Federigo Tozzi
Bestie

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La mia anima, per aver dovuto vivere a Siena, sarà triste per sempre: piange, pure ch'io abbia dimenticato le piazze dove il sole è peggio dell'acqua dentro un pozzo, e dove ci si tormenta fino alla disperazione.
Ma i miei brividi al tremolio bianco degli olivi! E quando io stavo fermo, anche più di un'ora, senza saper perché, allo svolto di una strada, e la gente mi passava accanto e mi pareva di non vederla né meno!
Città, dove la mia anima chiedeva l'elemosina, ma non alla gente! Città, il cui azzurro mi pareva sangue!
Dal podere, le mie viti scendevano fino a una sua strada; e l'anima di quella che sarà per sempre la mia fidanzata mi teneva compagnia, nel silenzio folle; e qualche mia parola, che le scrivevo in fretta, era stata il mio respiro più di una lunga settimana.
Siena, da sotto il mio ciliegio, pareva un arco che non si potesse aprire di più, e le sue case, giù per le sue strade a pendio, parevano frane che mi mettevano paura; con i tetti legati dall'edere cresciute su per le mura della cinta, le mura che non si apriranno mai. Ed io allora andavo a guardare la città da un'altra parte, quasi da quella opposta, dalla Porta Ovile. E vedevo i suoi orti squadrati entrare, con un angolo più alto degli altri, tra le case più rade; oppure, l'uno appresso all'altro, farsi largo e posto, ma fermati da una fila di cipressi la cui ombra oscurava il verde dell'erba; e qualche pesco fiorire e maturare accanto alle campane d'una chiesola, e qualche olivo chiamarsi dietro tutta la campagna soave, che impallidiva lontano, rasente i monti chiarissimi, talvolta più luminosa del sole; con una tenerezza che mi commoveva.
E, se guardavo la città da un'altra altura, da Vignanone, le voci degli uccelli s'allargavano nell'azzurro come il vento. E tal'altra volta le campane tutte insieme mi parevano un'armonia discorde, e mi veniva voglia di morir subito. Le rose dei giardini, senza colore e senza profumo, la cingevano tutta: le finestre erano aperte.
Da parecchie miglia lontano, io vedevo in vece le sue torri come ritti che si spegnevano ultimi nella cenere del crepuscolo.
E i temporali con tutto il cielo addosso! Pareva che i lampi la dovessero schiantare; ma, dopo, l'aria era più fresca e si respirava meglio; gli uccelli la varcavano a frotte, e il sole la rasciugava.
Perché, dunque, io vi soffrivo? Perché la mia anima non vi è mai voluta stare?
Lo sapeva, forse, quella mia tartaruga che riuscii a tener chiusa in casa una sera, e la mattina dopo non la trovai più.

* * *


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