Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
All'erta, sentinella!
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TRENTA PER CENTO

V.

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V.

 

Al giorno 10 di febbraio il numero delle banche era salito a centodieci, diffuse per tutte le strade di Napoli; e se le prime venti, a imitazione della banca Ruffo-Scilla e della banca Costa, avevano serbato molta decenza negli appartamenti e nel personale, affettando un certo lusso che voleva parere grandioso, consecutivamente, tutte le altre che erano sorte, erano sdrucciolate nella meschinità, nelle strade equivoche, nei portoni oscuri, dove gente di brutto aspetto, mal vestita compiva goffamente le poche e semplici operazioni di deposito e pagamento degli interessi. Bastavano due stanzette e un primo piano scuro dei Guantai Vecchi, del vicolo Stufa San Giorgio, del vico Campane, per crearne una banca, dopo averci messo dentro due figure esose, mal vestite, due scrivanie zoppicanti, due registracci di cartone grosso e quattro sedie di paglia.

Alcune di questo nuove banche erano sorte in quei palazzi di via Tribunali, di Vico Nilo, di via Mercanti, di vicolo Mezzo Cannone, dove ci è di tutto, famiglie borghesi, famiglie di operai, fabbriche di fiori artificiali, ricamatori di oggetti sacri, levatrici, case di povere donne prigioniere del disonore, bigliardi clandestini, alberghi a vil prezzo e agenzie di pegni; anzi, dovunque ci era una agenzia, al piano superiore o all'inferiore, come un rigoglio naturale, sorgeva una banca: e le facce degli impiegati di banca parevano le stesse di quelle che strozzavano il popolo; vi erano delle misteriose affinità nei mobili, nei registri, negli stessi cancelletti di ferro o di legno. Era roba vecchia, unta, puzzolente, quella delle nuove piccole banche, come quella dell'agenzia di pegni e spegni, e gli impiegati avevano gli stessi soprabiti bisunti, le stesse camicie sfilacciate, le stesse cravatte arrossite che lassù nella tetra agenzia. Però, malgrado l'indecente miseria di tutte queste nuove banche, l'interesse era venuto crescendo precipitosamente, come una pallottolina di neve che rotolando dai ghiacciai eterni delle Alpi diventa una valanga. Già il colpo di dare l'interesse anticipato era stato fatto a metà gennaio, tanto che dopo aver consegnato i propri denari a uno sportello, si passava all'altro per aver l'interesse qualche cosa di mai visto, come fantasmagoria, come fulmineità commerciale. E anche questo interesse anticipato aumentò sino al trenta per cento, nella prima diecina di febbraio, tanto che i depositi pioventi da tutta Napoli, da tutte le provincie più vicine e più lontane, assunsero in quei dieci giorni una forma favolosa.

Chi non aveva denaro, se ne faceva prestare: le signore impegnavano i brillanti, l'argenteria, vendevano le ricche vesti; i pensionati impegnavano la loro cartella di pensione; i postieri, tenitori di banco di lotto, che dovevano consegnare il denaro a otto giorni a quindici giorni, lo impiegavano alle banche, per otto giorni per quindici giorni; tutti quelli che facevano delle esazioni per conto altrui, i più onesti, i più scrupolosi, arrischiavano il denaro, solo per poco, naturalmente, come dicevano alla propria coscienza; i proprietari di provincia vessavano i loro coloni, per esigere, per mettere il loro denaro sulle banche: dovunque era un ritrovo di persone, un circolo, una grande famiglia, un padiglione militare, un convento di monache, un ritiro di oblate, un educandato di ragazze, un convitto di ragazzi, dovunque, dovunque, nella prima decade di febbraio la passione del denaro si sviluppò tanto da indurre i più restii, i più poveri, i più economici, i più guardinghi a mettere il loro denaro a una di queste banche al trenta per cento… al mese.

I depositi erano piccoli, ma moltissimi e dal cameriere di caffè alla stiratrice che aveva centoventi lire di economie, dalla pinzochera al capitano dell'esercito borbonico in ritiro, dalla educanda alla sua maestra, dal portinaio al padron di casa, tutti misero del denaro in queste banche. Non già che non vi fosse in molti un sospetto, una vaga paura, come un brivido di diffidenza, non già che non vi fossero delle voci prudenti che annunziavano il crollo di tutta la baracca; non già che non vi fossero, dovunque, delle furiose discussioni fra gli scettici, gli indifferenti e gli esaltati, ma questa paura vaga, questo sospetto, questa diffidenza eccitavano la mente o davano come un pascolo alla fantasia dei depositanti, la gran fantasia meridionale, che ha bisogno di entrare dovunque, anche negli affari di commercio. Quelli che si dibattevano disperatamente, erano gli esaltati, i difensori delle banche a ogni costo, e costoro, insieme agli interessati, facevano una guerra violenta contro un giornale della sera, il Pungolo, coraggioso, onesto, che sin dal principio aveva attaccato banche e non aveva dato loro quartiere, mai. Però, come tutte le cose buone hanno il loro rovescio, erano sorti, come funghi, giornali ligii a queste banche: e tutto ciò portava un grande turbamento. Si era fatto un duello e un innocente era stato ucciso le banche erano già macchiate di sangue. Il Pungolo continuava la sua campagna, malgrado le minacce, lo lettere anonime, le lettere minatorie: e la gran paura di tutti gli interessati non era per l'opinione pubblica, già presa, già vinta, ma era per l'impressione che ne poteva avere il governo, la magistratura la Camera di Commercio.

Pure, freneticamente i depositi crescevano come se un furore di rovina avesse oramai travolto i più umili cervelli, e le più piccole borse si sguernirono di quanto avevano, nei giorni otto, nove, dieci, undici febbraio. Nel pomeriggio del giorno undici febbraio l'interesse, che era restato per dieci giorni fisso al trenta per cento anticipato, fu portato da due nuove banche al quaranta per conto dalla prima o al sessanta per cento dalla seconda.

Ma esse non arrivarono ad avere depositanti, perchè sorte nel pomeriggio del giorno 11: il giorno 12 febbraio, nella mattinata, crollarono le banche, tutte quante, come un castello di carta. E fu così: il giorno prima dallo stesso Pungolo fu annunziato che il procuratore del re, l'indomani, avrebbe spiccato mandato di cattura contro banchieri, collettori impiegati che sarebbero state sequestrate le somme in deposito e apposti i suggelli. Bisogna dire che nessuno ci credette. La notizia era già stata data due o tre volte e poteva essere, anzi fu dichiarata, un pio desiderio del giornale. Non ci credettero neppure gli interessati, che nella notte prima del loro disastro, si mostrarono dappertutto, a San Carlo e al Giardino d'inverno, nelle grandi trattorie e nelle grandi bische, nei balli e nei caffè, con le loro donne, coi loro amici, coi loro parassiti.

Ma alle otto della mattina cominciò il panico: si seppe sicuramente che nella notte Guglielmo Ruffo-Scilla, non potendo più far fronte ai suoi pagamenti, schiudendo gli occhi nell'abisso dove si era lasciato travolgere un po' involontariamente, un po' per fatalità e molto per miraggi fantastici di guadagni, si seppe che Ruffo-Scilla aveva promesso di costituirsi, nella mattinata, al questore e che difatti, si seppe più tardi, immediatamente dopo avvenuto il fatto, Guglielmo Ruffo-Scilla si era costituito nelle mani del questore di Napoli. Notizia fulminea che sgominò tutta la città. Le operazioni di arresto, di sequestro, di apposizioni di suggello cominciarono dopo le dieci, fra la folla piangente che assediava gli uffici, i portoni, tutte le strade innanzi alle banche. Quali facce tutte erano pallide come se le avesse toccate, passando, la mano della morte: ma alcuni erano pallidi e taciturni, alcuni pallidi e convulsi. Quel fallimento per molti era la rovina completa, la miseria implacabile, un disastro di cui non osavano, in quel primo minuto, misurare tutta l'ampiezza, ma di cui già sentivano il peso tremendo; ma per molti quel fallimento era il disonore: avevano preso il denaro altrui, sperando di restituirlo, ed ecco il denaro era loro tolto, senza speranza di restituzione e sarebbero stati accusati di ladrocinio. Costoro erano gli esterrefatti. Si aggiravano fra la folla, smorti, con gli occhi stralunati, non vedendo, non sentendo, non udendo più nulla, pensando solamente che erano perduti. Tnnanzi al palazzo Faucitano un postiere, tenitore di banco lotto, che aveva arrischiato tre giorni prima molte migliaia di lire, appartenenti al Governo, non voleva credere al disastro, e dopo, quando ne fu certo urlava, piangeva, rideva, farneticava dimenandosi come un folle, sgomentando con la sua improvvisa forma di pazzia, quella folla già sgomenta, atterrita! Le guardie lo dovettero condur via, a forza. Ma non fu una scena soltanto, furono tante scene lugubri strazianti. Un vecchio che gridava: Figli miei, figli miei, uccidetemi, sono un assassino; un giovane scialbo che mormorava: non ci è che ammazzarsi, ammazzarsi, e ripeteva continuamente la parola come se fosse impazzito anche lui; un altro vecchio, con gli occhi rossi donde erano sgorgate le ultime rade lacrime della vecchiaia, andava balbettando, come se un urto nervoso gli avesse tolto l'uso regolare della favella. Lo straziante era di coloro che non sapevano ancora nulla e che entravano fra la folla, vinti da un cattivo presentimento:e in quaranta, in cinquanta, tutti si affrettavano a dar loro la cattiva notizia, gridando, strillando, piangendo, imprecando; colui che non sapeva ancora nulla e che apprendeva in così malo modo la dolorosa notizia, diventava a sua volta pallido come un morto, le palpebre gli battevano come se gli occhi non reggessero più alla luce: taluno vacillava, mancandogli il terreno sotto i piedi. Ma il più desolante spettacolo lo presentavano le donne. Dappertutto dove vi era una banca, alla Trinità degli Spagnoli e a Santa Brigida, al vico Tofà e ai Guantai Vecchi, a Toledo e a San Ferdinando, nelle vie grandi, nei vicoletti, nei portoncini, per le scale oscure, per le tetre anticamere, dovunque si vedevano accorrere da tutte le parti le donne, di tutte le condizioni, popolane in baschina e scapigliate, cameriere col grembiule bianco annodato di traverso, mezze popolane con lo scialle pendente da un lato, impugnatrici, mezze signore, e le signore stesse, che avevano preso il primo cappellino capitato e che dietro la veletta mostravano lo stesso pallore, la stessa collera convulsa delle popolane. Straziante spettacolo di mani tremanti, di occhi disperati di' labbra violacee che invano tentavano di reprimere i singhiozzi. Alcune più deboli, più infinitamente desolate, non sapevano frenarsi e piangevano, , nella strada, in un cantuccio di strada, alcune a grosse lacrime silenziose che si disfacevano sulle guance, altre a scoppi di calde lagrime fluenti, nervosamente disperate, come sono i bambini, nei loro grandi dolori. E quel pianto continuo, incessante, che finiva solo in un angolo per ricominciare in un altro, quel pianto di donne desolate, piangenti tutte le loro lacrime sulla rovina di ogni fortuna, di ogni economia, di ogni speranza, quel pianto femminile, in pubblico, nella strada, per le scale, nei portoni, un pianto a cui nessuno sa resistere, era la nota acuta della mattinata lugubre di gennaio.

Ma la scena cambiava di aspetto, quando, finite le operazioni di perquisizione, di sequestro, di apposizione, di suggelli, scendevano per le scale gli ispettori, i delegati, le guardie, in uniforme o travestite, portandosi via i libri, i registri e portando in arresto i banchieri, gli impiegati, i pochi collettori che avevano avuto l'imprudenza o l'impudenza di presentarsi ancora. Allora, a quella specie di lento convoglio funebre, a quel trasporto di cose e di uomini, la folla maschile e femminile sentiva bene che tutto era finito, che tutto era perduto, che non avrebbe mai più riavuto il suo denaro. Un gran clamore fatto d'imprecazioni di lamenti, di urli, di truci bestemmie di pianti muliebri, un clamore, dove mettevano il loro strillo disperato anche i ragazzi tenuti nelle braccia materne, accoglieva la forza pubblica che si portava via i colpevoli; e i più furenti si gettavano contro le guardie volendo toglier loro di mano gli arrestati per bastonarli, per ucciderli, per massacrarli. In alcune banche, ai Tribunali, a Foria, l'ispettore, il delegato dovettero cingere la sciarpa, parlare alla folla furente, per salvare i colpevoli: in altre, ai Mercanti, a Santa Maria La Nova fu chiesto rinforzo ai carabinieri, ai soldati, per impedire che la folla facesse giustizia sommaria dei banchieri. Era impossibile sciogliere gli attruppamenti, impossibile persuadere la gente che era inutile aspettare nella strada, aspettare, aspettare niente. Che! Sotto l'urto di una disperazione invincibile, uomini, donne, giovanotti, non avevano la forza di restare nelle loro case: ne uscivano, correvano alla banca, con una speranza vaga, così, per istinto, per vedere la strada, le mura, le pareti, dove il loro denaro era stato travolto.

Nei circoli, nei monasteri, negli educandati, negli uffici, nelle scuole, nei padiglioni, la notizia del disastro arrivò verso le due: si dovettero sospendere le lezioni, il lavoro; nessuno pensò più a leggere, a scrivere, ma a uscire, ad andarsene, per correre alla banca, per sapere: e chi non lo aveva questo permesso, se lo prendeva da , così, nel gran disordine dello spirito, buttando via ogni riguardo, ogni ritegno, non pensando che a correr via. Verso le tre la folla si venne aumentando, dovunque, di tutti costoro che avevano saputo più tardi la notizia. Monache di casa, maestre, professori, impiegati, operai, vedove di militari, magistrati che allora uscivano dai tribunale: un nuovo elemento vivo di dolore stupefatto.

Ma quelli che sopraggiungevano, alle tre, alle quattro, ansiosi, frementi, trovavano una folla oramai taciturna, nell'oppressione, stanca d'aver troppo parlato, gridato, pianto, bestemmiato, accasciata dal peso di un'aspettativa inutile o che pure restava, attonita, inebetita incapace di rientrare nelle case desolate. Le scene ricominciavano, e tutti quelli che erano colà, dal mattino, e che non avevano neppure più la forza di desolarsi, crollavano il capo, silenziosi, come se volessero dire che la disgrazia propria era più grande di quella di tutti gli altri. Questo nuovo contingente di dolore trovava una folla di anime che si chiudevano in una stupefazione, come se una improvvisa stupidità le avesse tutte colpite. E mentre le deserte officine, le scuole, gli uffici, tutti i luoghi di ritrovo, di vita comune, di convivenza, deserti, si chiudevano, un nuovo tumulto nasceva, un tumulto fatto dai nuovi arrivati fra un lugubre, taciturno coro di coloro che da sette ore assaporavano tutta l'amarezza della loro sventura e ne avevano inondate le vene. E già, coi treni successivi, da Salerno, da Caserta, da Foggia, da Campobasso, cominciavano ad arrivare i provinciali, quelli che erano stati più colpiti nella gran fallita, terribili facce sconvolte, alcune magre e terree, alcune cosi rosse nella grassezza, con gli occhi così iniettati di sangue, che parea dovessero morire di apoplessia in quel momento. Nota curiosa, bizzarra, i provinciali tacevano, non dicevano neppure una parola, guardandosi attorno con occhio diffidente, pauroso: avevano avuto sempre in gran sospetto Napoli e i napoletani: e Napoli, come un bollente crogiuolo di denaro dove tutto si squagliava, spariva, diventava cenere fredda. Ecco, ci erano capitati alla perdizione e si erano perduti: avevano voluto lasciare il loro paese, portar via dalle fide casse il denaro, nascosto da anni, a Napoli: i napoletani si erano pappata tutta quella grazia di Dio, quella bella grazia che essi non avrebbero visto mai più. I provinciali non ci credevano allo facce disperate, alle grida, ai pianti dei napoletani non ci credevano che un solo napoletano avesse perduto una sola lira; credevano così, vagamente fantasticamente, a una grande commedia giuocata da tutti costoro, di Napoli, che avevano mangiato il loro denaro che forse ne portavano ancora in tasca una parte, mentre si disperavano piangendo e gridando. Cupi, tetri con le labbra strette, con le spalle curve di chi ha avuto un forte colpo e si rannicchia in stesso, con certe occhiate oblique di sospetto, i provinciali si aggiravano tra la folla, salivano alle banche, trovavano le porte sbarrate e chiuse coi suggelli, scendevano crollando il capo ironicamente: molti in carrozzella come pazzi, andavano dal questore al procuratore del re, da costui al presidente del tribunale di commercio, aspettavano ore intiere, nelle anticamere popolate di facce simili alle loro, entravano infine, e malgrado la naturale freddezza del ricevimento, si sfogavano in parole amare contro Napoli e i napoletani. Pazientemente le autorità li ascoltavano, dicevano loro che non vi era nulla da fare, per il momento, che bisognava aspettare il rapporto dei periti o quello dei sindaci del fallimento. E i provinciali avevano l'aria di crederci, a queste parole che erano la stessa verità, ma non ci credevano, non ci credevano, uscivano ghignando, sentendo che vi era una trama per rimandarli al paese, loro, provinciali, truffati e gabbati.

Infine le ombre della sera scesero sopra Napoli e lentamente la folla si andò disperdendo: erano come dolorosi fantasmi che sparivano a malincuore, portando seco tutto il peso della propria sciagura, temendo più di tutti l'ora della rientrata a casa, l'ora del comune dolore, l'ora del rimorso. Napoli parve morta, in quella prima notte, dopo il disastro. Il teatro San Carlo e il Giardino d'inverno tennero chiuse le loro porte: tanto, nessuno ci sarebbe andato. I caffè rimasero deserti. E intanto una quantità di ombre solitarie si aggiravano nelle strade più remote, sino a tarda notte: erano tutti quelli che colpiti da una mortale debolezza, non potevano, non potevano rientrare nella loro famiglia. I piccoli alberghi oscuri di Porto, di Pendino, accanto alla ferrovia, ricoverarono una quantità di questi miserabili, tormentati dalla loro coscienza o dal loro dolore. E dovunque il capo di famiglia, o il figlio, o il fratello, o la madre, era rientrato, nelle ore della notte fu un lungo pianto, un lungo gemito; e i bimbi che non sanno, i bimbi che dovrebbero sempre ridere, vedendo quel pianto, udendo quel gemito si mettevano a piangere anche essi, disperatamente, senza sapere, senza capire, non volendosi mai più chetare. Un gran pianto, per tutte le case di Napoli, nei quartieri poveri, nei quartieri ricchi, nelle case più lontano dal centro, dovunque, dovunque: nessuno poteva dormire, nessuno aveva pensato a riposare: tutti ci erano cascati e un po' da per tutto mancava un padre, un figliuolo, un fratello, arrestati, portati a quel duro carcere che è San Francesco, il terrore dei napoletani, a San Francisco, la parola tremenda. E dove non si piangeva, nel gran colpo della fallita, nella perdita del denaro, fra padre e figlio, fra marito e moglie, fra fratello e sorella sorgeva la lite dell'interesse offeso, nascevano, dai rimproveri crudeli, le crudeli offese, e tutto il fango di tante esistenze veniva rimosso, risaliva a galla: dovunque erano gridi, urli, bestemmie invano soffocate. In nome dell'interesse, nel tumulto dell'ora trista, i più cattivi risentimenti, i più cattivi istinti si palesavano, nudamente, crudamente: e i sacri vincoli del sangue si allentavano, i nodi più indissolubili avevano il colpo fatale che li doveva per sempre spezzare. In vari posti, chiamate dai gridi soffocati, accorsero le guardie notturne, quando già brillavano le rivoltelle e i coltelli: in qualcuno di questi posti fu impedito di sparger sangue. Notte d'inverno, lunga, piena di pianto, piena di disperazione, o pure tetra nel silenzio di un inconsolabile dolore. Alla mattina si seppe che erano accaduti quattro suicidii; che erano avvenute molte risse e cinque o sei ferimenti; coi treni della sera, con quelli dell'altra, una quantità di gente era partita fuggendo innanzi alla rovina, fuggendo innanzi al disonore, espatriando, abbandonando casa e famiglie. E già si mormoravano le cifre della fallita, qualcosa di curioso, il modo come salivano queste cifre, ora in ora, con un crescendo spaventoso. Dieci milioni, dodici, quindici; e infine la cifra precisa. Venti milioni la banca Ruffo-Scilla, dieci milioni la banca Costa, quattro milioni e mezzo le altre piccole banche, in tutto una fallita di trentaquattro milioni e mezzo. Colui che non aveva avuto la forza di uccidersi di fuggire, era il povero Alessandro de Peruta, il gramo e infermo professore. La mattina del 12 febbraio, alle otto, prima che uscisse di casa pel solito giro delle sue lezioni, egli aveva ricevuta una lunga, confusa, straziante lettera di sua sorella, da Giffoni Vallepiana. La madre e lei avevano commesso un grave peccato. Stordite, imbambolate dalle chiacchiere che erano arrivate da Salerno, ripetute mille volte dai varii depositanti di Giffoni, allettate dalle promesse di un collettore che era giunto finanche nel loro paesello, con la speranza, con l'ambizione di raddoppiare, di triplicare in poco tempo la loro piccolissima fortuna, una casetta e un orto, avevano venduto questa casetta e questo orto, per duemila lire, sperando, con l'interesse della banca Costa, di comperare una casa più grande, una masseria: speravano, cosi, di essere meno a carico del povero figlio, del povero fratello, del buon Alessandro che lavorava come un cane, a Napoli, per farle vivere. Avevano venduto, ahimè — la casa a Francesco Sorgente che la desiderava da gran tempo, ma che ne aveva dato un prezzo vile, visto la premura che avevano del denaro la madre e la sorella di Alessandro de Peruta.

Le duemila lire erano stato mandate a Napoli, per mezzo di un collettore di nascostoahimè, — dal fratello, ma le due donne avevano avuto la cartella di ricevuta. Poi, un po' inquiete del peccato che avevano commesso, avevano scritto, fingendo di niente, al fratello e figliuolo, per sapere qualche notizia sulle banche. Costui aveva risposto — se ne rammentava — una lettera piena di brutalità ed esse erano restate esterrefatte, non sapendo come fare per confessare il loro peccato, per riparare il male fatto. Infinedopo aver molto pianto, molto pregato, esse, sapendo che fra due giorni avrebbero dovuto lasciare la casa e il giardino a Francesco Sorgente, si erano decise a mandare a lui la cartella, esigesse il denaro con l'interesse di un mese, che scadeva giusto in quei giorno, e mandasse loro qualche soldo per venire a stare un paio di giorni a Napoli: con duemila settecento lire avrebbero combinato qualche cosa. Pure, desolate del peccato commesso, per averlo così ingannato, gli chiedevano perdono, in ginocchio, a lui, il giusto, il buono che non conosceva inganno, bugia.

E così, anche Alessandro de Peruta, in quel giorno fatale di febbraio, andò girando per Napoli, livido, morsicandosi le labbra per reprimere i singulti, andando dalla banca Costa alla questura, dalla questura al procuratore del re, e al tribunale di Commercio, e poi di nuovo alla banca Costa, trascinandosi a piedi come inebetito dal dolore. Ahi, che il destino era stato più forte di lui! Povero, infermo, senza mai una lira disponibile, con una famiglia povera quanto lui, egli malgrado i suoi vaghi presentimenti, si era creduto al sicuro dalla disgrazia delle banche; e aveva tremato per altri, il poveretto!

Più forte, più forte il destino, che accecava quelle le sante donne di sua madre e di sua sorella: e toglieva loro il tetto, la vecchia casetta di famiglia il ricovero sicuro. Lo guardavano con pietà, dovunque, questo spettro di uomo piccolo, malaticcio e miserabile, ovunque si poteva ancora aver pietà; e appena appena osavano dirgli che i depositanti della banca Costa erano i più malaugurati di tutti, che non vi era niente, niente dei dieci milioni. Quel giorno egli non andò alle sue lezioni, non andò a colazione, non andò a pranzo e tormentato soltanto da una sete ardente, stanco, ma incapace di rientrare nella sua stanzetta di palazzo Cariati, girava, girava, bevendo ogni tanto, macchinalmente, dall'acquaiolo, un gran bicchiere d'acqua, senza sciroppo, che pagava due centesimi. Qual notte egli passò, lassù, nella piccola stanza, fredda, solo, solo, solo! Aveva cercato di Eleonora Triggiano; ma ella era lontana lontana, avendo portato altrove, insieme a Paolo Collemagno, il suo amore e il rimorso quotidiano del suo peccato; aveva cercato di Carlo Triggiano, il collettore della banca Costa, ma costui, all'alba, aveva preso il diretto per Torino e Parigi, e non solo, dicevano i maligni del palazzo Cariati, ma portandosi via una donna e il danaro della povera gente; e il professore, a mezzanotte, era rientrato stanco affranto, immergendosi nel freddo, nella solitudine, nel pianto, sentendo che cosa avrebbero sofferto, le due povere donne, a Giffoni, quando avrebbero saputo che avevano perduto tutto, la casa e il denaro, mentre l'indomani Francesco Sorgente sarebbe venuto a scacciarle dalla loro casa. E nell'angelico cuore del poveretto, invece della collera, invece dello sdegno, nasceva una pietà, una pietà infinita per le due donne disgraziate; non poteva immaginare la faccia benedetta di sua madre, il sereno volto di sua sorella, senza esser preso da un gran tremore di compassione. Mentre l'ira pel denaro perduto e il terrore della miseria, un po' dappertutto, disuniva i cuori e svincolava i nodi più stretti, egli sentiva l'amore per la famiglia diventare più profondo nella sventura, sentiva all'affetto mescolarsi un culto pietoso, un'adorazione fatta di protezione, qualche cosa di più alto, di sublime. E nella notte egli pregò il Signore di misurare la tempesta a quei deboli, ingenui cuori femminili pregò il Signore di dargli forza, perchè egli potesse, in questa disgrazia, fare il suo dovere di figlio amoroso; pregò il Signore, perchè dalla sua bocca e non da altro, le sue donne sentissero la fiera novella. E con sforzi inauditi, il giorno seguente, il professore Alessandro de Peruta potè mandare a sua madre e a sua sorella il denaro per il viaggio, scrivendo loro che venissero immediatamente, e ogni momento che passava, raccomandandosi a Dio, perchè non sapessero la trista notizia a Giffoni o in viaggio. La madre era vecchia e stanca, la sorella così semplice e buona; un tal colpo poteva annientarle. E pieno di un novo coraggio, meraviglioso in quel piccolo infermo dalla testa grossa e dalle guancie floscie e gialle, egli andò a prenderle alla stazione, fremendo di ansietà, guardandole in volto con tale intensità, che pareva voler loro legger nell'anima. Erano smorte e stanche, ma dal dispiacere di aver lasciato la vecchia casa, dalla stanchezza di un viaggio insolito. Due o tre volte, dopo averlo abbracciato, esse vollero parlare del denaro, della loro unica risorsa, ma egli, con un cenno della mano, fece loro intendere che ne avrebbero parlato più tardi. Quelle tacevano, pensose, mentre lui cercava di farsi un cuore di leone, per dire tutto. E quando furono seduti nella piccola stanza mobiliata, soli, egli, col volto coperto da un pallore mortale, baciò la mano rugosa di sua madre che aveva tanto lavorato, e le disse:

Mamma, mamma, voi non avete più che me.

Erano donne di provincia, povere donne ingenue e semplici, ingannate, tradite, facilmente ingannate e tradite, ma intesero subito la terribile verità. E mentre la sorella gridava di disperazione, la vecchia voleva inginocchiarsi davanti al figliuolo per chiedergli perdono di averlo rovinato.

— O mamma, — fece lui, tremando di dolore, — voi avete me, avete me, non temete.

E piansero insieme, nella più profonda familiare pietà.

 


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