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CAP. II.
La sera, il Gavinai si sentì un’altra volta dentro quella solitudine, che pareva senza fine. Mentre, subito dopo mangiato, gli si acuiva sempre l’angoscia come di aver quasi turbato la sua giornata; senza provarne nessun piacere. Ma ora, a tutti i costi, voleva conoscere la sua solitudine; e, certo, assomigliava ad uno che si mette fisso a guardare un muro per capire che cosa c’è dentro.
La voleva conoscere, senza odiarla; anzi francamente, quasi con amicizia. Vi trovava sempre quell’indicibile senso di cose che restano sconosciute anche alla nostra anima. La solitudine era buona! Ma sentiva anche che la sua giovinezza vi si consumava e che non gli sarebbe stato mai più possibile tornare indietro; qualunque cosa gli fosse avvenuta nella vita.
Gli parve, ormai, che la giornata fosse stata troppo lunga; ma non si decideva a chiudersi in casa. Era anche sicuro che non avrebbe dormito. Non aveva voluto andare da Albertina benchè avesse pensato molto spesso a lei; voleva lasciare anche quel sentimento benchè fosse la sua sola dolcezza.
Mentre, a tutti i costi, tentava di trovare tra sè medesimo e Roma come una pacificazione quieta. Quando non aveva nè meno le curiosità faticose dei primi giorni, s’imponeva di conoscerla come la propria città; e andava dove ancora non era stato mai; con una ostinazione quasi metodica; sicuro e lusingato di acquistare un senso di vastità quasi altezzosa.
Passando per la via Margutta, due tavolini verniciati di giallo, all’uscio d’un’osteria, tra quattro piante di bambù, gli ricordarono ch’egli non aveva da mangiare. Dentro, cantavano accompagnandosi con una chitarra un poco stonata; dopo, applaudivano. Questi schiamazzi gli fecero provare una viva repulsione ostile; e si allontanò più presto.
Ma, fatti pochi passi, vide una stanzuccia illuminata d’una luce gialla, e tutta una famiglia, che appena vi entrava, a mangiare.
Senza volere, guardò due volte, ma con una certa ironìa.
Sopra il Pincio, lampeggiava; ma, su la via, era stellato. Ad una terrazza avevano acceso due lampioncini di carta a colori. E si sentivano voci liete. Egli si fermò ad assicurarsi se erano liete da vero; non ci credeva.
Le cupole delle chiese di Piazza del Popolo erano illuminate dalla luce elettrica. E, nei vicoli scuri, soltanto il chiaro di luna faceva distinguere le facciate e i muri delle case. Ad un tratto, cominciò a piovere; ma smise subito. Quasi sentì correre la pioggia da un capo all’altro della via; dove i gatti razzolavano nei mucchi della spazzatura, accanto a un uomo che con un sacco aperto in mano, vi frugava dentro. Mentre una donna, seduta in terra, con le spalle al muro, smoveva la bocca, prendendo con la punta delle dita il mangiare accattato, da un cartoccio, rotto. Pensò che non avrebbe mai potuto adattarsi a fare lo stesso.
Quando fu a metà di Via Due Macelli, ricominciò a piovere. Una ragazza, con il cappello in mano, correva lungo il marciapiede, opposto al suo; ma altre due ragazze andarono a ripararsi su la soglia di un portone chiuso dove s’era fermato.
Dentro il salone Margherita c’era soltanto un barlume: dietro i vetri che luccicavano per la luce elettrica della strada i manifesti erano illeggibili. Una di quelle ragazze gli mise una mano su la spalla e gli disse:
Dario si riscosse, ma non alzò gli occhi: era curioso di conoscere l’effetto che gli faceva quella voce. Poi si chiese: «Perchè mi dice così?» E, per un momento, credette di amarla istantaneamente. Stette lì, allora, quasi ad aspettare ch’ella gli parlasse ancora; e aveva voglia di farle capire soltanto dagli occhi tutta la sua tristezza. Ma non osò. La ragazza respirava forte; e, certo, anche ella aspettava ch’egli parlasse. Quando invece alzò la testa per sorriderle, scappò a mettersi lungo un altro portone più largo. Egli allora, si sentì commuovere. E, da dove era, cercava di farle capire che la guardava fisso; mentre sopra le ciglia, quasi dentro gli occhi, gli sgocciolava la pioggia, visibile soltanto attorno alle lampade.
Il ricordo di Albertina lo attraversò come un brivido diaccio; e lo fece tornare in sè. Perchè, dunque, non era stato a trovarla, se le aveva detto di aspettarlo alla Pensione?
Egli doveva amarla come era amato; doveva essere degno della sua purezza. Allora, se ne andò.
Rasente quasi tutti gli usci, c’erano altre ragazze. Una fumava, e, di quando in quando, si vedeva il fuoco della sua sigaretta.
In Piazza di Trevi l’acqua della fontana scrosciava, e tre uomini dormivano tra le colonne della chiesa di Sant’Antonio. All’angolo di Via del Lavatore, su lo spigolo di una casa, c’era una Madonna entro un medaglione fiorito, con gli angioli di gesso e una lampadina elettrica che non faceva luce anche perchè era tutta sporca di polvere; e, alla finestra accanto, un pappagallo che si rigirava smovendo tutta la sua catena. All’improvviso, all’ultimo piano della stessa casa, una donna nuda si sporse a prendere le persiane per chiuderle.
Un carabiniere passeggiava in cima alla salita di Via della Dataria; sotto il Quirinale alto e quasi invisibile nella notte.
In camera, il Gavinai accese la lampadina e si mise a sedere: la sua giornata somigliava a una di quelle gocciole di qualche pozzanghera sporca, che schizzano in bocca. C’era, dentro un bicchiere pieno d’acqua una rosa che gli parve stupita di essere bianca; tanto il suo pensiero pigliava il sopravvento; l’aveva rubata con Albertina dal muro di una villa; a Monte Mario.
Ma, ora, non gliene importava nulla; benchè la tentazione per la ragazza del marciapiede gli paresse assurda e ripugnante. Si sentì sicuro e tranquillo; grande come la notte; con la dolcezza delle stelle sempre uguali, sempre le stesse. Il sentimento di se medesimo era in pieno accordo con tutto l’universo: non gli mancava nulla. Egli poteva pensare a qualunque cosa, e mai era separato da esso. Ad un tratto, gli parve che la sua anima si mettesse a suonare; ma non percepiva distintamente nessuna musica; come se fosse stato profondamente sordo. Cercò d’ascoltare meglio: attese che una nota più bella si chiarisse; per poterla ricordare. Attese con ansia acre, quasi disperata. Ma, quella larva, sparì; e non ne restò alcun segno. Pure, era sicuro di averla sentita! Ora, gli pareva d’essere in una piazza dove non era stato mai; camminava a passi cadenzati, e una specie di fanfara, anche questa inespressa, lo faceva muovere come se danzasse. La piazza era grande e non finiva più; si allargava sempre; benchè restasse uguale. Poi, la fanfara si allontanò da una parte ed egli da un’altra; e, per quanti sforzi facesse, non riuscì più a ritrovarla. Avrebbe voluto domandarlo a qualcuno; ma aveva paura che gli rispondessero chi sa quale menzogna. Ed egli, allora, pianse.
Quando si destò, mancava poco a mezzogiorno. La lampadina era restata accesa; ed egli, per convincersi che s’era addormentato a sedere, con la testa sopra il tavolino, guardò lungamente il letto restato intatto.