di Desdemona?

– Non tu, non tu – ella soggiunse, trucemente.

– E chi dunque? – domandò Cesare.

Laura – ella finì, tetramente.

– La tua pazzia diventa pericolosa, Anna.

Imminente, invincibile pericolo, Cesare.

– Per fortuna, che tu non fai tutte le cose che dici – egli conchiuse, sorridendo.

Ella strinse una mano contro l'altra in un moto disperato.

– Questa notte, Laura ha dovuto la sua vita a un miracolo.

– Ma che è accaduto, qui? – egli esclamò, agitato infine, levandosi in piedi. – E dove è Laura?

– Oh non temere, non temere per lei. Non le ho fatto nulla. È viva. Sta bene: sta certo, benissimo. Nessuna ruga turba la sua bellezza, nessuna preoccupazione turba il suo spirito. Non temere. È una persona sacra: sacra per l'amor tuo. Senti, Cesare, ella è stata qui, questa notte, chiusa con me, eravamo sole, e io aveva su lei diritto di morte, datomi da Dio, datomi dagli uomini, e non l'ho uccisa!

Cesare era un po' pallido, niente altro: era come il domatore di fronte alla leonessa inferocita, di cui gli è sfuggita l'obbedienza: e che ha intraveduta la strage.

– E se è lecito, parlando secondo la vostra fastidiosa rettorica, chi vi dava questo diritto di morte? – egli chiese, lentamente, guardando il pomo della sua mazzettina di ebano, e sottolineando il disdegnoso voi.

Laura, mi tradisce, amandoti.

Nientemeno, che Laura mi ama! Sono lieto di apprenderlo. Voi, lo sapete? Questo è un fatto importante, per il mio amor proprio. Ne siete certa?

– Non ti burlare di me, Cesare, tu non sai quello che fai, non sorridere così, non spingermi agli estremi!

– Siete in due, ad amarmi; poichè credo che voi mi amiate ancora, non è vero? Deve essere un male di famiglia; e probabilmente, se mi adorate in due, io non ne ho colpa.

Cesare, Cesare!

– E pensare che non ho fatto nulla per sedurvi, confessatelo.

– Tu mi tradisci, Cesare, amando Laura.

– Ne siete certa?

– Certa, Cesare.

Badiamo che le cose certe sono poche, a questo mondo. Io m'interrogo, da qualche minuto, per vedere se avessi nell'anima una delittuosa passione per Laura. Forse sono pazzo di lei, senza saperlo: voi che siete una donna amorosa, lo sapete. Abbiate la cortesia di spiegarmi, o passionale signora Dias, come io vi tradisca, amando vostra sorella. Descrivetemi tutta la nerezza del mio tradimento. Ditemi in che consiste la mia... infamia, non avete voi detto infamia? Sono poco esperto, nel dizionario della passione.

– Oh Dio, oh Diodiceva Anna, col viso nascosto fra le mani, avendo orrore di quello che udiva e della faccia di Cesare, fredda faccia implacabile nel sarcasmo, nel disprezzo.

– Ah non passeremo mica la nostra mattinata a invocare il Signore, la Madonna e i santi, spero. Tutti costoro non si curano della tua follia, Anna, e fanno bene. Non dovrei curarmene neppure io, e farei benissimo. Ma la tua rettorica diventa assai nociva agli altri, e questo non è permesso. Vi prego, signora Dias, fate la cortesia a vostro marito di precisare le vostre accuse; dimostrategli tutta l'atrocità della sua condotta. Ecco, io piego le braccia, seduto su questa sedia, che è il mio banco dei rei. Aspetto, soggiungendovi che avete consumata molta della mia pazienza.

– Ma Laura nulla t'ha detto?

– Nulla, mia cara signora.

– E dove è?

– È andata a messa, m'hanno detto.

– Così, quietamente?

Credete che tutte le donne danzino convulsamente sulla corda del sentimento, signora Dias? No: per fortuna degli uomini. La nostra cara e savia Minerva è andata a messa, perchè oggi era domenica.

– Con quell'orribile peccato sulla coscienza! Ma ella crede di poter mentire anche al Signore? Ma dunque ella è anche una sacrilega?

– Vogliamo recitare un dramma mistico, adesso? Cara signora, veggo che non avete nulla da dirmi e vi saluto.

Fece per uscire. Ella gli sbarrò il passo, decisa a dir tutto, decisa a udir tutto, abbandonandosi anima e corpo alla bufera.

– Non te n'andrai, Cesare. Non mi sfuggirai. Devi udire dalle mie labbra che tremano di orrore, pronunziandole, le parole della vostra infamia. Le ripeto a te, oggi, come le ho dette a Laura, questa notte: e vorrei che vi abbruciassero il cuore, come hanno abbruciato il mio. Ah tu ridi, tu hai il coraggio di ridere; tu scherzi, quasi ti trovassi a una frivola conversazione: tu osi burlarti della mia collera! Tu vorresti esser lontano, io ti annoio, la mia voce ti fastidio, e quel che ti dico, potrebbe forse far salire alle tue guance di uomo corrotto l'ultimo rossore della vergogna, ma tu non te ne andrai, tu sei qui inchiodato, tu devi darmi conto del tuo tradimento. Ah non sogghignare, non sogghignare, questo non ti serve più a nulla, nessun sogghigno può farmi deviare dalla mia strada: io non ti lascerò partire! Rammentati, Cesare, quello che hai fatto ieri sera, rammentati e abbine la vergogna delle grandi infamie, rammentati quanto è stato crudele, e colpevole, e atroce quello che è accaduto ieri sera, fra te e mia sorella! Sotto i miei occhi, Cesare, e per lunghi minuti, perchè nessun dubbio mi rimanesse, chissà mi fossi impazzita! Io ho visto tutto, le mie orecchie hanno udito le tremende parole, e il rumore dei baci, lungamente, perchè io non potessi dubitarne neppure un minuto secondo. Oh che orribile cosa, per chi ama, il minuto che vi la prova del tradimento, che capacità di dolore vi si apre nell'anima, che ignoravate! Oh che mi hai fatto tu, Cesare, mentre ti adoravo, che mi ha fatto Laura, mia sorella!

E buttata sulla sedia, ella si stringeva le tempia fra le mani, senza poter piangere, senza poter singhiozzare, parlando con tale una voce che avrebbe commosso il più duro cuore.

– Avete la consuetudine di ascoltare alle porte? Non è di una perfetta educazioneosservò Cesare, glacialmente.

Ella lo guardò, perduta.

– Ma tu vuoi farmi morire, dunque, Cesare? Ma come hai potuto dimenticare che ti amo, che ti ho dato la mia gioventù, la mia bellezza, tutto il mio cuore, tutta la mia anima, che ti adoro, in tutti i momenti, che tu solo hai il segreto della mia esistenza? Hai dimenticato questo, tu hai dimenticato che Anna vive solo per te, amor mio, lo hai dimenticato?

– Questi sentimenti vi onorano, ma sono alquanto esagerati. Comprate un galateo e leggete, che non si ascolta alle porte.

Era mio diritto di ascoltare, intendi? Difendo il mio bene, il mio amore, la mia felicità: e il terribile spettacolo che ho visto ha distrutto, per sempre, ogni mio bene.

– Hai visto un così terribile spettacolo? – chiese egli sorridendo.

Campassi mille anni, nessuno me lo leverebbe dalla mente! Oh io morirò, morirò, per non ricordarlo più!

– Tu soffri di dilatazione cerebrale, mia cara. Non si trattava che di una qualunque, naturale scenetta di innocente galanteria; una frivolezza, Anna.

Laura ti ha detto che ti voleva bene, io l'ho udito.

Naturalmente: le ragazze credono sempre di voler benedisse lui, sorridendo.

– Ella ti ha baciato, Cesare: io l'ho visto.

– E si sa: le ragazze baciano facilmente, ciò non fa danno.

– Ella è stata fra le tue braccia, Cesare, per tanto tempo che mi parve un secolo!

– Non è mica un cattivo posto, voi lo sapete, signora Diasrispose lui, sorridendo.

– Oh che infamia, che infamia, Cesare, tu le hai detto di volerle bene e io l'ho udito!

– Si vuol bene sempre, un poco, alla donna che si ha accanto. Non potevo mica dirle che la odiavo, sarebbe stata una scortesia. Conosco il galateo, io, Anna. Almeno ve ne è uno, in famiglia, che sa i precetti dell'educazione.

Cesare, tu l'hai baciata!

Sfido a fare diversamente. Tu non sei uomo, tu non capisci queste cose.

– Sulle labbra, Cesare.

– È la mia consuetudine: l'ho inventata io, questa consuetudine. È assai antica. Probabilmente risale ad Adamo ed Eva.

– Ma è una fanciulla, una fanciulla innocente, Cesare!

– Le ragazze sono meno innocenti di prima, Anna. Ti assicuro che il mondo è assai cambiato.

– È mia sorella, Cesare!

– Questo è un fatto assolutamente senza importanza. La parentela non fa ostacolo: anzi!

Ella lo fissò, con una espressione d'intenso disgusto.

– Tu, dunque, Cesare – ella riprese – non hai neanche la grandezza della tua infamia. Almeno lei, l'altra infame, Laura, ha impallidito, si è turbata, ha avuto dei fremiti di passione e di terrore, nelle sue fibre. Tu, no. Tu sei qui, da un'ora, imperturbabile, e sulla tua faccia di bronzo non soffia alito di emozione, la tua voce non si muta: tu non hai paura, amore, vergogna: tu non ti meravigli neppure. Quella, almeno, ha rabbrividito, ha gridato, è di casa Acquaviva, quella! Dinanzi alla mia collera, dinanzi alla mia disperazione, l'altra infame, la grande infame, non ha avuto, è vero, un minuto di pietà, un minuto di tenerezza, ma la passione, almeno, rifulgeva nel suo duro animo, ma ella aveva un sentimento, una forza, una volontà. Tu no. Potrei io qui piangere tutte le mie lacrime, potresti vedermi contorcere nella più insopportabile tortura, non avresti pietà di me: ma la tua durezza non viene dalla passione, no, no, tu non hai in cuore che la glaciale indifferenza, tu sei la pietra istessa sepolcrale. Almeno quella, la fanciulla, ha il coraggio, ha l'audacia, ha la sfrontatezza della sua infamia, e dichiara che ti ama, che ti adora, che non vuole lasciare d'amarti, che ti adorerà sempre; è mia sorella, ha al cuore lo stesso cancro di cui, lei ed io, moriremo. Tu, no. Che amore! Che passione! Neppure per sogno. Una scenetta di galanteria innocente, niente altro; mezz'ora di divertimento amoroso, senza conseguenza. Ma che è, dunque, dire di voler bene? Queste bugie si dicono a tutte le donne. Ma che è un bacio? Un fugace contatto delle labbra, che si scorda subito. Tante volte si mente, dicendo di voler bene! Tanti baci falsi si danno, durante un giorno e durante una notte! Sciocchezze, frivolezze, robette da nulla; è una mala educazione spiarle, è una esagerazione dire che sono una cosa infame, è una follia esserne gelosi. E il peccato che hai commesso, così, discende dalla sfera di passione, dove doveva trovare la scusa delle invincibili catastrofi spirituali, e tu lo riduci a una quotidiana volgarità, a una laidezza mediocre, e mia sorella diventa una volgare civetta, tu diventi un volgare insidiatore di virtù malferme, e io divento una gelosa volgare, sbraitante la sua morbosa gelosia; tutto va nel fango; l'amore colpevole di mia sorella, il tuo capriccio, e la mia disperazione, tutto nel fango, fra le più nauseanti laidezze umane; dove non è luce d'anima, dove non è grido di dolore, dove si perdono, senza dignità e senza grandezza, i cuori e i sensi, dove l'uomo finisce e la bestia trionfa. Sai che sei, tu, Cesare?

– Non lo so. Ma se voi me lo favorite, vi sarò obbligato.

– Tu sei veramente un uomo senza cuore e senza coscienza, un'anima senza grandezza e senz'entusiasmo, una fibra esausta dai piaceri senza dignità e da capricci morbosi: tu sei una rovina, nel cuore, nella mente, nei sensi, tu appartieni alla grande classe degli uomini putrefatti, tu mi fai ribrezzo e pietà, intendi? Io non lo sapevo, mio Dio, mio Dio, d'aver dato la mia mano a un cadavere di un uomo tutto profumato di eliotropio, di aver unita la mia vita a una mummia di gentiluomo, i cui sensi disfatti non potevano, no, esser lusingati dalla vicinanza di una moglie giovane, bella e innamorata, ma dovevan insidiare la persona che non s'insidia, che non si dovrà mai avere, mia sorella, la creatura purissima, l'adorata figura di castità della mia casa! Ma hai tu amato un giorno, mai, Cesare, Cesare, hai mai sentito la immensità della passione, mai mai? Ma se tutto ha sempre taciuto, in te stesso, che essere maledetto sei tu dunque, che ti sei fatto del tuo egoismo un idolo senza grandiosità! Ma che creatura senza viscere, senza palpiti, senza impeti, sei tu, corrotto, pervertito, depravato, sino a tradire tua moglie che ti adora, per sua sorella che non ami? Ah tu sei vigliacco, un vigliacco, ecco quello che sei, vigliacco!

E gridava, si torceva le mani, si batteva le tempia; disperata, girando per la stanza come la pazza che si aggira nel suo casotto, ma non le usciva dagli occhi una lacrima, ma non le spezzava un singhiozzo il petto. Egli non si era mosso dal suo posto; inchiodato da quella voce, da quelle parole: ma niente si leggeva sulla sua faccia impenetrabile, dove le appassionate ingiurie di sua moglie non arrivavano a far salire un po' di sangue: non una contrazione di sopracciglia, niente, niente. Quando Cesare vide che ella si era buttata sopra la lunga sedia di riposo, sfinita di forze, ma con gli occhi sempre accesi di una collera appassionata, ma con le labbra tremanti di commozione, egli le disse:

Adesso che mi avete favorito così amabilmente la mia definizione, permettete che io vi faccia la vostra.

E il tono era così gelido, la parola era così lenta, che Anna intese bene che egli le preparava un tremendo insulto. E istintivamente, obbedendo alla sua cieca ira d'amore, ripetette ancora:

– Tu sei un vigliacco, ecco quello che sei, un vigliacco!

– Mia cara, voi siete una seccatrice, ecco quello che siete.

– Che dici? – chiese ella, non intendendo.

– Siete una seccatrice, mia cara.

E veramente, l'insulto era così atroce, per lei, che per la prima volta, in quella scena, le si velarono gli occhi di lacrime, e un lamento le uscì dalle labbra violette, simile a quelle di un bimbo morente. Ma non pianse ancora, sebbene avesse inteso qualche cosa infrangersi per sempre, nel suo cuore.

– Non altro che una seccatrice. Non adopero parole grosse, io: dico la verità, voi siete una seccatrice.

Un altro lamento, sommesso, uscì dal petto di Anna, un lamento d'insopportabile dolore fisico, come se le dure sillabe della parola seccatrice le segassero, stridendo, i vivi muscoli.

– Voi vi lusingate di essere una donna a grandi passioni – egli riprese, dopo aver guardato il suo orologio, con un lieve atto di meraviglia sull'ora trascorsa. – No? Tanto peggio, vuol dire che agite d'istinto, che siete convinta di essere una donna fatale, una donna dalle tragiche catastrofi, e che per soddisfare questa convinzione, voi complicate, imbrogliate, impasticciate la vostra esistenza, seccando a morte tutti quelli che vi circondano. Purchè possiate fare della rettorica, piangere, singhiozzare, disperarvi, scrivere delle lettere sconclusionate, avere la faccia verde e le labbra bige, secchereste il Padre Eterno nel cielo!

Egli finse di non vedere i supplichevoli occhi che, subito, caduta l'ira, gli chiedevano pietà, e proseguì:

Ricordatevi tutte le incoerenze che avete commesse, da quattro o cinque anni a questa parte, e le relative seccature avute da noi. Eravate una bella giovane, ricca, con un bel nome: potevate sposare, magari volendogli bene, un gentiluomo della vostra condizione, della vostra età: questa era la regola, è vero, sarebbe stata nell'ordine, sareste stata felice, per quanto è possibile. Ma che, felice, Anna Acquaviva, una eroina drammatica? Sarebbe stato un non senso: ed ecco che v'immaginate di amare uno straccione, che non potete sposare.

Ella fece un gesto, quasi a difendere Giustino Morelli.

– Lo amavate veramente? Grazie del complimento: siete gentilissima, stamane. Passione, contrasto della famiglia, dramma, fuga in Egitto, fortunatamente senza il bambino... scusate la sconvenienza, ma mi è sfuggita. Morelli è onesto, Morelli scappa via, poveretto, e la nostra eroina qua si procura la felicità di una malattia mortale, e noi che eravamo stati seccati, Laura, tutti i parenti, io, dalla fuga, siamo seccati dalla malattia. La lezione era stata dura, e qualunque donna si sarebbe per sempre guarita, insieme con la purpurea, della tentazione di fare il dramma – ma non Anna Acquaviva! Non importa che avesse arrischiato la sua riputazione, il suo onore, non importa che si fosse fatto giuoco del nome della sua famiglia; anzi, questo non faceva che eccitarle la fantasia. Ed ecco che comincia il secondo romanzo, o il secondo dramma, o la seconda tragedia, come vi esprimete voi, passionalmente, ed entra in campo, per esser seccato a morte, il signor Cesare Dias.

– Oh Vergine santa, aiutatemimormorava ella, a capo chino, stringendosi le tempia fra le mani.

Amore drammatico, dicevamo, per Cesare Dias che è vecchio, che non ha mai fatto passioni, che non ne vuol fare, che si annoia di questi fastidi spirituali: e Anna Acquaviva si alla passione non corrisposta, uno dei più strazianti fatti dell'anima – è una frase che ho letto in una vostra lettera. Strazio, tortura, spasimo, disperazione, desolazione, amarezza, tutte queste parole, sono adoperate da quella donna fatalizzata che è Anna Acquaviva, per dipingere a se stessa e agli altri la sua vita, in modo da non aver seccature, di nessun genere. Cesare Dias che è una persona comune, mediocre, niente altro che mediocre, felice di questa mediocrità, ecco, senza volerlo, diventa un eroe, senza volerlo! Egli è l'uomo del mistero, l'uomo che non vuole amare o che ama altrove, l'uomo superiore, l'uomo vicino alle stelle e intanto, è trovata la scusa per seccarlo...

– Ah Cesare, Cesare, Cesare – ella diceva implorando compassione.

Sciocco, dovete aggiungere al nome di Cesare: e sarà questo l'aggettivo che più merito. Solo uno sciocco – sono stato per mezz'ora – poteva cedere alle vostre immaginazioni sentimentali e io fui quello sciocco. Ma vi lasciavate morire, per completare la tragedia dell'amore non corrisposto...

– Ah perchè non mi avete lasciato morire, allora! – ella disse, levando le braccia al cielo, in un impeto di desolazione.

Credo che sarebbe stato bene per tutti quanti. Quale conforto, per voi, eroina cara, morire consumata dalla passione! Gaspara Stampa, Properzia de' Rossi e altre illustri gentildonne dell'antichità, di cui mi avete spesso favorito i nomi, nelle vostre lettere, che avrebbero trovata un'emula. Sono sicuro che sareste morta benedicendomi.

Reclinato il capo, ella mise un profondo sospiro, come se morisse veramente.

– Invece di lasciarvi morire, io ho fatto la solenne corbelleria di sposarvi: e vi giuro che me ne sono pentito in tutti i minuti in questi due anni, dal minuto seguente a quello in cui avevo fatto quella sciocca proposta. Eh... sono momenti d'inesplicabile debolezza, li ha ogni uomo, e si pagano caramente. Bisogna anche dire che perfino nel matrimonio, che non è poi una burletta sentimentale, voi avete portato tali pretensioni di passione, di amore, di adorazione mutua, che avete finito per seccarmi molto di più di quello che credevo...

– Ma che è dunque il matrimonio per te? – ella gridò, cercando di rialzarsi dopo quei colpi di frusta, che le avevano insanguinata l'anima, mortalmente.

– Un contratto seccantissimo, quando si sposa una donna come voi...

– Avresti preferito mia sorella? – ella chiese, esasperata.

Ma si pentì subito di questa volgarità, a cui l'aveva spinta l'atroce dolore di morte che la teneva. Egli la punì, subito.

– Sì, avrei preferito vostra sorella. Non è seccante, affatto, anzi è una creatura molto divertente per me.

– Ti amava da prima, confessa lei; peccato che non te l'abbia detto: – esclamò ella, sentendo bene come si avviliva parlando così.

– Un peccato: l'avrei sposata, ve lo assicuro.

– Ah, va bene – ella disse, con gli occhi perduti in un profondo pensiero.

Ma levando gli occhi sopra suo marito, verso quella cara persona che adorava, in quell'ora, sovra ogni cosa, il coraggio di Anna cadde, ella gli andò vicino, gli prese le mani, gli disse:

– Ah Cesare, Cesare, tu hai ragione, ma io ti amavo, ma io ti amavo, e tu mi hai tradita con mia sorella!

Signora Dias, voi avete un'assai labile memoria – egli rispose, glacialmente, sciogliendo le sue mani, da quelle convulse di sua moglie.

– Che dici? – diss'ella, diventando livida, poichè sentiva venire l'ultimo, crudele colpo di scudiscio.

Dico che dimenticate presto. Stiamo faccia a faccia, non potete mentire. Vi ho mai detto che vi amavo?

– No, mai – ella confessò, con gli occhi socchiusi, agonizzando a questa confessione.

– Vi ho promesso di amarvi?

– No, mai.

– Ebbene, secondo la legge dell'amore, io non vi ho tradita, cara Anna. Il mio cuore di uomo innamorato non vi è mai appartenuto, dunque non vi è stato tolto. Io nulla ho promesso: io nulla dovevo mantenere.

– È vero, tu hai ragione, Cesare – ella disse, assaporando lentamente questa nuova, sapiente amarezza che egli le distillava.

– Voi forse mi parlerete della legge coniugale. Sissignora, il sindaco, unendoci, ha detto che dobbiamo serbarci una reciproca fedeltà; secondo il sindaco, io vi avrei tradito. Ma neanche questo è vero. Fate uno sforzo di memoria, Anna, e ricordate i patti che io vi misi, quella sera a Sorrento, prima che commettessi la grande corbelleria. Dissi che volevo essere assolutamente libero, come da scapolo: voi accettaste il patto; è vero, o non è vero?

– È vero, accettai il patto.

Dissi che voi non avreste mai avuto nessuna ingerenza nei miei affari di cuore; e voi accettaste, ricordatevelo, Anna, voi accettaste, mentre mi amavate; è vero, o non è vero?

– È vero – ella disse, sentendo di cadere lentamente in un abisso.

Dissi che avessi anche amato altrove, voi non avreste avuto diritto di farmi rimprovero; Anna, voi accettaste questo patto, dite la verità, lo accettaste.

– Sì, lo accettai – ella disse, precipitata nell'estremo abisso morale.

Vedete bene, Anna, che secondo la legge dell'amore, secondo quella del matrimonio, io vi ho tradita. E se avete coscienza, per parlare come voi parlate, se avete lealtà, dovete convenire qui, con me, subito, che io non vi ho tradita. Voi accettaste tutto il patto: io sono un uomo libero del mio cuore e delle mie azioni, io non vi ho tradita. Convenitene.

Cesare, Cesare, sii umano, sii cristiano, non obbligarmi a dire questo!

– Le tragedie sono una cosa e la verità è un'altra cosa, Anna. Mi preme di assodare che non vi ho tradita, affatto, mia cara. Tutto quel che è potuto accadere iersera... o in altra sera del passato, quel che potrà accadere... in altre sere dell'avvenire... voi sola lo avete permesso. Convenitene, Anna.

– Non posso dir questo, capisci? – ella gridò – Oh come hai ragione, sempre, tu, nella tua vita: da che ti ho conosciuto fin oggi, come hai saputo metterti dalla parte della ragione! Tu hai ragione nel tuo egoismo, nella tua perfidia, nella tua perversità, nella tua paurosa corruzione, come hai avuto ragione, offrendomi quel patto vergognoso che io non ho avuto onta di accettare e che tu mi rinfacci tanto giustamente, tanto a proposito oggi! Ma io credeva che amare, che adorare un uomo come ti ho amato, come ti ho adorato, credevo che fosse un secreto mirabile per vincere: e ho perduto, perchè tu sei più forte, perchè l'indifferenza è più forte dell'amore, perchè l'egoismo è più forte della passione, perchè non vi ha generoso abbandono che vinca il calcolo raffinato dell'uomo corrotto. Io ho torto, io sola, ne convengo, mentre io ti amo sino a morire, mentre credevo che questo bastasse, mentre avevo nell'anima una divina speranza di vincere, perchè amavo. Io ho torto, confesso, sì, confesso, io non so amare, odiare, vincere: io sono null'altro che una seccatrice, che un essere superfluo, noioso, è vero, è vero, ripetilo ancora!

– Se mi ci forzate, lo farò – disse lui, spietatamente, offeso di nuovo da quel novello impulso di collera.

– Hai ragione, hai ragione sempre: io ho sbagliato tutto, io stessa mi sono buttata in questa disperazione obbedendo alla folle inclinazione del mio cuore: io sono fuggita di casa, io non ti dovevo amare e ti ho amato, io ti ho amato e ti ho seccato, e vedi, io stessa, con la mia stessa volontà, in una notte fatale, ti ho permesso il tradimento. Senti, tu sei l'uomo più freddamente vizioso che io conosca, tu sei senza la nobiltà di un pensiero senza la bontà di un sentimento, tu mi fai ribrezzo; tu hai commesso, sotto il tetto dove tua moglie alberga, un peccato orribile, che farebbe fremere di disgusto gli uomini più rotti alla vita – e io non posso punirti, perchè ho consentito a ciò, perchè io ho umiliato la dignità del mio amore innanzi a te, perchè io sono, veramente, una creatura vigliacca e infame. Vedi, come ti do ragione. Tu hai peccato, ma verso me sei innocente; io sono infame e vigliacca, perchè dovevo morire e non accettare il patto del tradimento. Perdonami se ti ho chiamato infame, chiederò perdono, anche a Laura: nessuna creatura umana si è macchiata di una infamia simile alla mia, perdonami!

Egli, forse, sentì in quelle parole la confusione della follia, vide il lampo della follia in quegli occhi: ma non s'intenerì! Era una donna che gli aveva fatto commettere una corbelleria, che lo aveva seccato, che assai più lo voleva seccare, adesso, e in avvenire. Egli non s'intenerì. In fondo, era soddisfatto di aver debellato la sua avversaria, in quella lotta, dove ella aveva tutti i punti per vincere. Non s'intenerì. E pensò che era tempo di andar via.

Addio, Annadisse, levandosi.

– Non te ne andare, non te ne andare! – esclamò ella, slanciandosi verso lui follemente.

Credi che questo duetto sia piacevole? – chiese Cesare, infilandosi i guanti. – Del resto, ci siamo detto tutto. M'immagino che tu non abbia altre ingiurie da favorirmi!

– Tu mi odii, è vero? – ella gli domandò, interrogandolo con gli occhi folli.

– Io non ti odio affatto – egli concluse, con tale glacialità che ella rabbrividì, nella sua follia.

– Non andartene, non andartene – ella mormorò, macchinalmente. – Io debbo dirti una cosa assai grave...

Addio, Anna – egli ripetette, avviandosi alla porta.

Cesare, se te ne vai, io commetto qualche infamia! – ella gridò convulsamente, con le mani nei capelli.

– Tu ne sei incapace; per essere infame, bisogna aver talento: e tu sei una sciocca – egli disse, sogghignando ironicamente, schiaffeggiandola con quell'aggettivo.

Cesare, se te ne vai io muoio! – La voce si strangolava, le labbra s'irrigidivano.

Va , che non muori! Per morire ci vuole troppo coraggio – egli finì, aprendo la porta e uscendo.

Ella corse sino alla soglia. Cesare si era già allontanato, ella udì chiudere la porta di casa. Così, ella stette in piedi, tre o quattro minuti sulla soglia, senza pensare più, senza sentire più nulla. Non faceva un passo, temendo istintivamente di crollare al suolo. Restò così, quasi facesse allontanare, a poco a poco, l'impressione di un dolore tutto fisico, nel capo che le si abbandonava sul petto. Poi, macchinalmente, sedato il male fisico, ella rientrò nella sua stanza e si appressò allo specchio, dove con una lenta cura, rialzò i suoi capelli sulla nuca, in un grosso nodo, mentre prima, nella sua convulsione, si erano disciolti: ricercò e trovò per terra lo spillone d'oro, e lo passò nel nodo dei capelli. Aveva ripreso quella rigida esattezza dei movimenti che aveva, nella mattina, prima del colloquio con Cesare. Quasi fosse una bella ed elegante signora decisa a farsi ammirare, nella passeggiata che va a fare, ella mise un leggiadro cappellino di velluto nero, tutto ricamato di giaietto nero, con una veletta nera, che le scendeva sino alle labbra, quasi lieve ombra: e infilò una giacchetta di lontra, tutta esoticamente profumata. Non dimenticò nulla, con una precisione di dama squisita: il fazzoletto era ficcato nel manicotto di lontra, il portabiglietti di vecchio avorio giapponese scolpito, era stretto in una mano: ella cercò ancora, se qualcosa le mancasse per compire la sua passeggiata. Così, automaticamente, girò ancora due volte per la stanza, aprendo o richiudendo quietamente i cassetti, guardando fra le sue carte e i suoi libri, fissando le pareti, quasi volesse ricordarsi. Poi, si risolvette ad uscire dalla sua stanza, e dopo avere dato un'altra occhiata intorno intorno, ne richiuse la porta pian piano.

Passò davanti alla stanza di suo marito e vi entrò; giusto, in quel momento, il cameriere di Dias finiva di metterla in ordine: appena vide la padrona, salutò ed uscì. Ella restò sola, in quella vasta camera, tutta brunastra, tutta austera, tutta tetra, in quella luce bigia dello sciroccale giorno d'inverno: e, per un minuto secondo, ebbe sulla faccia un'espressione di terrore infantile: ma fu una contrazione fugacissima. Fatta di nuovo sicura, tranquilla, ella andò alla scrivania di suo marito e come se volesse scrivere qualche cosa, si sedette nel gran seggiolone. Ma dopo aver pensato un poco, non scrisse nulla: tirò un cassetto che era sempre aperto, ne prese qualche cosa che nascose in tasca subito. Dopo, si levò, la bella manina guantata di capretto nero raggiunse l'altra manina, nel profumato manicotto, ed ella se ne andò, col suo solito passo, senza voltarsi indietro più. La cameriera, i servi, la salutarono al suo passaggio ed ella rispose, chinando il capo. Discese le scale piano, senza voltarsi indietro, più. Quando fu in piazza della Vittoria le batterono le palpebre, in quella fastidiosa luce triste, piovuta dalle nuvole, dietro le quali si nascondeva il sole: non passava quasi nessuno: solo ogni cinque minuti, laggiù, sbucava il tram, dal rumore sordo. Ella attraversò la piazza ed entrò nella Villa, camminando col suo passo solito, col piccolo strascico della nera veste di lana che si trasportava, frusciando, qualche foglia secca. Ogni tanto, nel gran viale di sinistra ella incontrava qualche raro passeggiante, in quella giornata così melanconica: attraversò gli alberi, ella guardava il cielo, spesso con un'espressione d'inquietudine, come se temesse la pioggia, qua e le nuvole si addensavano, si facevano più oscure: e dovunque era una tinta di cenere sulle colline e sulle case, sulle vie e sul mare, quasi che per molti giorni, sul paesaggio tutto verde, tutto vivido di colori, tutto fiorito, fosse piovuta la cenere che copre, che affoga, che distrugge il verde e i fiori, e la beltà delle cose. Presso la fontana delle anitre, dei bimbi garrivano, ed ella si fermò un istante a guardarli. Gli occhi le si velarono di lacrime, udendo quelle liete voci, ma le lacrime non sgorgarono ed ella tirò innanzi, tutta raccolta nella sua nera vesta, nella sua giacchetta di pelliccia, con gli occhi bassi dietro la veletta nera, con le mani strette nel manicottino. Anna camminava, camminava, senza stancarsi e attraversò due volte la Villa, in su e giù, come una creatura che ha bisogno di quel moto per regolarizzare i suoi pensieri, per fiaccare le sue forze.

Poi, alla terza volta, quando fu arrivata a quella parte della Villa che si chiama il boschetto, dove i grandi viali laterali si spezzano in otto o dieci sentieri, ella guardò il piccolissimo orologio, che era graziosamente incastrato nell'angolo del suo portabiglietti. Prese un sentieretto e andò a sedersi sopra un banco di legno rustico, che è in mezzo a una rotonda, tutta chiusa da grandi alberi. Non vi era un'anima, non si udiva una voce, un passo di uomo: non un gorgheggio di uccelletti sui grandi alberi. La rotonda era come segregata dal mondo e la luce vi cadeva anche più fioca, attraverso gli alberi. Il terreno era umido, giallastro, coperto di foglie morte, alcune rossastre, alcune brune. Anna scacciava da , con la punta del piede, certi piccolissimi sassolini: e ancora guardò il cielo, diventato tutto plumbeo. Un silenzio profondo era intorno. I bimbi che erano alla fontana, forse erano andati via, paurosi della pioggia, annoiati forse da quella solitudine: un silenzio eterno. Ella fissò gli occhi sulle sfere dell'orologetto, minutissime, sottili come le zampette di un ragno e camminanti in giro, a distruggere il tempo; vi tenne gli occhi fissi alacremente, con le labbra un po' schiuse, quasi dicesse tra misteriosi numeri: e non poteva udire il tic-tac dell'orologio, era un rumore impercettibile. Ella stessa, forse, contava i minuti secondi, nella sua mente, tenendo sollevato il portabiglietti presso gli occhi, quasi leggesse dentro una storia lunga e sconosciuta: l'altra mano giaceva in grembo, nel manicotto. A un tratto, ella abbassò il portabiglietti e mise la mano in tasca, cercandovi quello che vi aveva nascosto.

Ma la piccola mano guantata non prese nulla dalla tasca: ne uscì vuota, per ficcarsi quasi freddolosamente nel manicotto. Anna si levò di scatto risolutamente, e venne fuori del boschetto, mettendosi pel gran viale di mezzo. Erano le due precise. L'aria si era fatta più bigia, più triste, come se già imbrunisse: una nuvola nerastra, molto bassa si appesantiva sulla collina di San Martino. Anna se ne andava dalla Villa, senza voltarsi indietro. Ora non vi s'incontrava più nessuno: il soffio umido dello scirocco aveva qualche cosa di desolante. Ma ella continuava la sua via, con un passo deciso: quando fu verso piazza Vittoria, invece di attraversarla direttamente, ella piegò a dritta e prese il marciapiede di via Caracciolo, verso il mare che pareva immobile, sotto una crosta di cenere. Guardò, di lontano, le finestre e i balconi della sua casa. Quelli della stanza di Cesare erano chiusi, come ella li aveva lasciati: il balcone della sua stanza era spalancato; un vuoto nero, di lontano, questo le parve: un buco profondo e pauroso. Un lieve brivido le corse per la pelle ed ella fissò gli occhi sul mare, mentre si allontanava verso il Chiatamone: ma il mare, anche, aveva qualche cosa di funerario, nel riflesso del funebre colore del cielo. La guardia doganale che passeggiava sul marciapiede, presso quel triste monumento dei morti a Mentana, di cui si erge sul mare solo il bianco pedestallo marmoreo, guardò questa solitaria viandante, che sfiorava il muro, con lo sguardo vagante sul lugubre mare. E con una precisione di movimenti automatica, arrivata alla seconda traversa Partenope, Anna si volse, e lasciato il marciapiede, risalì dalla nuova grande via del Chiatamone, alla piccola vecchia via, diventata con le nuove costruzioni, stretta, affogata, malinconica. I bei palazzi nuovi della via Chiatamone hanno le loro porte alle spalle sulla vecchia strada: e così aveva anche la sua porta stretta e lunga, di bronzo scolpito, la palazzina Rey, fatta di due soli piani senz'altri inquilini che il bel Luigi Caracciolo. A questa porta bizzarra, come tutta l'architettura della palazzina, si accedeva da due scalini: e su questi scalini, prima di bussare, Anna si fermò un minuto. Una contrazione le attraversò il pallido volto, che sino allora era restato senza nessuna espressione: uno strazio indescrivibile ne scompose tutte le linee, e quella faccia umana parve già disfatta nella angosciosa smorfia della agonia. Ma risolutamente, la piccola mano guantata sollevò l'anello di bronzo che serviva da martello, e un colpo risuonò nel vuoto della scala: ella aveva appoggiata la fronte al freddo metallo della porta, non reggendosi più. Subito, uno dei battenti si schiuse, ella ascese gli scalini di marmo rosa della breve scala, udendo risuonare dietro a la porta che si richiudeva. Luigi Caracciolo era in alto sulle scale: e malgrado la sua forza d'anima, la sua sorpresa fu così profonda, che fu un uomo smorto, dalle mani tremanti che accolse quella smorta donna, dalle tremanti mani. Non dissero nulla. Egli aveva preso delicatamente la piccola mano guantata e se l'era passata sotto il braccio; ella si appoggiava poco, e aveva gli occhi bassi.

Così attraversarono due anticamere adornate bizzarramente di arazzi medioevali, di armi antiche e moderne, e di certi grandi vasi porcellana di Delft donde sorgevano delle palme verdi, che salivano sino al soffitto, e un salottino da fumare, assai stranamente mobiliato in quei leggeri e leggiadri legni rustici scolpiti, svizzeri, fragile arte di artefici della montagna. Le stanze attraversate erano in penombra, poichè sui cristalli delle finestre, oltre le doppie, profonde portiere, scendevano delle tendinette di raso giallo: ma il gran salotto dove Luigi Caracciolo si era fermato, con Anna, aveva le imposte sbarrate, come se fosse notte e vi ardevano due grandi lampade arabe, dai cristalli verdi nei delicati intagli di ferro.

Questo salotto era tutto coperto, sulle mura e sul soffitto, da quei tappeti di Kharaman di un rosso introvabile in Europa, tanto è cupo e intenso, e le cui fasce hanno una così esotica riunione di tinte orientali. Questi tappeti, lunghi e stretti, rialzati da grossi cordoni, formavano cupola, formavano tenda, e sul loro fondo uniforme, tutte le squisite bellezze dell'arte antica italiana, nei suoi mobili, nelle sue statue, nei suoi quadri, tutte le singolarità dell'arte orientale, tutte le squisite stranezze dell'arte, nei paesi del Sol Levante, bronzi, porcellane ed avorii, tutta la nobile bellezza delle cose belle e nobili, rifulgeva misteriosamente.

E quella notte improvvisa, in pieno giorno, e quel sottile profumo che veniva dai bellissimi fiori, sparsi per tutto il gran salotto, grandi rose fuori stagione, di una ricchezza stravagante di petali, e fasci di candide, inebbrianti cardenie, e fini steli di mughetti raccolti nella conca verde di una foglia, e quel silenzio di Caracciolo che la fissava, estatico, fecero vacillare Anna, che dovette sedersi in una gran poltrona; ella restò così, a occhi bassi, così pallida dietro la veletta, come Caracciolo non l'aveva vista giammai. Egli rimase in piedi, ancora tutto pieno di meraviglia: e gli occhi suoi carezzavano quello smorto volto, teneramente, appassionatamente. La medesima emozione che era in tutta la persona di Anna, nei suoi occhi vaganti che sembravano sfuggire quelli di Luigi Caracciolo, nelle labbra schiuse, stirate in un convulso sorriso, nella testa un po' abbassata, lo stesso tremore di quella persona che egli indovinava, lo turbavano, come giammai in presenza di nessun'altra donna e per l'emozione di nessun'altra donna.

E non le aveva ancora detto nulla, egli stesso vinto dalla commozione, temendo di disturbare, con una parola troppo volgare, o frivola, o vanitosa, la profonda intimità passionale di quell'incontro. Andò a un tavolino e da un esile vaso di Murano, madreperlaceo, iridato, prese un fascio di nivee rose dal cuore roseo, fini rose dal profumo quasi inafferrabile, e le diede ad Anna, mettendogliele sulle ginocchia. Ella levò gli occhi e lo guardò: poi sollevò il fascio di rose al viso e vi nascose la faccia. Caracciolo lesse tale spasimo in quello sguardo, tale spasimo in quel gesto, che non seppe dire altro, a bassa voce:

Cara Anna, caro amor mio...

Udendosi chiamare per nome, così, un po' di sangue salì a colorarle le guance smorte: poi, ad un tratto, odorando un'altra volta le rose bianche, ricercandone avidamente il profumo introvabile, la visione di quelle altre rose bianche le riapparve, e la fatalità di quel tradimento di cui ella moriva, quella fatalità che si ripresentava, nella medesima forma di beltà e di profumo, come un'infamia allora, come un'infamia adesso, le impresse uno spavento tale, tale un novello strazio di agonia, che egli ne fu sconvolto. Le si sedette accanto, sopra uno sgabello arabo, le prese la piccola mano guantata che si abbandonò fra le sue, inerte, le carezzò teneramente quella piccola mano, e con la sua voce più dolce, velata da una infinita tenerezza, le domandò:

– Che avete? Ditemelo, Anna cara...

– Non mi parlate così – ella disse, con uno sforzo, quasi avesse riunito, per parlare, tutto il suo coraggio.

– Vi offendo, Anna? Non credo di offendervi, non posso offendervi, io, che ho per voi la tenerezza più profonda, una devozione invincibile...

E le aveva preso anche l'altra piccola mano guantata, tenendola fra le sue, parlandole assai da vicino, ma con una intonazione così umilmente affettuosa, così dolcemente carezzevole, che ella non poteva ancora scorgervi l'impeto dell'amore, il tumulto della passione, che egli reprimeva nel cuore. E la parola d'amore ancora non era comparsa in quelle morbidissime frasi che egli le veniva mormorando, sottovoce, continuamente, simili a un'onda di tenerezza che avvolge, che avvolge e addormenta, con il suo dolcissimo fluttuare.

– È oscuro, qui – ella disse, a un tratto, con un movimento di pena.

– La giornata è così triste, fuori – egli mormorò. – E vi ho aspettata tante ore, Anna, invano...

– Sono venuta, vedete – ella rispose. E per quanti sforzi facesse, in quella sua agonia, non le riescì di sorridere.

Grazie di esservi rammentata del vostro fedel servo – e delicatamente le baciò la piccola mano guantata, due o tre volte: brevi baci lievi lievi, che aveano la tenuità di un soffio; ma era inerte, sempre, la piccola mano.

Perchè non aprite un poco? – ella chiese, parendole già di essere entrata in una tomba.

A lui doleva staccarsi da lei, lasciare quella manina senza vita che si dava alle sue, come abbandonata. Ma si levò, sebbene a malincuore, e schiuse le imposte dei due balconi; una tristissima luce del color della cenere entrò nella stanza. Anche Anna si era levata ed era venuta a mettersi dietro i cristalli, guardando quel mare morto, quel cielo morto, quella morta via del Chiatamone.

Anna, Anna, venite via, potrebbero vedervi...

– Non importa – ella disse.

– Non posso permettere che vi compromettiate, Anna, vi voglio troppo bene...

– Sono venuta per compromettermi – ella disse, profondamente. E per la prima volta i suoi smorti occhi, su cui parea fosse passato un fiume di lacrime e li avesse appannati, fiammeggiarono di passione.

– Mi amate dunque un pochino? – egli le chiese, cercando di attirarla lontano dal balcone.

Ella non rispose: si sedette nel seggiolone, di nuovo, con le mani incrociate in grembo, in posa, in attenzione.

Ditemi se mi amate un poco, Anna – e domandandoglielo, era seduto così basso innanzi a lei, che quasi parea genuflesso.

– Non vi amo – ella proclamò, con voce limpida, guardando il cielo della stanza, con una disperazione che parea passione.

Cara Anna, cara Anna... – egli mormorò, con la carezzevole voce e non potendo distogliere lo sguardo inebbriato da quel volto pallido e da quegli occhi profondi – come posso credervi... se siete qui... ditemelo, sono tre anni che aspetto questa parola; cara Anna, dolce Anna, voi sapete che vi adoro, da tanto tempoAnna, Anna...

– Tutto quel che deve accadere, accade – ella disse, monotonamente.

        Anna, ti scongiuro, dimmi se mi vuoi bene...

Udendosi dare del tu, ella ebbe un fremito di orrore; ma si vinse, ancora.

– Mi vuoi bene?

– Non so... non so nulla... – ella rispose, smarrita.

Cara, cara... – mormorò ancora lui, tremando di speranza, in un immenso trasporto dell'amore.

E sollevandosi dolcemente sino a lei, la baciò con timidezza, sfiorandole appena la guancia. Ah, che un grido di dolore sgorgò dal petto ad Anna Acquaviva, ed ella si levò, in preda allo sdegno, all'orrore, al terrore, tentando uscire.

– No, per carità, perdonami, non andartene ora, Anna. Anna, perdonami, se ti ho offesa, io ti amo tanto, se te ne vai ora, mi fai morire...

– Non si muore per così poco – ella disse, abbassando le palpebre, non dando segno di aver perdonato.

– L'amore fa moriredisse Caracciolo con la sua dolce voce lusingatrice, con un sorriso malinconico e voluttuoso.

– Già: ma ci vuole coraggio, per morire.

– Non parliamo di queste lugubri cose, più, amor mio, esse ti contristano; la tua bella faccia adorata, ecco, è sconvolta: dimmi che mi perdoni; è vero, che mi perdoni?...

– Vi perdono – ella rispose, così.

– Io non ti credo – egli soggiunse, con infinita tristezza. – Tu non mi perdoni: e ne ami un altro...

– No, no, nessun altro.

– E Cesare?

Ma appena le tre sillabe del fatale nome furono pronunciateate, egli si accorse dell'errore. Gli occhi di lei fiammeggiarono, nuovamente, di corruccio, di passione: ella tremò tutta, in una convulsione di tutti i nervi, ed egli capì bene che adorava quella donna, se aveva potuto commettere il fallo di nominare il marito, nel primo colloquio d'amore.

Sentite – ella proruppe, affannando – se avete cuore, se avete pietà, se volete che io ancora resti qui con voi, non lo nominate più... non lo nominate...

– Hai ragione – egli rispose. E con la mala tortura dell'amore, egli soggiunse: – Eppure tu lo hai amato... tu lo ami sempre...

– No – diss'ella, sordamente – non amo più nessuno.

– E perchè non m'hai voluto, quando t'ho chiesta?

– Così.

Perchè hai sposato quel vecchio?

– Così.

– Ed ora perchè gli vuoi bene? – egli disse, tendendole un tranello spiritualeperchè gli vuoi bene?

– Non so – ella disse, cadendo nel tranello.

Vedi bene, che lo ami veramente! – egli gridò desolato.

– Oh Dio, oh Dio! – fece ella, non reggendo a quello strazio di agonia.

– Oh sono uno sciocco, perdonami, perdonami, ma che vuoi, ho perduto la testa, ti amo, e sono disperato, ho bisogno di sapere, tu lo amerai sempre, è vero?...

Fino alla mortediss'ella, con un accento strano, fissandolo negli occhi, stranamente.

Ripeti.

Fino alla morte – ella ripetette, con la sua bizzarra intonazione.

Tacquero. Un silenzio grave. Luigi Caracciolo le passò un braccio intorno alla cintura e l'attirò a , con un moto assai lento. Ella, fissando il vuoto, con gli occhi stralunati, non si accorgeva, adesso, di essere nelle braccia di lui, non sentiva i baci lievissimi che egli le metteva sui capelli, sul bianco collo profumato, sul roseo orecchio che la veletta nera non copriva. Anna era così assorta in una desolata contemplazione, così già distaccata da tutte le cose umane, che quei crescenti baci che giungevano dai capelli, dal collo alla faccia, agli occhi, alle labbra, non la facean più fremere. Ma sentì, ad un tratto, la possente stretta di quelle amorose braccia che la stringevano al petto, con la suprema passione giovanile delle fibre esaltate: ma udì, a un tratto, la voce di Luigi Caracciolo non più tenera, non più carezzevole, ma fervida della tumultuosa passione umana, dirle le confuse parole che l'uomo balbetta nel delirio di tutte le sue facoltà, della vibrazione di tutti i suoi nervi. Minutamente, guardandolo coi fiammeggianti occhi quasi per vincerlo, ella cercò di sciogliersi da quella stretta; ma troppo egli l'amava, troppo era giovane e innamorato, per lasciarsi sfuggire dalle braccia il suo caro tesoro. Eran soli, in quell'ambiente creato per l'amore, senza ostacoli, senza paura, ed egli era un uomo, infine, e non voleva lasciare fuggire quell'ora, non voleva. Egli la tenea fra le braccia, stretta al suo petto, dicendole confusamente che l'adorava, che era la sua cara signora, la sua cara donna adorata, adorata, baciandola negli occhi, sulle labbra, mentre ella tentava di svincolarsi, in preda all'ultima, orribile disperazione.

Lasciatemi – ella disse, fremendo, cercando sciogliere il vincolo delle amorose braccia.

Anna, Anna, ti voglio tanto bene, da tanto tempo... – ripeteva la calda, ardente voce Luigi.

Lasciatemi, lasciatemi – ella pregò, sgomenta, presa da un terrore pazzo.

– Tu sei la mia adorata, l'adorata sovra tutte le cose...

Lasciatemi, voi mi fate orrore – ella gridò, avendo veramente tale orrore nella voce e nella faccia, che egli la lasciò, subito, diventato di gelo.

No, non era civetteria di donna che vuole ritardare la sua caduta: non era soltanto la ribellione del pudore muliebre: era qualche cosa di più profondo, di più forte che aveva ispirato quello straziante grido di orrore. Se ne intendeva di resistenza femminile, Luigi Caracciolo: sapeva le false, le provvisorie, le preconcette, tutte le resistenze passeggere, fugaci, ma sapeva le vere, quali erano, come erano, le vere, le invincibili. Così era la resistenza di Anna: vera, invincibile. Ella era restata in piedi, presso il tavolino, rimettendo la sua veletta caduta; Luigi la guardava, sentendo quale abisso era fra loro, sebbene ella fosse venuta colà. E per quanto il suo cuore di giovane felice ma innamorato poteva soffrire, egli soffriva. Era pallido, adesso: si sentiva ridicolo, grottesco, innanzi a quella donna che lo aveva visto delirare di passione e che non aveva voluto saperne di lui.

Perchè siete venuta, allora? – egli le chiese, dolorosamente.

– Per commettere una infamia – ella rispose a voce bassa.

Anna, Anna, tu mi uccidi!

Ella lo fissò, stralunata. Non capiva quello che egli dicesse. Appoggiata al tavolino, ella sembrava vedesse qualche imminente, terribile visione. Ed egli comprese bene che quella visita, che quella bizzarria di parole, di atti, di sguardi racchiudevano ben altro segreto che la soddisfazione di un capriccio, che il trionfo di una vanità.

– Ma che avete, Anna? Vi è qualche cosa che non mi volete dire e che vi tortura? Povera amica mia, voi siete venuta qui, con un'angoscia in cuore volendovi sfogare, volendo piangere, ed io sono stato così villano, così brutale...

– Voi siete buono – e gli stese la mano. – Mi ricorderò di voi...

– No, non ve ne andate, ditemi prima che avete, eravate venuta per questo... ditemi, cara Anna...

– È troppo lungo, è troppo lungo – disse ella, come in sogno, passandosi sulla fronte la mano – e poi debbo partire, sapete? Partire...

Restate, parlatemi, piangete, vi farà bene, Anna.

– Non posso.

– E perchè?

– I miei minuti sono contati – ella disse, con gli sguardi smarriti. – Saprete un altro giorno... domani... ora debbo partire.

Anna, come posso lasciarvi andare così? Siete venuta per conforto e vi ho trattata come un perverso... perdonatemi...

– Voi non avete colpa, nessuna – ella disse pianamente.

– Ma chi vi mette in quest'angoscia, Anna? Chi vi tortura, povera anima amorosa? Di chi è la colpa? Chi ha il massimo torto, nella vostra disperazione, poichè voi siete disperata? Cesare, è vero?

– No – diss'ella semplicemente. – Io ho torto, io soltanto.

– È Cesare, non lo negate.

– No – ella ripetette, semplicemente.

Cesare è un infame, lo so – egli esclamò, poichè veramente egli sapeva tutto.

– Io sono infame – ella disse, guardando il cielo della stanza.

– Non lo crederò, non lo crederà nessuno, Anna.

– È necessario che io sia infame – ella disse, a bassa voce. – Perchè tutti sieno felici, è necessario... e debbo partire.

Tornerete? Domani? Anna, voi siete così triste, così sconvolta, io non vi lascio andare...

– Nessuno potrebbe trattenermi, nessuno...

Veramente? Anna, dimenticate che vi ho parlato d'amore.

– L'ho scordato. Addio, dunque...

– Non ve ne partite così, siete troppo agitata...

– No, sono calma. Sentite, volete farmi un favore? Voi mi avete detto dei versi, una sera, a Sorrento, dei versi francesi?

– Sì, di Baudelaire, harmonie du soir – gli rispose, sorpreso di questa domanda, inattesa, impensata.

– L'avete quel volume?

– Sì.

Prendetelo: copiatemi quella poesia. Dopo... vi dirò: Addio!

Meravigliato, egli passò nel suo studietto e prese Les fleurs du mal dalla sua piccola biblioteca. Tornò e si sedette a una scrivanietta di legno rosa, fatta proprio per scrivervi su dei bigliettini amorosi. Guardò Anna, quasi per chiederle se volesse ancora quella. Ma quale immenso dolore, dunque, spirava da quegli occhi, da quelle labbra? Tale intenso, intenso dolore che egli sgomento, chiese:

Debbo scrivere?

Ella accennò di sì col capo. Mentre egli scriveva il primo verso, Anna gli volse le spalle. Aveva messo la mano nella tasca e ne aveva tratto il piccolo gioiello luccicante di avorio e di acciaio. A bassa voce, egli ripetette il verso che scriveva:

 

Valse mélancolique et langoureux vertige:

 

scattò il grilletto e rimbombò il colpo, la nuvoletta di fumo salì al cielo della stanza. Anna si era colpita al cuore: roteò, cadendo al suolo: il cappellino si staccò dalla testa, ed ella restò con la faccia coperta dalla veletta. La piccola mano guantata era raggricchiata sul piccolo revolver, che ella aveva preso nella scrivania di suo marito, prima di uscire. Morta, subito. E nella stupefazione terribile di quel minuto, Luigi Caracciolo non faceva niente, esterrefatto, avendo ai suoi piedi, giacente sul tappeto, quella morta, chiusa nella sua negra veste e con la faccia velata di nero, credendo a un incubo, a una pazzia.

Qualche goccia di sangue, adesso, sgorgava dalla breve ferita, sul vestito nero, con una macchia rossa che si dilatava, lentissimamente. Egli, macchinalmente, s'inginocchiò accanto ad Anna, quasi non osando di sollevarne il bel corpo, non chiamando soccorso, inebetito: ne rialzò la testa riversa, vincendo il ribrezzo di fissare il cadavere di una persona amata. Egli vide qualche cosa di orribile, in quel volto di donna morta. Poichè non vi era, in quel giovane viso, quella serenità augusta della morte, che han quelli che compirono il loro fato, senza ribellioni, che dettero il corpo alla terra e lo spirito a Dio, quietamente, consumato il loro corso. La bocca di Anna era contratta dolorosamente, come se ancora dovessero uscire voci, parole da quelle labbra violette: gli occhi erano appena socchiusi, quasi che ancora volessero vedere lo spettacolo dell'universo; in tutta quella figura vi era ancora il dolore immenso, che ella portava seco nella tomba: vi era il dolore di coloro che vissero troppo poco, mentre adoravano la vita; il dolore di coloro che non furono amati, mentre il loro segreto era l'amore: il dolore di coloro che erano la Passione e che furono uccisi dall'Indifferenza.

Così morì Anna Acquaviva, innocente.

 

 

FINE.

 


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