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TRENTA PER CENTO
I.
Il professore Alessandro de Peruta aveva finito la sua mattinale lezione di storia, nella terza ginnasiale del primo reale educandato. Alfonsina Barracaracciolo, la maestra di guardia, una pallida anemica e taciturna, lo aveva riaccompagnato per il lungo corridoio ad archi, che fiancheggia il giardino sino alla grande anticamera conventuale dai banchi di quercia e dal largo tavolone nero: ivi lo aveva salutato a bassa voce e se ne era andata, lisciando con le magre dita della mano sottile i capelli di un biondo tenuissimo. Ritto presso il tavolone, chinando la contorta persona di rachitico, chinando la grossa testa dal viso giallastro il professor Alessandro de Peruta firmava lentamente il registro di presenza, mentre Barbarella la custode, continuava a far la calza. Ma mentre passava la carta rossa asciugante sulla firma sgorbiata, che la scarna mano cadaverica aveva tracciata, sopraggiunse la maestra dei lavori Clorinda Fasulo una grossona alta e ridente, dalle grosse guancie lucide e colorite, dal vestito di lana stretto tanto che pareva crepitasse, a ogni minuto, a ogni movimento delle spalle rotonde, a ogni movimento delle braccia rotonde come pali.
— Buongiorno, professore, buongiorno — disse ella, allegramente — potete trattenervi un minuto?
— Volentieri — disse lui, guardandola rispettosamente il piccolo e meschino professore, in ammirazione davanti a quella forte grassezza.
— Dovreste farmi un favore. Conoscete la banca Ruffo-Scilla?
— Nossignora, non la conosco — disse lui con un vago sorriso — non conosco nessuna banca.
— Non importa, qui vi è l'indirizzo. Credo che sia sulla vostra strada. Ora, se non vi dà fastidio, dovreste mettere sulla banca queste settecento lire. Trecento lire a nome di Elisabetta Fasulo che è mia sorella e quattrocento a nome di Clorinda Fasulo.
— È una cassa di risparmio? Debbo avere un libretto? Due libretti?
— No, professore. Margherita Lombardi, che ci ha messo centocinquanta lire, due mesi fa, ha avuto una semplice ricevuta, ma col timbro della banca e cinque o sei firme. Così anche Teresina Farnese, nostra economa, così Filomona Scognamiglio la maestra delle piccole. Una ricevuta, una semplice ricevuta. In capo al mese, dal deposito si hanno dodici lire sopra cento.
— Dodici lire sopra cento ogni mese? — fece lui sgomentato.
— Già, dodici lire — disse lei ridendo clamorosamente, facendosi più rossa e più lucida per la risata.
— Non mi pare possibile, — egli soggiunse.
— Margherita Lombardi, Teresina Farnese e Filomena Scognamiglio le hanno avute, — disse trionfalmente Clorinda Fasulo.
— È un imbroglio, allora, signorina Fasulo — mormorò timidamente il professore, che non pronunziava mai ad alta voce una opinione recisa.
— Ma che! Ruffo-Scilla è un signore, è un galantuomo, ha qui dentro delle nipoti.
— Ma come può dare un interesse così favoloso?
Clorinda Fasulo tacque per un momento, poi guardandosi attorno, disse quasi all'orecchio del professore Alessandro de Peruta:
— Ruffo-Scilla fa affari con Rothschild: sono denari di Rothschild.
— Ah — fece quello, profondamente.
Pure nella sua coscienza rigida di equità, egli tentò un'ultima prova:
— Perchè non li portate voi, signorina Fasulo?
— Perchè usciamo sempre di domenica, da questa casa, e di domenica la banca è chiusa. Peccato! Ci deve essere sempre una gran folla, a questa banca: chi volete che non profitti? Noi ci abbiamo messo le nostre economie di due anni; capite che con le trenta e le quaranta lire che abbiamo di mesata, mia sorella e io, non ci è molto da fare economia. Come volete che non si mettano i denari alla banca Ruffo-Scilla?
— Vi servirò, — disse lui, — sebbene avrei preferito veder fare a voi il deposito. Potete pentirvene, può succedere qualche guaio..
— Quando ci è quella persona lì, — disse ella ammiccando maliziosamente al barone di Rothschild lontano, — si può stare sicuri.
— Vi servirò, ripetè lui, infilando i guanti di lana e volendo, a ogni modo, procurarsi delle amicizie nell'educandato.
Pure, passando la grande porta di quercia che Barbarella la custode aveva schiusa, tutta pensosa, il professore Alessandro de Peruta sentì subito il tormento di quei quattrini che aveva presi da Clorinda Fasulo. Quando aveva portato addosso settecento lire, il povero professore? Non le aveva mai possedute e mai portate: era un miserabile professore di storia, un incaricato, neanche un titolare, che con due scuole e un paio di scolari arrivava a combinare centosettanta lire al mese con cui viveva lui, a Napoli, sua madre e sua sorella a Giffoni Vallepiana, nel Cilento. Non aveva mai visto settecento lire, il gramo professore, che viveva in una stanzuccia mobiliata, alla via Concordia, a quel palazzo Cariati che corrisponde anche sul Corso Vittorio Emanuele, e che è un'immensa riunione di gente povera e di gente ricca. Mentre se ne andava, a piedi, dovendo fare un'enorme distanza e risparmiando anche i tre soldi dell'omnibus il professore tastava ogni momento la tasca del soprabito, dove nei portafoglio largo, sdruscito, di pelle nera consumata, stavano chiuse le settecento lire delle sorelle Fasulo.
Poteva perderle, poteano rubargliele al solo pensarci, ogni tanto, impallidiva, cioè diventava più giallo nella cartapecora del suo volto di trent'anni. Avrebbe voluto andare subito alla banca, deporre subito quel danaro che gli dava un fastidio enorme: ma non aveva il tempo di arrivare al palazzo Faucitano, a Toledo, al largo della Carità, dove risiedeva la grande banca Ruffo Scilla; doveva prima dare la sua lezione alle alunne del secondo corso, alla Scuola Normale, in via del Gesù. E macchinalmente, preso da una costante paura di perdere quei quattrini, teneva la mano sulla tasca, anche quando entrò dal libraio scolastico Gambardella, in via Trinità Maggiore, a prendere un volume di storia, del Muratori, in prestito, come faceva spesso. Il libraio Gambardella, mentre faceva dei pacchetti di grammatichette dello Scavia, ascoltava le parole di un giovanotto alto e biondo, vestito con una certa eleganza:
— Ora vado a portarci cinquemila lire di don Antonio, — disse il giovanotto, soggiungendo il nome di un celebre medico.
— Don Antonio può metterci questo e altro — soggiunse un vecchietto, un pensionato delle antiche intendenze di finanze borboniche, che passava sempre due o tre ore nella libreria di don Filippo Gambardella, immobile, silenzioso, dicendo una frase ogni mezz'ora.
— Voi non ci mettete niente, don Filippo? — disse il giovanotto, con voce insinuante.
— Io vendo libri, — fece l'altro. Ma pure, la voce era malsicura.
— Scommetto che domani vi decidete, — disse ridendo Gaetanino Starace. — Volete che venga domani?
— Ma che siete banchiere anche voi? — disse don Filippo Gambardella.
— No, ma sono amico di Ruffo-Scilla, — rispose l'altro con finezza. — E poi il piacere lo fo a voi, e non a lui.
— Eh già, eh già — mormorò il pensionato, prendendo tabacco. — Dodici lire sopra cento, è un bell'affare.
— Troppo bello, — mormorò don Filippo che esitava sempre.
— Non ci è paura, non ci è paura, — gridò allegramente il giovanotto, — sono denari inglesi, sono denari che vengono dall'Inghilterra.
— Me lo date, questo Muratori? — disse de Peruta, scosso, colpito dalle due versioni che lo ripiombarono nei suoi sospetti.
— Un minuto di pazienza e sono con voi — disse don Filippo Gambardella.
Gaetanino Starace uscì, ridendo, e promettendo sempre di ritornare l'indomani.
— Ci metterete qualche cosa sulla banca Ruffo-Scilla, voi? — domandò il professore, mentre il libraio gli cercava il volume del Muratori.
— Chissà — fece quello, scendendo dalla scaletta.
— Ci metterò forse una piccola somma.
— Anche il lotto è un azzardo: e lo fa il governo e tutti ci giuocano, — osservò il pensionato. — Vorrei tener denaro, io
— D'altronde, sono speculazioni inglesi, — mormorò il libraio, — quella gente d'Inghilterra fa denari con la pala.
— Inglesi? Mi avevano detto che era Rothschild — osservò, dubitando sempre, il professore de Peruta.
— Rothschild? Tanto meglio dunque: stiamo a cavallo. Vedete che questo Ruffo-Scilla sa fare...
Il professore se ne andò, poco convinto, mentre il pensionato pensava che era assai curioso che a loro si desse una rendita e non un capitale: a quest'ora, se possedesse il capitale della sua pensione, con Ruffo-Scilla si sarebbe arricchito.
Il professore de Peruta saliva lentamente per le scale della Scuola Normale, umide e scure, in quella mattina di fine novembre. Nervoso come era, in quel suo malaticcio temperamento di uomo difforme, ora sembrava che il portafoglio nero, con le settecento lire, gli pesasse enormemente sul petto, come un pezzo di piombo. Certo avrebbe fatta una cattiva lezione di storia, egli che era così laborioso, così coscienzoso, che prendeva molto sul serio quel suo incarico tanto malamente retribuito. Nella sala della Direzione, umida, scura e polverosa, come le altre sale, vide il professore di letteratura, un pretonzolo barese grasso e piccolo, parlottare vivamente col direttore della Scuola, un prete lungo lungo, magro, piemontese. Era una fissazione o anche lì dentro aveva inteso sibilare il nome di Scilla, il pericoloso nome di uno scoglio fatale? Passò avanti, salutando, senza fermarsi, poichè sapeva di non essere nè ricercato, nè amato. Era un'allucinazione, o in quei discorsetti sottovoce, fra le alunne distratte che non ponevano mente alla lezione, in quei bigliettini passati da banco a banco e che erano letti, sorridendo, ridacchiando, cercando di reprimere il riso, era un'allucinazione, o qualche cosa che riguardava la banca Ruffo-Scilla agitava quelle ragazze?
Erano esterne, venivano dalle loro case alle otto della mattina, e, certo, varie di loro, in casa, nella strada, nelle visite, avevano udito dire. Invano egli pregava che si facesse silenzio, ora con cortesia, ora arrabbiandosi, cedendo alla sua nervosità di essere infelice e infermo: quelle ragazze erano indomite nella chiacchiera e in fondo non lo temevano poichè egli era nervoso, ma buono come un fanciullo, poichè timido, e malaticcio, e sofferente, non sapeva farsi rispettare da quelle ragazze popolane, impertinenti. Egli non vedeva l'ora che la lezione finisse, per andarsene, per correre al palazzo Faucitano, per depositare quel denaro delle sorelle Fasulo, per non udire più parlare di quella banca, la cui audacia finanziaria, la cui equivoca avventura turbavano la rigidità di una coscienza, che non aveva mai mancato, che non aveva mai transatto.
Ah fu ben felice, quando suonarono lo undici e le fanciulle, vedendolo alzarsi, si alzarono tumultuosamente, salutando in coro, con un altro pretesto per far chiasso:
— A rivederla, professore! A rivederla, professore!
Ora correva per la via, sentendosi opprimere da quel portafoglio nero, sentendosi come perseguitato da quel denaro malaugurato. L'ampiezza del cortile, nel palazzo Faucitano, e la bella scala lo rincorarono. Era giunto in porto e fra dieci minuti sarebbe liberato da quel tormento, avrebbe potuto fare una passeggiata, tranquillamente, per poi andare a studiare alla Biblioteca Nazionale per una sua critica della storia, un lavoro duro, difficile e lungo, che era l'ideale della sua vita di scienziato. Ma vide che altre persone salivano, con lui, le scale: e altre ne incontrò che scendevano. La banca era popolatissima era un gran salone lungo diviso in due parti da una grande divisione di legno acero, biondo, nella quale si aprivano gli sportelli degli impiegati. Vi erano tre sportelli per i depositi e tre per i pagamenti degli interessi ma la gente si assiepava innanzi agli sportelli dei depositi, mentre vi erano solo tre o quattro persone a quelli degli interessi. La parte della sala adibita al pubblico era ammobiliata, con bancaria eleganza, di velluto azzurro scuro, con una frangia oro ed azzurro a grossi fiocchi. Dei fattorini di banca facevano il servizio, in livree azzurro scuro, filettate di giallo; portavano: Banca Ruffo-Scilla. E la gente si affollava innanzi agli sportelli di deposito, stringendosi l'uno all'altro, tenendo sollevata la mano dove avevano il denaro, carte gialle, carte azzurre, carte bigie, a fascetti, a pacchetti, alcune nuove come se fossero uscite allora da sotto il torchio litografico, altre unte e bisunte come se fossero passato per mille sporchissime mani. Non si vedevano, sulle teste, che delle braccia alzate, tenendo il denaro levato in alto.
Il professor de Peruta ebbe un minuto di sgomento:quello che gli era parso un fatto isolato al mattino, come le ore passavano, passavano, gli sembrava che si sviluppasse. si estendesse, si allargasse sempre più, con un movimento rapidissimo. Quella folla lo spaventava: sì ritirò in un cantuccio, si voltò verso li muro, e cavò dal portafoglio le settecento lire delle sorelle Fasulo contandole ancora una volta, dividendole in un gruppo di trecento lire e in un altro di quattrocento lire, mettendosele in mano, divise, mettendosi anche lui alla coda della processione che avanzava lentamente. Pure, l'operazione di deposito era così semplice! Un elegantissimo impiegato, giovane, dai capelli lucidi di brillantina, dai mustacchi arricciati col ferro, che portava alla cravatta una magnifica perla nera e al dito mignolo un grosso brillante legato in oro massiccio, smaltato come se fosse ferro, scriveva rapidamente la cifra del deposito in un piccolo libro, così detto a madre e figlia donde staccava la piccola ricevuta, che, dopo averla bollata, consegnava al depositante. E nel medesimo tempo, con voce forte, per far udire a tutti, gittava il nome del depositante e la cifra del deposito a un altra impiegato, dietro il cancello di legno, un altro impiegato che scriveva in un altro piccolo registro. E i nomi cadevano, così:
— Francesco Jadicicco, quattrocentotrenta!
— Pasquale Foderaro, duemilasettecentosettanta!
— Salvatore Apricena, centoventi!
— Barone Costanzo Vasaturo, settemilanovanta! Rapida operazione, che seguita acutamente da Alessandro de Peruta, lo riempiva di meraviglia. Anche qualcun altro si meravigliava di quella semplicità, quella lestezza, forse avrebbe desiderato maggiori formalità bancarie; ma non osava lire nulla, vedendo che gli altri se ne andavano, allegri, felici, come se fossero liberati da un grave peso, contenti di essersi sbrigati così felicemente.
Come la cifra era più grossa, la gente più indietro avanzava il collo, per scorgere il fortunato che potea mettere sulla banca Ruffo-Scilla delle migliaia di lire mentre essi stringevano timidamente le loro poche centinaia di lire, e sospiravano, pensando ai grossi e rapidi interessi che si sarebbero potuti realizzare con molte migliaia di lire. Ah come li invidiavano, i piccoli depositanti, quelli che potevano portare al miracoloso Ruffo-Scilla, al benefico Ruffo-Scilla, tanti denari, per averne poi, in fine mese molti, e in fine trimestre moltissimi! Il professore de Peruta vedeva tutto questo, e la sua sorpresa cresceva, cresceva. Si rizzava in punta di piedi, piccolo com'era per guardare dallo sportello nell'interno del salone.
E il professore si rammentava bene in quel momento, per una bizzarra legge di ravvicinamento, una impressione avuta, tre o quattr'anni prima, alla capitale d'Italia, a Firenze. Era andato colà in cerca di un po' di protezione, per il posto che aveva poi avuto, nella Scuola normale. Si ricordava che un giorno, specialmente, esaurita la sua pratica, come si dice in linguaggio burocratico, aveva cercato di un amico, un napoletano impiegato alla Banca Nazionale. Non conoscendone l'indirizzo, timido, sopraffatto dalla bellezza e dall'animazione delle vie di Firenze, era andato a cercarlo alla Banca stessa. E tutta la solenne impressione avuta da quei grandi saloni chiari, nitidi e riscaldati dai caloriferi, da quel grande silenzio dove il passo dei frequentatori si faceva cauto, da quelle profonde cortine di reps verde, da quei tavoloni neri, lustri, massicci, da quel lusso di stucchi o di marmi, legni costosi e pesanti, da tutta quella severità, da quella maestà medesima della Banca, gli ritornò. Dietro il grande cancello di legno in un salone, il suo amico gli era apparso fra tanti impiegati che lavoravano, dietro il cancello, seduti sopra certe poltrone alte, scrivendo in immensi registri, lentamente silenziosamente, mettendosi ogni tanto la penna dietro l'orecchio, per verificare in un'altra pagina del registro, una cifra. E dietro il grande cancello era tutta una serie di scaffali profondi, di armadii, che arrivavano al soffitto, di scrivanie larghe e alte, innanzi alle quali lavoravano i taciturni impiegati. Egli era rimasto profondamento colpito e aveva parlato sottovoce al suo amico, dandogli un appuntamento per la sera, per pranzare assieme prima di partire, ma con un po' di confusione, tanto il suo amico gli pareva ingrandito, poichè era una ruota di quell'ingranaggio cosi ampio e così potente. La sera lo trattò con grande rispetto, e ogni tanto si mettevano a parlare lentamente, a bassa voce, della Banca, come di una grande e potente persona assente, come di una deità piena di forza, che li metteva in uno stato di sgomenta ammirazione.
Tutto gli ritornava in mente, ora, fra quel vocio assordante, fra quella gente bizzarra, miseramente vestita, o pomposamente elegante, ma pallida, preoccupata, affaccendata che piegava la sua cartolina di ricevuta e scappava via, commossa, come quando si scappa via dalla bisca; gli tornava in mente sbirciando dietro il cancello, dove non v'erano che due o tre sedie spaiate, o un tavolinetto su cui scriveva quell'impiegato sotto la dettatura di quello che stava allo sportello. Niente: nè uno scaffale, nè un armadio, nè una cassa, nè una scrivania, un vuoto assoluto che gli produsse una impressione di freddo.
— Carlotta Bencivenga, ottocentonovanta!
— Rosario Fuortes, centoventi!
— Gaetano Amirante, dodicimilasettecento!
L'impiegato prendeva i denari di quest'ultimo, che era un grosso uomo panciuto, con un soprabito giallastro e un cappello di feltro giallo, un provinciale evidentemente, e si metteva a contarli. Erano delle carte unte, sporche, ed era anche un sacchetto di piastre, come non se ne vedevano in circolazione, da tempo, monete di Ferdinando secondo di Borbone; era tutto un campionario di carte-valori e di monete d'argento; vagamente, distrattamente contandole, l'impiegato sorrideva. Il provinciale, dietro il quale stava il professore Alessandro de Peruta, seguiva con l'occhio il suo denaro, a ogni moneta a ogni carta, avidamente.
— Dodicimilasettecento, — disse l'impiegato, cominciando la ricevuta.
Aveva messo da parte il denaro, insieme all'altro già depositato, ed era un grande fascio di carte-valori, e un mucchio di monete, d'oro e d'argento. Evidentemente non avevano, lì, dietro il cancello, neppure un cassetto da riporlo. E a malincuore il provinciale se ne separò definitivamente: se ne andò pian piano, dondolandosi sulla persona grassa, come un'oca troppo gonfia.
— Lire settecento, — disse il professore Alessandro de Peruta, — per Elisabetta e Clorinda Fasulo.
— Elisabetta e Clorinda Fasulo, settecento, — strillò l'impiegato dello sportello.
E mise da parte il denaro, accingendosi a scrivere la ricevuta.
— Non lo contate? — disse il professore colpito.
— Per le piccolo somme, mai — rispose nettamente l'impiegato, il cui anello di brillanti scintillava magnificamente.
Elegantemente staccò la ricevuta e la porse.
— Vi siete ingannato — disse gelidamente il professore — dovete iscrivere trecento lire per Elisabetta Fasulo, e quattrocento per Clorinda Fasulo.
L'impiegato represse un piccolo moto d'impazienza.
— Si può correggere la ricevuta — disse — datemela indietro.
E presa la carta, ci faceva sopra delle aggiunzioni a caratteri minuti.
— Nossignore — osservò il professore — questa non è una ricevuta regolare. Ne dovete fare due, in perfetta regola, per le due depositanti.
— Voi avete tempo da perdere, ma noi no — disse con insolenza il bel giovane.
— Mi duole per voi, ma mi darete due ricevute, come vi avevo detto.
— Non vi sarete bene spiegato — fece l'altro, levando le spalle. — Basta, ve ne farò due.
E sospirando d'impazienza, dopo aver lacerata la prima ricevuta, se ne mise a rifare due, compitando le sillabe dei nomi, per dimostrare la sua noia. Poi le staccò:
— Sta bene?
— Bene.
— E passiamo avanti, signor mio.
— Ma nel libro ci lasciate una dichiarazione di deposito sbagliata? — osservò glacialmente il professore, senz'andarsene.
— Oh si fa presto! — disse il bel giovanotto con grande noncuranza.
Voltò la pagina, e con un gesto rapido lacerò dal dorso la ricevuta sbagliata, facendone una pallottolina.
— Voi lacerate un libro commerciale? — domandò il professore terrorizzato.
— Bè? — chiese l'impiegato, con impertinenza.
— Niente — fece il professore, per andarsene.
Allora l'impiegato cacciò il capo dallo sportello e disse voce chioccia:
— Prego questi signori per cinque o sei minuti di pazienza. Ora ritorno.
Vi fu un mormorio di malcontento. E fu visto da tutti il bel giovanotto spiegare sul tavolino il suo fazzoletto di battista, profumato, dall'orlo trapuntato a giorno, e mettervi dentro, alla rinfusa, tutte le cartevalori, inzeppandole, stringendole, mentre quelle sbucavano da tutti gli angoli.
Gliene caddero tre o quattro per terra, e lui o non se ne accorse, o finse di non accorgersene, andandosene. Intanto, l'altro impiegato, in uno strofinaccio grande ma sporco, riuniva tutte le monete, oro e argento, lasciando quelle di rame, disprezzate, in un cantuccio. I due impiegati scomparvero dietro una porta: parve fossero inghiottiti loro e il tesoro dei depositanti. De Peruta li vide sparire: e se ne andò, disperato per quel denaro scomparso, inabissato, sparito.