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CAPITOLO I.
Appena desto, Dario Gavinai sentì che ricominciava istantaneamente a pensare. Il suo pensiero era come una punta che sporgeva, facendosi innanzi da sè. Ma egli ne provava una specie di rammarico e di stupefazione.
Erano ormai parecchi mesi che la miseria cercava di entrare anche nella sua anima. Da prima, non ci aveva creduto; e proprio quando non aveva nè meno un pezzo di pane per mangiare, le cose più dolci e più buone della sua giovinezza gli stavano per ore ed ore fisse in mente; e gli era impossibile rendersi conto d’altro. Quanto più soffriva e indeboliva e tanto più quelle cose gli apparivano evidenti e serene; visibili come allucinazioni. Secchi di latte che gli pareva di bevere: un latte denso, con una panna quasi gialla; oppure tavolate di pane caldo e crocchiolante, levato allora dal forno.
A trent’anni, era ancora costretto a farsi mantenere da una sua zia di Pistoia che, quantunque più povera che ricca, faceva per lui tutto il possibile. E Dario credeva di essersi avvantaggiato a lasciare quella città, ch’era anche la sua, per andare a Roma, dove sperava di trovare più d’una via aperta alla fiducia della sua intelligenza. Nessuno aveva pensato sul serio, quando studiava la musica, che volesse dedicarvisi con uno scopo decisivo e ambizioso. Ed egli voleva provare che a Roma sarebbe riescito a farsi noto. Dopo le prime esaltazioni, aveva sentito un’apatia quasi cinica; poi aveva preso le cose con più calma, ma con più sofferenza. Conosceva, ormai, quasi tutti i letterati e gli artisti migliori; e li aveva avvicinati con desiderio e con fiducia in se stesso; sebbene chiunque di loro lo avrebbe dichiarato il più modesto e il più insignificante. Aveva dovuto imparare a non credere alle promesse di qualche amico, che avrebbe potuto aiutarlo da vero. E, sebbene questa diffidenza non gli riescisse naturale, s’era giurato di non procurarsi più maggiori delusioni. Non aveva voluto conoscere nessun musicista; perchè si vergognava a non aver fatto ancora nulla. E temeva di essere accolto con quel sorrisetto, che gli metteva la voglia di pigliare a pugni. Anzi, quando gliene indicavano qualcuno, arrossiva e cercava di allontanarsi subito. Dopo due anni che si trovava a Roma, si sentiva assillato a dare un saggio della sua intelligenza.
Era inutile cercare la Roma degli imperatori o dei pontefici; e quella della monarchia democratica gli era troppo insignificante e antipatica. Sognava Roma forte e intelligente; rinnovata da tutte le regioni d’Italia. Se fosse stato un uomo pratico, avrebbe potuto subito trovare una ricompensa; ma tutto consisteva in una psicologia che cominciava e finiva dentro lui stesso. Non partecipava mai alla vera vita; e sarebbe invecchiato, come tanti altri giovani, senza uscire dalle angustie d’un’impotenza egoista e immorale.
Stanco, come se non fose stato invece più di quattordici ore a letto, non aveva nè forza nè voglia di alzarsi. Ma dovette vestirsi, perchè voleva andare a trovare un suo amico impiegato al Ministero della Pubblica Istruzione.
Non sapeva fare niente; non aveva imparato a fare niente; e l’idea di doversi scegliere magari un mestiere gli faceva venire una ripugnanza che lo spaventava. Non poteva nè meno pensarci! Era come se gli dicessero che a una data ora gli sarebbe venuta una malattia orrenda che lo avrebbe ridotto irriconoscibile.
Tuttavia, vestendosi, si sentiva quasi allegro, o, per lo meno, ne aveva la voglia. Non si reggeva più in piedi, e gli girava un poco la testa; ma si fece animo, e finì di vestirsi in pochi minuti. Prima di muoversi verso l’uscio, però, guardò il letto; e fu quasi spinto a buttarcisi sopra steso. A quel modo, forse, avrebbe potuto riassopirsi e sognacchiare; con quella specie di febbrilità e di sovreccitazione a cui aveva preso gusto.
Era già vicino a mezzogiorno, e nella camera faceva molto caldo. I vetri parevano per doventare come una colla trasparente e il sole ficcarsi dentro le cose.
In Piazza della Pigna non c’era nessuno, ed egli si fermò; parendogli che il sole e le ombre non volessero farlo passare. Ma, ormai, a certe illusioni c’era avvezzo! Scosse la testa; e proseguì.
Anche il Ministero sembrava deserto: salì, inciampando parecchie volte. Al primo piano, in una specie di corridoio che serve da stanza d’aspetto, per quelli che vogliono passare negli uffici del Ministro, la porta ricoperta di stoffa verde era spalancata perchè entrasse di più il fresco; e i busti di marmo, lungo una parete, sopra le loro colonnine, fino in fondo, pareva che si guardassero; come se fossero costretti a vivere per forza. E un usciere, piccolo come se non avesse avuto il capo, dormiva seduto sopra una sedia; appoggiato al tavolino accanto.
Al secondo piano, stava il suo amico Nello Giachi. Qui i corridoi erano stati annaffiati; forse la mattina; ma pareva che i mattoni si sfacessero lo stesso in polvere; e alcuni si smovevano sotto i piedi. Quasi tutti gli usci degli impiegati erano socchiusi; e Dario suppose che dietro ognuno di quelli stesse chi lo avrebbe aiutato, portandolo via lontano con sè; in qualche luogo, dove non era più possibile patire la fame. Quasi, perciò, gli pareva inutile giungere fino alla stanza del Giachi. Ma vi giunse con una contentezza; che, al solito, lo esaltava; affascinandolo. Quasi era lui che andava a portare all’amico la dolcezza e la serenità della sua anima!
Nello Giachi non lavorava. S’era tolta la giubba; e si grattava, con le unghie, i capelli folti; divisi dalla scriminatura da una parte. Gli disse:
— Guarda quanta forfora mi cade.
— Lo vedo.
Dario non voleva; per non cedere alla snervatezza. Ma, appena seduto in una poltroncina che una volta, chi sa quanti anni prima, era stata rossa, e ora quel colore era rimasto soltanto dove erano le cuciture dei bottoni, si sentì un poco meglio. Il Giachi aveva continuato a grattarsi i capelli; guardandosi a un pezzo di specchio appoggiato al calamaio. Dario stette zitto; poi disse, sorridendo un’altra volta:
— Bisogna che tu mi presti dieci lire o che tu mi inviti a mangiare!
Il Giachi smise di grattarsi, pulendosi le punte delle dita con i pollici; e gli rispose:
— Verrai a mangiare con me, perchè non ho più soldi finchè non riscuoterò lo stipendio. A trattoria, pago sempre in fine di mese.
Si rimise la giubba e chiuse il pezzo di specchio dentro un cassettaccio; nettò sopra il tavolino con il fazzoletto e soffiò tra un mucchio di carte. Disse a mezza voce:
— Quanto avrei da fare! E non ho voglia!
Dario lo guardò; non sapendo nè meno quel che pensare.
Il Giachi era piuttosto magro e pallido; aveva gli occhi color caffè; e, parlando, torceva un poco la bocca sempre dalla stessa parte, come se lo facesse volentieri e per vezzo. Allora il Gavinai gli chiese:
— Vuoi sapere quant’è che non vedo Albertina?
Il Giachi non rispose nulla; ma l’altro proseguì:
Poi, dopo essere stato zitto un poco, abbassando la testa, aggiunse:
— Ci vogliamo sempre bene.
— Mi sembra perfino inverosimile.
— E perchè?
— C’è bisogno che te lo spieghi io?
— Non ti capisco. Quando si vuol bene da vero...
— Io mi stanco subito lo stesso.
— Perchè non vuoi bene da vero.
Il Giachi ridacchiò; quantunque cercasse di trattenersi. Il Gavinai, cercò di farsi dare ragione:
— Anch’io credevo di essere come te. Ma poi... Perchè dovrei lasciare Albertina? Mi vuole tanto bene! Tu lo sai.
Ma, ora, a parlare del suo sentimento gli pareva una sciocchezza; o forse era addirittura una sciocchezza il suo sentimento stesso. Tuttavia, siccome il Giachi stava zitto, come per lasciargli confessare troppo, anche quello che non si dovrebbe mai dire, temè di aver fatto male.
Si sentì questa sua sincerità negli occhi; e gli sembrò che la fame e la sincerità fossero quasi la stessa cosa; e che tutte e due fossero così visibili ch’egli si alzò dalla poltrona quasi per seguirle e accarezzarle.
Poi, perchè il Giachi non lo prendesse per pazzo, finse di essersi alzato per levare una piega dalla giubba.
— Io non ti credo!
— E perchè?
Questo modo di ragionare tolse al Gavinai la voglia di aprire la bocca. E siccome il Giachi si mise a spolverarsi la giubba, egli, involontariamente, anzi senza riuscire a impedirselo, pensò: «Vorrei sapere in che consiste la realtà!».
Provava un imbarazzo forte come un malessere: gli pareva che avrebbe incontrato chi sa quale difficoltà ad uscire dalla porta; e gli veniva il ticchio di farne la prova. Gli pareva che l’aria fosse quasi irrespirabile, e pensò se avesse potuto mangiare il tavolino.
Il Giachi gli vedeva sul viso quel pallore che lo faceva doventare subito più magro; gli venivano le occhiaie, e i suoi occhi scintillavano, con una eccitazione nervosa. Quella nervosità lo urtava, e doveva evitare di sentirla. Gli disse:
— Usciamo prima che sia l’ora; così andiamo a mangiare. Ma ho perso l’appetito: non mi sento più bene. È necessario che io faccia una cura ricostituente. Bisognerebbe che mi facessi mandare in aspettativa.
Ma al Gavinai era impossibile stare attento a quel che l’amico diceva; e si mosse perchè facesse più presto. Il Giachi, allora, fu tentato di metterci più tempo; ma non ebbe il coraggio. Prese il cappello e i giornali che aveva dimenticato sul tavolino: e disse:
— Possiamo andare.
Allora, il Gavinai si fermò e disse arrossendo:
— A mangiare con te verrò un altro giorno. Per oggi, posso farne a meno.
Il Giachi capì che s’era offeso; lo prese per un braccio e lo fece camminare:
Il Gavinai, avvistosi del cambiamento, si sentì pieno di gioia, e gli chiese quasi lacrimando:
— Ma se tu volevi stare solo?
— T’ho detto a quel modo d’Albertina, perchè anch’io sarei contento di trovare una donna come lei.