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M'era venuto il tifo, e la febbre cresceva sempre. La mamma
non poteva tenermi compagnia a tutte l'ore e quanto avrebbe voluto: e io dovevo
restarmene a letto solo solo, ad aspettarla. Vedevo, dalla finestra socchiusa,
con i vetri non più lavati da quando stavo male, passare le nuvole e la cima
d'un ciliegio che rabbrividiva come me quando sentivo la febbre.
Una mattina avevo fame dopo aver preso la solita cucchiaiata di medicina. E non
veniva nessuno. Avevo voglia d'alzarmi, ma più di piangere. Le coperte mi
schiacciavano come le montagne; e mi pareva che tutte quelle nuvole me le
facessero più grevi. C'era a capo del letto il campanello elettrico, ma non lo
suonavo perché il suo squillo mi faceva peggio. Ero proprio per gridare,
spaventato delle coperte alzate dai miei ginocchi, con l'illusione che si
alzassero fino al soffitto, per soffocarmi.
Entrò un'ape. Mossi la testa per guardarla meglio. Sbattendo contro i vetri,
cominciò a ronzare; ma con un ronzio così dolce che mi fece subito un effetto
di benessere. Allora, mi ricordai dei fichi maturi e di tutte le altre frutta.
Chi sa quale odore giù nei campi! Mi pareva, perfino, di sentir sapore in
bocca!
L'ape girò da un travicello all'altro, e poi tornò alla finestra! Non piangevo
più, assorto in quel suo rumore uguale, che allora mi pareva una specie di
musica, a cui avrei dovuto trovar le parole. Quando venne la mamma, facendola
fuggire, mi dispiacque; e ci pensai tutto il giorno, sorpreso di non pensare ad
altro.
* * *