Federigo Tozzi
Gli egoisti

CAP. III.

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CAP. III.

 

Era certo di essere un musicista. Avrebbe subito messo in musica certe sensazioni, invariabili, della sua giovinezza; che gli sembravano i punti più vivi del passato; quando la memoria si liberava completamente delle cose inutili; ed era anche essa, perciò, una forza attiva ed immediata. Contento e impaziente, andò subito da Albertina. Per la strada, però, si spaventava sentendo qualche segno della sua nevrastenia; quando tutte le cose ch’egli vedeva sembravano scolorirsi, quasi illividite; con un senso di malvagità che lo perseguitava. Allora camminò in fretta, come se avesse voluto mettersi a correre; e non gli pareva mai di fare in tempo.

Albertina, sorpresa di scorgere nel suo viso una cosa che non capiva, gli chiese:

Che hai?

Fu per dirle tutto, ma non era più certo di essere un musicista. E le rispose:

Te lo dirò.

Perchè, vicino a lei, non aveva più quelle sensazioni? Si sentì scoraggiato e pieno di malinconia.

Gli pareva d’essere sul punto di scoprire un gran segreto, che con una rapidità violenta passava rasentando la sua anima; qualche volta, muovendola un poco con . Egli era stupefatto a sentirsi in mezzo a questo turbine che gli metteva voglia di avere la stessa rapidità. Ne aveva quasi un desiderio da farlo piangere.

Ma dopo un poco, dovette riconoscere che queste tristezze erano compensate da certe lucidità quasi magiche, tanto egli pensava con un’eccitazione soddisfatta e tranquilla: certo la sua intelligenza stava per prendere una definizione, che sorpassava anche il suo amor proprio abituale. Perfino le mani di Albertina, un poco ossute e pallide, entravano a far parte di quella realtà immaginata che aveva preso un’evidenza quasi tattile. Egli pensava che ogni movimento di quelle mani fosse pienamente d’accordo con lui e con quel benessere intellettuale. Quelle mani erano i segni della vita che restava anche se egli fosse morto. Ma evitava che gli occhi di lei guardassero i suoi fino a darle il tempo di sorprendere la sua anima; perchè gli occhi di Albertina potevano conoscere ogni suo modo di pensare. Non si ricordava meno più ch’era andato a trovarla a posta, per dirle del sogno e delle sue sensazioni.

Già, vicino a lei, cominciava ad essere preso tutto dal suo sentimento, e il ricordo di quando s’era innamorato ritornava: con esattezza. Era vestita di seta bigia, tutta uguale, con le due punte del petto riconoscibili. Era un poco scollata; e non poteva guardarla sul collo più d’una volta senza desiderarla immediatamente. Ma egli voleva resistere al desiderio e disse che aveva da trovare un amico.

Poi, promettendole di tornare a prenderla verso sera, riuscì a lasciarla. Fuori della stanza, stette un momento all’uscio; pensando se doveva rientrare per baciarla. Ma poi decise di andarsene; benchè n’avesse una specie di rimorso, che il desiderio faceva doventare delizioso.

Verso sera, andarono per la Via Nomentana. Egli sentiva affievolirsi l’esaltazione della mattina, e gli pareva di andare incontro a una disperazione arida e deserta.

Albertina aveva un cappello bianco; che le lasciava scoperti i capelli neri sopra gli orecchi. Di quando in quando, lo guardava di sfuggita; e lo vedeva assorto per una cosa nuova; che gli metteva nel viso nervoso come un brivido continuo.

C’era una grande serenità piuttosto quieta; e Roma sembrava tutta giovane.

Andarono di dal Ponte Nomentano, per quella strada che finisce alla Porta Salaria. Quantunque non ci fosse quasi nessuno pareva che il silenzio non esistesse più.

Verso il tramonto, si scopersero i monti della Sabina; come un’apparizione. Roma sembrava più grande, quasi infinita; con le campagne ombrate soltanto dalle nuvole. Certi punti della campagna il sole li illuminava così forte, che sembravano specchi. Mentre, a poco a poco, i monti della Sabina si coloravano sempre di più, di un azzurro un poco cupo. E, su per le cime, invece, sembravano trasparenti.

Poi, quantunque il sole fosse già dietro la Pineta Sacchetti e qualche grossa stella spuntasse dalla parte di Monte Mario, restava una luce che non poteva spegnersi subito; durando nell’aria e nelle cose. A momenti anzi sembrava riaccendersi e farsi più viva. I suoni delle campane, quasi irriconoscibili, spersi e mescolati, avevano una dolcezza grandiosa, con intonazioni che Dario completava dentro di .

Sentiva che il momento di parlare era giunto; e non doveva attendere più. Gli pareva che la sua voce fosse irriconoscibile; tanto egli la sentiva anche pensando e tacendo. Ma si fermò ad ascoltare un pino che si smoveva; come se fosse stato per aprirsi quanto era largo il cielo.

Allora, tremando tutto, non potendo più tenere la voce che non obbediva alla volontà, le gridò:

Stanotte, scriverò la musica che io sento ora!

E, quando egli si fu calmato, senza che Albertina fosse riuscita a dirgli una parola, tutta la notte era stellata, e il pino fermo e chiuso.

 


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