Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
All'erta, sentinella!
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TERNO SECCO

I.

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TERNO SECCO

 

 

I.

 

Alle sette del mattino una chiave girò discretamente nella serratura del quartierino: Tommasina la serva, alzò da terra un secchio di acqua e un paniere di carboni che aveva deposti per riposarsi e per aprire la porta, spinse col ginocchio il battente, per aprirlo completamente, ed entrò un po' di fianco. Era una creatura alta e sottile, scarna scarna con un volto assai giovanile, lungo e bruno; ma la persona gracile, intorno a cui la gonnella di percallo scuro e la baschina di mussola bianca sembravano fodere di ombrello intorno alla semplice mazza, la persona di giovanetta fine e malaticcia era sproporzionata da una grossa pancia che il grembiule di cotonina azzurra disegnava precisamente, che rialzava la gonnella di percalle sui piedi, di mezzo palmo. E appena giunse nella scura cucinetta, Tommasina posò di nuovo per terra il suo carico, e si sedette, per respirare. Ogni mattina, alle sei, partiva dal vicolo Violari al Pendino e andava al suo servizio, in piazza Santa Maria dell'Aiuto, mettendoci tre quarti d'ora, poichè la distanza è grande e poichè non poteva correre, con quel peso che le rallentava il passo: prima di arrivar su, per risparmiare un po' di fatica, comperava il carbone, attingeva un secchio d'acqua al pozzo del cortile e lentamente, lentamente, saliva i tre piani, vacillando, ansando, socchiudendo gli occhi per la pena. Pensava al marito, che era una guardia di pubblica sicurezza e che a quell'ora, forse, rientrava in casa, si buttava a dormire lungo disteso, nel letto vuoto, per riposarsi della dura pattuglia notturna. Quella mattina di sabato, come le altre Tommasina scosse la cenere del focolaretto, per trovarvi qualche carboncino acceso, che vi lasciava appositamente la sera e mormorava:

— In nome di Dio...

Era la invocazione mattutina, quella che tutte le lavoratrici fanno, prima di mettersi al lavoro. Ora soffiava sui carboni per accenderli buttandosi indietro, ogni tanto, perchè il puzzo dell'acido carbonico la nauseava: quando vi ebbe messo su il bricco del caffè, con un po' di ribollitura del giorno prima, cercò nella paniera dei carboni, e vi pescò un uovo ravvolto in una carta. Cercando di fare il meno rumore possibile, sbatteva quest'uovo nel bicchiere, il solo tuorlo, con lo zucchero fine, e soffocava il rumore, per non risvegliare le persone che dormivano nel quartierino. Ma da una delle due stanze che lo componevano, si udì un colpo di tosse, seguito da un altro, da un altro, non troppo forti, non troppo striduli, ma insistenti: vi fu una pausa, in cui s'intese un profondo sospiro, poi per altri tre o quattro minuti la tosse ricominciò, infine si chetò a un tratto. Sbattendo sempre l'uovo nel bicchiere, Tommasina attraversò una stanzetta che serviva da salotto o da stanza da pranzo ed entrò nella camera dove si dormiva, schiudendone le imposte.

Buon giorno, signoridisse la serva, rivolgendosi verso il largo letto.

Buon giorno, Tommasina — le rispose una voce che era stata sonora, ma che una velatura appannava

— Che ora è?

— Saranno lo sette e mezza.

— È tardi, è tardimormorò la voce velata femminile.

E la donna si levò sui cuscini, come per alzarsi e due lunghe treccie di capelli biondi, dove si mescolavano già i bianchi, le piovvero sulla camiciuola. Era una signora di quarant'anni, con un profilo purissimo, con un paio di occhi bigi molto dolci a mandorla, con certe mani così fini e così candide che pareano quelle di una giovanettina.

Caterina, Caterina — fece la signora rivolgendosi alla persona che dormiva accanto a lei.

Ma questa neppure si mosse: col capo buttato indietro sul guanciale, con due lunghe treccie castane sparse sulla bianchezza della federetta, con la rossa bocca chiusa, dormiva così beatamente, cosi profondamente, che la signora, la madre, la chiamò ancora una volta, ma pian piano, come se le mancasse il coraggio di svegliarla.

Povera figliadisse poi, sottovoce, come se parlasse fra .

E incrociò le delicate mani bianche sulla coperta. Tommasina, appoggiata alla spalliera del letto, famigliarmente, guardava Caterina, la fanciulla quattordicenne, dalle folte sopracciglia nere, dal naso rincagnato.

Perchè dite: povera figlia? Sta benissimo, Dio la benedica.

— Vorrei che dormisse sino a tardi che non fosse costretta andare a scuola — fece la madre, mentre quietamente, modestamente, cominciava a vestirsi.

Va alla scuola e impara la virtù disse sentenziosamente Tommasina — se io sapessi leggere, non farei la serva.

La signora che era davanti allo specchio crollò il capo malinconicamente, piccola, magra, di forme assai eleganti, non guardava neppure in quella spera verdastra, dove le faccie apparivano pallide, pallide: e passava lentamente il pettine in quei suoi lunghi capelli biondi, una meravigliosa chioma che si mescolava appena appena di bianco. E tossì di nuovo.

— Quel fosforo di ieri sera mi ha fatto male, Tommasinadisse, sottovoce, dopo il profondo respiro, che emetteva sempre, in seguito alla tosse.

— E non è servito a niente — rispose la giovane serva, cessando di battere l'uovo, già diventato una crema biancastra.

Di sera, quel quartierino della vecchia casa, in uno dei vecchi quartieri napoletani malgrado che paresse abbastanza pulito, era invaso dagli scarafaggi che scaturivano da certi buchi, che uscivano pel condotto dell'acquaio, a torme, che invadevano la cucina, e il cosidetto salotto, tanto che la madre e la figliuola, per ribrezzo, non osavano ricevere nessuno di sera, ma prese dalla nausea, uscivano di casa, malgrado che non ne avessero voglia, malgrado che la signora fosse assai stanca, per la lunga vociferazione della giornata. Ora, Tommasina aveva inventato di mettere del fosforo, come pomata, sulle foglie fresche dell'insalata romana, per uccidere quelle brutte bestie ma la casetta si era riempita di cattivo odore e di luce fosforica, senza ottenere nessun risultato.

— Eppure fo di tutto per tener pulitoborbottò Tommasina, passando nella viottola del grande letto maritale, per svegliare la fanciullona che dormiva sempre.

La signora, mentre finiva di vestirsi, detto uno sguardo attorno. Era così poveramente arredata la casa, che ci voleva poco per tenerla pulita: la stanzetta da letto era presa dal grande letto di ferro, proprio di quelli napoletani, appena digrezzati; vi era un cassettone dal piano di legno, una toilette piccola piccola, meschina meschina, di noce dipinta, un attaccapanni e un paio di sedie. Il mobilio del salotto ora formato da un divano, così detto di Genova, di ferro e crine, di cui si poteva fare un letto, coperto male da una fodera di cretonne, stinta dalle soverchie lavature: da quattro sedie dure, rigide, di forma assai antiquata, da due scansie di libri e da una tavola rotonda, coperta di marmo, solida, lucida, il lusso della casa: vi si mangiava, vi si scriveva, vi si lavorava ed era pulita, bianca, fredda, era l'orgoglio della signora e della figliola. Niente altro. Non l'ombra di una poltroncina, di un tappeto, di una cortina: i mattoni, nudi; le finestre, nude; una nudità gelida.

Ma Caterina resisteva a Tommasina che voleva farla alzare: si voltava dall'altra parte, sorridendo, borbottando, lamentandosi che aveva sonno, che aveva dormito troppo poco ed esclamava ogni tanto, come per rifugio:

— O mamma, o mamma...

— Su, piccola, su, — rispondeva la mamma carezzevolmente, come se parlasse con una bimba di quattro anni.

Caterina asserì che era festa, era domenica: nossignora, era sabato, contraddisse la serva. E la povera ragazza del Cilento, magra e bruna come un'oliva, devota alle due donne come un cane fedele, trascinandosi un poco, un po' ridendo, quasi forzò Caterina a vestirsi, promettendole che l'indomani che era domenica si sarebbe alzata alle dieci, che le avrebbe dato anche a lei l'uovo sbattuto nel caffè, perchè era domenica. La signora, che doveva vociferare tutta la giornata, dando lezioni d'inglese e di francese, si permetteva quel lusso che valeva tre soldi e faceva bene al petto: ma per scrupolo non faceva colazione o stava sino alle cinque, senz'altro che quell'uovo. Ora seduta, pensierosa guardava Tommasina che legava le sottane alla fanciulla: Caterina aveva un corpo robusto, niente elegante, cresceva ad esuberanza e rompeva tutto, vestiti, scarpe, calzette. Giusto il suo vestito di lanetta bigia si era già consumato ai gomiti, si era fatto corto e lasciava vedere un po' le gambe. Caterina si guardava le scarpe e i gomiti, con una ciera desolata: mentre la madre, che a maggio portava ancora l'abito di lana marrone dell'inverno, assai pesante, conservava la grand'aria signorile.

Rompi tutto, piccola figliadisse la madre dolcemente.

— Si rompe, mamma; come ho da fare? E non mi hai promesso un vestito nuovo per gli esami?

— Certamente, certamente — mormorò la signora, con un vago sorriso.

— Questo qui lo daremo a Tommasina, allora, per il suo bambinoesclamò la fanciulla.

La serva voltò il capo, impallidendo: sempre che le parlavano di questo figlio, la cui nascita era imminente e per cui non aveva pronto ancora nulla, neppure un pannolino, si turbava rabbrividiva, già madre, già fremente di amore e di pietà per la sua creatura. Poi guardò in viso la sua signora e le due madri s'intesero, tacitamente, tanto era il turbamento della giovane, tanta era affettuosa compassione della più vecchia. Ma Caterina, rifacendosi le trecce, girando per la casa, cercando i suoi libri e i suoi quaderni canticchiava, portando già le lenti sul nasetto arguto e rincagnato, levando il capo con un atto di fierezza. Aveva bevuto il caffè nero, con un panetto da un soldo, allegramente, mentre la signora prendeva il suo caffè con l'uovo, offrendogliene ogni tanto, quasi presa da rimorso per quel lusso che si permetteva e a cui la figlia non partecipava. Tommasina era ritornata in cucina, bevendo un fondiccio di caffè, in un bicchiere poichè le tazze erano due soltanto, in casa. La signora col cappello in testa, venne sulla porta della cucina o parlò pian piano, per un certo tempo con la serva: le diceva di misurarsi un poco nella spesa quel giorno, poichè le poteva dare solo tre lire per tutto e gliele aveva messe in mano, e guardava la povera serva in faccia dolcemente, quasi volendone invocare la benevolenza e quella guardava le tre lire d'argento, sul palmo della mano, senza parlare, facendo dei calcoli mentali.

— Ci arrivi? — domandò la signora.

Mo' vediamo — fece l'altra pensando ancora.

La signora se ne andò, come sollevata.

Dall'altra stanza Caterina, mettendosi il cappello, gridava ancora.

Tommasina, comprami le albicocche.

Sissignora.

Tommasina, comprami una puntina per l'uncinetto e un'oncia di cotone bianco.

Sissignora.

Tommasina, comprami due palmi di elastico nero per il cappello: questo non regge più.

Va bene.

— Vieni, vieni, piccolamormorava la mamma, innanzi alla porta aperta

— Mi fai trovare oggi tutte queste cose, Tommasina?

— Non dubitate, la Madonna vi accompagni.

Madre e figlia se ne andarono, la figliuola con un carico di libri, di quaderni, e una scatoletta di compassi pel disegno, sotto un braccio; aveva ficcato l'altro sotto il braccio della madre.

— O mamma, tu mi portidiceva, scendendo le scale.

— Ma tu mi sostieni, piccola, — rispondeva la madre.

Tommasina, restata sola, prima di andare a far la spesa si mise a rassettare la casetta. Per l'abitudine napoletana disfaceva il letto, togliendone i cuscini e le lenzuola, e ammucchiava i materassi a capo letto: così sarebbero rimasti sino al pomeriggio, per prender aria. Faceva tutto questo assai penosamente, per il fastidio della gravidanza; quando, scuotendo le lenzuola, vide cadere in terra una piccola carta. Pensò che fosse l'involucro dello pastiglie di codeina che talvolta, quando alla notte era tormentata dalla tosse la signora metteva in bocca, per calmarsi, per dormire. Ma vi era dello scritto, sulla piccola carta e Tommasina la raccolse per conservarla: vi gettò uno sguardo, malgrado che non sapesse leggere. Non sapeva leggere, la povera contadina cilentana, chè non aveva potuto frequentare la scuola di Giffoni, zappando la terra: ma conosceva perfettamente i numeri — e sulla cartina erano scritti tre numeri, con una calligrafia chiara, rotonda.

— Tre, quarantadue, ottantaquattro: è un ternopensò Tommasina dopo aver letto.

E macchinalmente ficcò la cartina nella tasca del suo grembiule di cotone. Contava, quando scendeva per far la spesa di giuocare questo terno, poichè era sabato e poichè era forse una grazia che Dio mandava. Ma come quella carta si trovava nel letto della signora? Era proprio un terno, non era una busta da lettera, una ricetta, un biglietto da visita: era una carta con tre numeri su, senz'altro, da giuocare. E almanaccando, almanaccando, Tommasina cercava ricostruire tutto questo fatto. Forse qualcuno, un prete, o un frate, o qualche anima buona, devota, aveva dato ieri, venerdì, quei tre numeri alla signora: o forse lei, che era veramente un'anima santa, li aveva pensati così, per un caso. E come è l'abitudine di chi giuoca, in Napoli, un terno incerto e a cui tiene assai, assai, la signora aveva fatta la prova. Vale a dire che, prima di andare a letto, il venerdì sera, aveva scritto i tre numeri sopra un pezzetto di carta, mettendoli poi, spiegati, sotto il guanciale e pensandovi, pensandovi intensamente, nella notte dal venerdì al sabato. — Se questi numeri si sognano, in quella notte, vuoi dire che sono buoni e che usciranno sicuramente: se non si sognano, vuoi dire che sono cattivi e che non vale la pena di arrischiarvi neppure due soldi. Così doveva aver fatto la sua signora, che essendo tanto buona, tanto buona, non poteva che sognare e conoscere i numeri certi.

Chissà! — pensava Tommasinachissà! la signora mi avrà dato solo tre lire per la spesa, per giuocare qualche cosa di più, che la Madonna la possa benedire e aiutare anche me...

Prese uno strofinaccio pulito, in cucina, per mettervi dentro la spesa, poichè, da tempo, la cesta di paglia, testimone dei bei tempi lontani, in cui si compravano al mercato polli e raguste, si era sfondata. Giusto, sul largo pianerottolo, la vicina di casa, che era anche la padrona del vecchio palazzo, donna Luisa Jaquinangelo, fiancheggiata dalla sua serva Concettella, contrattava dei pomidoro, con un venditore ambulante, che era stato chiamato su, dalla strada, ed era venuto con due larghe canestre piene di pomidoro. Concettella ed il venditore erano inginocchiati, uno da una parte, uno dall'altra delle canestre: e Concettella, quando vedeva mettere nella bilancia del venditore dei pomidoro troppo piccoli o troppo maturi, stendeva la mano e cambiava il pomodoro: il venditore levava il capo e si metteva a protestare, non volendo più vendere nulla, posando la bilancia. Donna Luisa Jaquinangelo, ritta sulla soglia, assisteva, tranquilla, mettendo ogni tanto una parola: era assai brutta, dal viso prominente di capra, ma correttamente pettinata dalla pettinatrice, avvolta in una vestaglia di tela di Russia, gran lusso in quel vecchio palazzo di S. Maria dell'Aiuto; e malgrado la sua ricchezza e la sua bontà, era il segreto tormento della sua famiglia. Disoccupata, senza preoccupazioni di avvenire, senza guai, senza noie, il suo spirito si accaniva alle più piccole cose dell'esistenza: e il marito, i figliuoli, le serve, i fornitori se la vedevano sempre intorno, puerilmente curiosa, noiosamente premurosa, non maligna, ma pettegola sino alla esagerazione, sensibile sino alla ingenuità, entrando in tutte le cose, in tutti i fatti che non la riguardavano, volendo conoscere la vita di tutti, credendosi la più sublime fra le donne, mentre le medesime persone che beneficava e che amava, la dichiaravano la più seccante fra tutte. E uno dei suoi grandi divertimenti, mentre era una signora che poteva mandare ogni mattina la cuoca al mercato, era di chiamare su i venditori, sul pianerottolo e discutere il prezzo di un chilo di pesche, per un'ora.

Buon giorno, Tommasinarispose donna Luisa al saluto della Cilentana. — Ebbene, come va? Stai facendo la cura di minestra borraggine, come ti ho detto?

Signora mia, io mangio quello che trovodisse quella, fermata vicino alla canestra dei pomidoro. — Ci vorrebbero i soldi, per far la cura. — Bell'uomo, a quanto li vendi?

— A quattro soldi il chilo.

Gesù! E dove li hai visti, questi quattro soldi, nelle mani di qualcuno? Sai che siamo alla fine di maggio? Fra poco li dovrete dare a un soldo il chilo.

Ebbè, allora lascerò di fare il venditore e mi metterò a fare il signoredisse, in aria canzonatoria quello dei pomidoro.

— Se me li dai per due soldi un chilo, ti do anche i numeri, bell'uomo!

A questo punto il venditore levò il capo, Concettella saltò in piedi e donna Luisa Jaquinangelo tese il mento di capra, come quando udiva una cosa interessantissima.

— Te li ha dati un monaco? — chiese a Tommasina

— Sarà stato il confessoreosservò Concettella

— Le belle ragazze trovan sempre chi loro i numeridisse il venditore ridendo.

— Che ve ne importa? o monaco, o confessore, chi vuoi prendere alla bonafficiata oggi, dove giuocare tre, quaranta e ottantaquattro: numeri certi, e il governo crepa!

— Come si giuocano? — domandò donna Luisa.

— A piacere, signora mia, ma non servono per voi: servono per chi gli manca il soldo come a noi. Me lo dai, questo chilo di pomidoro?

— Te lo do; ma se non esce niente, domani vengo a prendere i due soldi.

Domani, andiamo tutti in carrozzadisse un po' ridendo, un po' malinconicamente Tommasina, sorvegliando il peso del chilo.

Il venditore se ne scendeva, con la canestra sul capo, pesantemente.

Senti, Tommasinadisse donna Luisa Jaquinangelo — questi sono sei soldi, per farti una minestra di borraggine... Ma no meglio che non te li dia, tu puoi farne altro uso, vieni alle tre, oggi, e Concettella ti farà trovare la tua minestra, ben condita di olio: la devi mangiare avanti a me, se no, non sono contenta.

Dio ve lo rendadisse Tommasina, scendendo lo scale pensando che sarebbe stato meglio per lei avere i sei soldi, mentre donna Luisa Jaquinangelo e Concettella, sul pianerottolo chiacchieravano fra loro, per stabilire come si doveva giuocare quel biglietto.

Sotto il portone Mariangela discorreva con Gelsomina. Mariangela era la cameriera della marchesa Casamarte, che abitava al primo piano nobile, una gran signora, per quell'ambiente borghese, l'aristocrazia del palazzo Jaquinangelo, che aveva la carrozza nel portone del palazzo Ricciardi, dirimpetto, e passava ogni tanto, vestita di seta, con un gran naso borbonico nel viso lungo e smorto, e un gran profumo di joekeyclub. Giusto Gelsomina era la figliuola del portinaio del palazzo Ricciardi: una bellissima giovine, fiore di bellezza provocante e inebbriante vestita di teletta con le scarpe scalcagnate, le calzette di cotone rosso stinto e il viso incipriato delle monelle napoletane: mentre discorreva con Mariangela, faceva rapidamente delle stelle, all'uncinetto, con cui formava delle coperte, che vendeva alle fidanzate dei dintorni, poichè allora la moda popolare delle spose era la coperta all'uncinetto, col trasparente roseo o azzurro.

Vai a far la spesa? — domandò a Tommasina, Mariangela, la cameriera elegante, col cappello.

— Già. E tu, dove vai?

— Lo dicevo qui, a Gelsomina che si vuol maritare e che non sa chi scegliere, fra don Giovanni Caccioppoli, che è un signore, o il giovane di Rigillo, il parrucchiere: è meglio scegliere il giovane del parrucchiere; un signore, mai.

— E che ci entra, questo, Mariangela.

— Ci entra, ci entra, perchè in casa nostra non ne possiamo più, la marchesa e io, chè, proprio, se non avesse me, si butterebbe in un pozzo! Da una parte il marchese, che quando rientra a casa all'alba, è una meraviglia, perchè spesso non torna punto o si mangia tutto, e lascia stare quella povera anima di Dio della marchesa senza un soldo: dall'altra il contino che ogni tanto se ne viene fresco fresco dalla cugina a dirle: Benilde, hai cinquecento lire? — Che deve fare la marchesa, che possiamo fare? il contino non ne sa nulla, delle nostre ristrettezze; il marchese, ogni volta che gli si dice qualche cosa, butta in faccia i beni parafernali e lo spillatico: duecento lire il mese, quando si vedono, e se la signora viaggia, dove pagare da il biglietto. Che s'ha da fare, figliuole mie? Si vende e s'impegna. Volete vedere?

E attirò Tommasina e Gelsomina più sotto l'androne, si guardò attorno, cavò dalla tasca un astuccio di pelle rossa, lo aprì: sul velluto bianco brillava uno spillo grande, a ferro di cavallo, di brillanti e rubini, scintillanti nella penombra dell'androne.

— Che cosa bella! — esclamarono le due interlocutrici.

— Non piange anima di portare questa roba al Monte di Pietà? E che, è questo soltanto? Non sarebbe niente. Abbiamo impegnato i solitarii della nonna principessa, la collana di perle che ci ha regalato al matrimonio la zia Clotilde, che poi si fece monaca a Donnalbina, abbiamo impegnato tre braccialetti. Per fortuna che ora è estate e tutte queste cose non si portano. Ma ci vorranno migliaia per ispegnare tutto, quest'inverno

Croce per tutti — mormorò Tommasina, — facendo per andarsene.

— Ci vorrebbe un ternodisse Gelsomina, sogguardando nella via, se compariva don Giovanni Caccioppolli, o se il giovane di Rigillo apparisse sulla porta della bottega.

— E chi te li , i numeri? — esclamò Mariangela.

Io sto giuocando sei e ventidue da otto anni; tutti lo aspettano questo ambo. Ne dovrà pagare centinaia il governo, quando esce.

— Io tengo sessantaquattro per estrattodisse Gelsomina, sferruzzando sempre alacremente con l'uncinetto — ma ci vogliono troppi denari, per prender qualche cosa, con un estratto.

— Il terno mio è: tre, quarantadue, ottantaquattrodisse Tommasina, andandosene.

E scantonò per la via dei Banchi Nuovi: subito Gelsomina lasciò Mariangela, poichè al cantuccio di via Eccehomo, dove sta il lustrascarpe, era comparso Federico, il garzone del parrucchiere. Piccolo, con la camicia candidissima, dal goletto largamente arrovesciato, con la cravattina di seta rossa, la gabbanella nera senza falde, la scriminatura che partiva dalla fronte e finiva sulla nuca, i capelli a spazzola lievemente arricciati alle punte, Federico era l'ideale dell'eleganza, per Gelsomina Santoro, la bellissima, la instancabile lavoratrice di uncinetto. Certo don Giovanni Caccioppoli era un signore, cioè faceva da procuratore all'avvocato Solimena, al terzo piano del palazzo Ricciardi, ma aveva quarant'anni, la faccia scialba e la barbetta rada di uno che esce dall'ospedale. Ah! Gelsomina preferiva assai Federico, il parrucchiere che si dava un po' l'aria dello sdegnoso, del don Giovanni popolano come tutti i giovanotti del suo mestiere: e ogni volta ci poteva chiacchierare, alla cantonata, o presso la porta di Santa Maria dell'Aiuto, o accanto alla bottega, era felice. Ora Federico aveva messo il piede sul banchetto del lustrino e si faceva lustrare gli stivaletti di vitellino, dallo sciancato lustrascarpe: e sogguardava Gelsomina; e Gelsomina, attratta da quelle occhiate, si avvicinò lentamente, senza lasciar di lavorare all'uncinetto, tirando un momento il filo del gomitolo che aveva in saccoccia.

Salutiamodisse Federico.

Buon giorno a voi — disse Gelsomina.

Candele, candele, chi vuole candele — si mise a borbottare lo sciancato, lustrando a più non posso lo stivaletto.

— Oh Domenico, non fate il cattivoesclamò Gelsomina.

— E che ne avete fatto, donna Gelsomina, del vostro avvocato? — disse ironicamente Federico, accendendo un mozzicone nero.

— Io non ho avvocatidiss'ella, dispettosamente. — Quando ho una lite, mi difendo da me.

— Eh brava, donna Gelsomina, siete assai guappa: ma io parlavo di don Giovanni Caccioppoli; quello lo conoscete.

— Lo conosco: ma non ne so niente. Sarà morto, credo.

— Non parlate così: quello vi vuole sposare.

Sicuro! Ma ho altre idee io..

— E si possono conoscere, donna Gelsomina, queste idee?

— E a voi che ve ne importa?

Candele, candele! — strillava lo sciancato lustrascarpe.

Donna Gelsomina, quanto è vero il giorno di oggi, se prendo un terno, combiniamo qualche cosa insiemedisse seriamente il parrucchiere.

Perchè non giochiamo insieme, oggi, il terno di Tommasina, la serva della signora francese?

— Che terno è? — disse Domenico, il lustrino, rizzandosi a malapena, con la vivacità che gli consentivano le sue gambe sciancate.

— Tre, quarantadue, ottantaquattro — fece Gelsomina.

— Non esce, non esceprotestò Domenico.

— E perchè non esce? — domandò Federico.

Perchè, creature mie, la cadenza di cinque, questa settimana, non sbaglia: ne usciranno due, di cadenze. Perchè il monaco di Santa Maria la Nova ha parlato dei sorci, chè la chiesa e il chiostro ne son pieni, sicchè undici, numero dei sorci, è sicuro: perchè da certi calcoli miei, il sessantanove, questa volta, è bello assai e forse, forse e senza forse, il diciotto, della settimana scorsa, si ripete, e sfoga da sopra, uscendo diciannove.

E infatuato, di sotto il banchetto dove conservava il lustro e le spazzole per lustrare, Domenico lo sciancato cavò certi fogli sporchi, unti, mezzo laceri: pezzi di giornali cabalistici, pezzetti di carta a forma di cuore, dove s'infittano le cifre, straccetti sparenti sotto le piramidi dei numeri: e con gli occhiali sul naso Domenico sfogliava febbrilmente quei foglietti sucidi e borbottava:

— Niente; niente, questo terno non esce! E poi, chi lo ha dato? Un monaco? Un cabalista? Un assistito dagli spiriti buoni? Niente affatto. Non si sa. Sto terno non esce.

— E non importa, non importa, zi Domenico: serve per far la prova. Chè ce li avete cinque soldi, Federico? Giochiamo mezza lira in due.

— Sempre a servirvi — fece questi galantemente. — Volete che metta anche i vostri?

Scusate, scusate — fece la fanciulla alteramente — a questo ci devo pensare io. Se no, il gioco non va. Vi fidate che faccia io la giocata e che conservi il biglietto?

— Sta in buone manidisse l'innamorato, galantemente...

E si divisero, lui per ritornare alla sua bottega dove cominciava ad affluire gente, lei per avviarsi lentamente al banco del lotto, in piazza Santa Maria la Nova. Ma Domenico lo sciancato rimaneva immerso nelle sue cabale, crollando il capo, sorridendo, rialzandosi gli occhiali sul naso tanto che vide il piede di rachitico del giudice Scognamiglio, che si era posato sul banchetto, per la lustratura. Il giudice piccolo e gobbo, dalla palandrella di panno nero e dal panciotto, dal cappellino di paglia adorno di un largo nastro nero, battè il piccolo piede, con impazienza, per farsi servire presto.

Cerco scusa a Vostra Eccellenza — fece lo sciancato, tutto confuso — eccomi pronto.

E battè vivamente con la spazzola sul banchetto, mentre soffiava la polvere dalla picciola scarpa del giudice Scognamiglio.

— Sempre numeri, sempre numeri, Domenicodisse severamente il magistrato.

— Che ci volete fare, Eccellenza, è la passione.

— È un vizio, Domenico.

— E allora perchè lo mantiene il governo? E a chi faccio male io, giocando? Non ho figli, non ho moglie, quello che guadagno, mi basta, e quando non mi basta, non cerco niente a nessuno. Mi ubbriaco forse? Dico male del prossimo? Tiro coltellato? Rubo?

— È un vizioribattè il magistrato.

Scusate, Eccellenza, ma qua vi sbagliate. Io non gioco il denaro degli altri, gioco il mio: sono o non sono il padrone?

— Ma se vincessi, che faresti?

Darei da bere e da mangiare a tutto il vicinato fece lo sciancato, con un gesto di superba larghezza.

— E il resto? Lo giocheresti ancora.

— Eh, si sa! — fece quello con un gesto di obbedienza alla fatalità.

— Da quanti anni giochi, Domenico?

— Da quando avevo otto anni, Eccellenza. Sono cinquant'anni.

— E quanto hai vinto?

— Due volte, soltanto: una volta cinquanta piastre: un'altra volta quindici lire.

— E nient'altro?

Nientaltro.

Vedi bene che non vi sono molte probabilità e che il governo ci guadagna.

— Ma non già quando ha da fare con gente come noi. Ci stanno per Napoli, Eccellenza, uomini dotti, uomini di matematica, monaci santi e istruiti, anime illuminate, che sanno bene i numeri.

— E li giocano?

— Certi sì, certi no — continuò misteriosamente il lustrascarpe.

— E vincono?

— Qualche volta. Sono combinazioni. Certe volte si sanno i numeri, ma il Signore vi acceca e non ve li fa giuocare: certe volte non si sanno interpretare, certe volte manca la fede. lo li sento all'odorato, i numeri che non escono: poco fa è venuta Gelsomina, qua, la copertara, e mi ha letto che essa giocava tre, quarantadue e ottantaquattro. Che voglio morire, se se ne vede uno sulla tabella. Ho cercato di dissuaderla, è stato impossibile.

— E tu che giochi, invece?

Gioco questo bigliettone.

E fece vedere al magistrato una filza di terni, ambi, quaterne, dei biglietti financo di sette numeri. Quello crollò il capo, pagò un soldo la pulitura delle scarpe e se ne andò tutto pensieroso, verso la via dei Tribunali. Pensava, cosi, naturalmente, alla sua famiglia di cinque flgliuoli, fra cui quattro femmine, brune, piccole, rachitiche, bruttissime, che non avrebbero certo trovato marito; e che facevano tutto in casa, la cucina, il bucato, la stiratura, cucivano la biancheria, cucivano i vestiti e intanto, malgrado gli sforzi della economia, avevano sempre l'aria così miserabile, così infelice, che egli non osava condurle mai a passeggio. Almeno avesse potuto metterne una alla scuola! Erano così brutte, così brutte, che neppure il padre si faceva illusioni sul conto loro. Egli si tastava in tasca, dove trovava le due lire che portava sempre, per ogni evenienza, ma che non spendeva mai, perchè si asteneva da tutto e annasava solo tabacco, due soldi ogni due giorni. Come gli era venuto in mente d'ammogliarsi quando ora vice-pretore a Frosolone? E la ragazza, Amalia, che non aveva un soldo di dote, come le sue figliuolo, del resto, lo aveva sposato, malgrado ch'egli fosse gobbo. — Credo che le mie figliuole sposerebbero un sordomuto, uno sciancato, chiunque — pensava. Oh, se lo facessero vicepresidente, potrebbe mandare qualcuna delle ragazze alla scuola normale, o al telegrafo, per imparare una qualche cosa, da vivere, almeno! E se ne andava in Tribunale, lentamente, tutto severo nella faccia; soltanto, invece di voltare per la strada Pignatelli, dove ogni mattina trovava il giudice Inzenga e si accompagnava con lui, voltò, insolitamente, per via di Mezzocannone e insolitamente quella mattina di sabato, il giudice gobbo Scognamiglio giunse al Tribunale mezzora più tardi.

Intanto Federico era rientrato nella bottega del parrucchiere Rigillo e si era dato al lavoro, poichè una quantità di gente arrivava per farsi radere la barba, per farsi tagliare i capelli. E fra avventori frettolosi e indolenti, fra i giovani del barbiere, era il gran discorrere del sabato mattina il discorrere dei numeri, chi giocava, chi non aveva mai giocato, chi aveva il proprio biglietto prediletto. E Federico, con quella rispettosa famigliarità della gente piccola napoletana, a tutti quelli cui radeva la barba o a cui tagliava i capelli, andava ripetendo:

— Se accade un fatto come io spero, oggi non mi vedete più qui, signore mio.

— Che fatto? — domandava l'avventore, fra i fiotti bianchi del sapone, fra lo scricchiolio delle forbici.

— Un terno, che debbo vincere.

— Un terno?

— Un terno sicuro: tre, quarantadue, ottantaquattro.

— Chi te l'ha dato

— L'innamorata mia. Se vinciamo, cambiamo stato.

E l'avventore, anche il più scettico, restava pensoso, mentre Federico gli dava una spazzolata al soprabito.

Gelsomina, intanto, prima di arrivare a Santa Maria la Nova, dove il banco lotto era affollatissimo, si era fermata nella piazzetta dell'Aiuto; era entrata nella bottega di Peppino Ascione, suo cugino, quello che faceva i santi. La bottega era piccola e i cinque o sei santi, grandi, al naturale, di legno scolpito, la riempivano. Veramente Peppino Ascione faceva loro solamente la testa, le mani e i piedi, di stucco, delicatamente dipinti: ma egli era il primo stuccatore di santi dei Banchi Nuovi, che pure è il quartiere tradizionale dove si fanno i santi. Quando occorreva, dipingeva anche i vestiti, sul legno, passandovi mollemente sopra il pennello, intriso in una tinta assai ingenua: la tonaca azzurra della Madonna Immacolata cosparsa di stelle d'oro e d'argento, la tonaca bigia e il mantello azzurro del grande S. Giuseppe, la tonaca marrone del poverello di Assisi. — Ma preferiva, in verità, come tutto il popolo napoletano preferisce, le statue dei santi vestiti veramente, di lana o di seta, con una vera tonaca ricamata o trapunta con un vero cordone. Ma dove l'arte di Peppino Ascione diventava immensa era nelle figure del Cristo alla colonna, coronato di spine, con la faccia rigata di lagrime e di sangue, col petto stillante sangue e la piaga aperta nel costato: nessuno, nessuno sapeva fare un Ecce homo straziante come quelli di Peppino Ascione! E ne avrebbe potuto guadagnare danari, il giovane stuccatore! Ma lo consumava una inguaribile anemia, per cui avrebbe dovuto non fare quel mestiere sedentario, fra gli odori acri dei colori mescolati allo stucco, nella piccola bottega della piazzetta dell'Aiuto. Era così smorto e fiacco, con le gengive bianche e la cartilagine dello orecchie cerea, che rimaneva delle ore innanzi a un trionfante S. Michele Arcangelo, senza poter neanche levar la mano per strofinar un poco di oro sulle piastre della corazza del vincitore di Belzebù. Guardava, con l'occhio appannato, i suoi santi che venivano grezzi dallo scultore e se ne andavano tutti rosei, tutti estatici, con gli occhi azzurri rivolti al cielo, con le mani delicate che imploravano grazie dal cielo, o ne diffondevano sulla terra: Santa Filomena, con lo strale che sembra una penna: S. Rocco col ginocchio scoperto e piagato, seguito dal suo cane fedele; S. Biagio vestito da vescovo, in atto di benedire; S. Vincenzo Ferreri col libro aperto in mano e la fiamma dello Spirito Santo sul capo. Peppino Ascione li guardava, estatico, malinconico, come se chiedesse loro la grazia della guarigione. Accanto a lui, sul tavolino, fra il bianchetto e il vermiglione si raffreddavano i maccheroni al pomodoro, che sua madre gli mandava, ogni giorno, da S. Giovanni Maggiore, dove abitavano, si raffreddavano in un largo tegame di creta rossa, senza che Peppino Ascione li toccasse, poichè non aveva mai fame. Neppur beveva al fiasco di vino di Marano, al fiasco di vetro verdastro, chiuso da una foglia di vite accartocciata: poichè egli, preso da una invincibile debolezza, esclamava:

— Niente ci può, niente.

Quando Gelsomina entrò nella bottega, quella mattina egli formava una coroncina di rose artificiali per metterla sul capo biondo di una Madonna della Saletta tutta vestita di bianco, con le manine rosee nascoste sotto le ampie maniche di lana candida.

Peppino, mi presti cinque soldi?

— Ti servono per comperare il cotone della coperta?

— No, mi servono per giuocare certi numeri.

— Sono numeri buoni? — domandò languidamente Peppino Ascione. — Escono?

Speriamo. Se vinco, mi sposo con Federico, il giovine del parrucchiere Rigillo. Vuoi giuocarli anche tu?

Tieni, mettici una lira per conto mio ma farai il terno asciutto, perchè me ne importa poco di vincere un ambo di quindici lire.

— Se vinci, che fai, neh, Peppi?

— Se vinco? Lo so io, che faccio. Io chiudo la bottega e me ne vado a un paesetto che si chiama Pugliano, sopra la montagna di Somma, dopo Resina. Fuoco dentro la terra e sole sulla testa: ci sta brodo di vaccina, latte fresco e vino buono: faccio una passeggiata ogni mattina, per quei paesetti — e mi vedete tornare grasso e grosso, dopo sei mesi.

— E non fai più santi?

Santi? Voglio fare, se ho questa grazia, una Madonna Addolorata, come non se ne è mai visto: e la voglio regalare alla chiesa di Pugliano. Deve avere il vestito di grossa seta nera, tutto ricamato di oro fino, e un manto simile che deve essere una meraviglia; nelle mani un fazzoletto bianco di vera battista, con un largo merletto. La corona che porta sulla testa, deve essere di argento dorato: le sette spade che porta ficcate nel cuore, debbono essere di argento dorato. E hanno da venire da tutti i paesetti intorno, e anche da Napoli, nella chiesetta di Pugliano per pregare la bella Mamma Addolorata.

— E perchè la Madonna Addolorata, Peppino, e non un'altra?

Perchè quella è la migliore Madonnadisse Peppino con profondo convincimento.

 


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