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CAPITOLO VI.
Stavano per attraversare Ponte Milvio; e giù in fondo alla vallata, c’era la cupola di S. Pietro; che nel pomeriggio sereno aveva una nitidezza esatta. Il Carraresi la fissava sovente, da sotto le ciglia; e il suo viso, che pareva assottigliarsi nelle labbra e nel naso come quando era invasato da qualche idea violenta, esprimeva una specie di giubilo convulso. Non poteva più contenersi, non poteva ascoltare più niente; e stringeva i denti insieme.
I suoi occhi si animarono di una soavità fanatica e implacabile. Una soavità che tagliava come una prepotenza; quando, alla fine, deve scoppiare. Pestò la cicca della sigaretta sotto un piede, e disse:
— Io non credo che a Dio. Ho abolito tutto, in me. Mi sento ricco perchè mi sono fatto povero. Tutto il resto, per me, non esiste più. Soltanto mi sento uomo perchè credo in Dio.
Senza aspettare quel che avesse risposto il Gavinai, non importandogliene niente, dopo aver acceso un’altra sigaretta, che non riusciva a mettere in bocca da quanto gli tremavano le mani, quelle mani che allora sembravano artigli fatti di tendini e di unghie, senza polpastrelli, seguitò:
— La terza Roma mi fa schifo. È degna del suo parlamento e della borghesia che l’abita. Io vorrei che su la borghesia immonda e scema, Dio facesse piovere le fiamme. La disprezzo perchè è stupida e insulsa. Io, da qui innanzi, non amerò che i poveri, i santi e i briganti. I santi perchè portano Dio dentro di sè, i briganti perchè vanno nella strada a levare i portafogli, e i poveri perchè sono degni della mia profonda compassione e del mio rispetto.
In quel mentre, passò un’automobile; lucida e nera: intravidero, dentro, i cappelli di due signore e un fascio di rose dietro uno dei vetri abbarbarglianti. Dario gliela accennò, ridendo; con un brivido. Il Carraresi gridò:
— Sarebbe giusto che si rovesciasse nel fiume!
Ambedue, ora, sghignazzavano e fremevano; esaltati. Il Carraresi seguì con gli occhi l’automobile, quasi avesse dovuto vederla precipitare dal ponte. Ma si placò guardando le sponde del Tevere; larghe e verdi. Un gregge di pecore, a branchi, usciva di tra le piante basse; a cui era restata attaccata la moticcia delle piene invernali, oramai secca, che andava in polvere.
Le pecore scesero a bevere; ma, quasi da per tutto, affondavano con le zampe. E il greto senza erba, liscio, restava tagliuzzato dalle unghie. Bevvero, facendo una fila tutta storta e puntuta di teste. Poi, risalirono in su; a salti. Il pastore picchiava le più tarde e quelle che non sapevano dove dirizzarsi; alle più lontane tirava le zolle. Sul ponte, il San Giovanni di pietra si protendeva a battezzare Cristo; ma era troppo distante e la strada in mezzo li divideva.
Il Tevere girava sotto i pendii di Monte Mario, verso gli archi degli altri ponti; che da lì parevano buchi.
Sotto i platani del piazzale, vendevano i cocomeri; umidi e rossi.
Dario, benchè temesse di non essere approvato, chiese:
— Perchè non andiamo e sentire com’è il vino?
Il Carraresi rise; guardandolo:
— Andiamo. Al Caffè Aragno ci sono entrato ieri sera con il Giachi. Ma non ci tornerò più. Mi basta una volta sola. Ho già capito che gente ci va. Preferisco questi che tracannano il vino!
Alla salita della Camilluccia, un giovanotto girava un organetto; foderato, dietro, di tela rossa; e il vento la gonfiava. Il suo compagno andava tra i bevitori, tendendo un piattello rincalcagnato e rotto.
Donne, con i ragazzi in collo, compravano alle botteghe; e, poi, tornavano alle case; di là dalla prima collinetta tutta piena di osterie, tra le quali cresceva soltanto l’erba attorno agli spunzoni dei cacti accartocciati. Altre osterie si vedevano su per la salita della Camilluccia; con le insegne di legno e con i muri ricoperti dalle liste delle vivande e dai prezzi del vino, tra i convolvoli appassiti e le rose sfiorite al sole e alla polvere.
Il Carraresi ripensava a quel che aveva detto, compiacendosene; e Dario si sentiva contento di essere con lui.
Ad un tratto, il Carraresi tirò in dietro la sedia; alzandosi. Dario gli disse:
— Ma è ancora presto!
— Non importa, siamo stati abbastanza.
— Non ci stavamo bene?
— Io me ne voglio andare.
Roma lo attraeva come una voragine immensa. Avrebbe voluto prendere il tranvai; per fare più presto. Quando giunsero a Porta del Popolo, che poco prima il tramonto aveva fatto doventare come un incendio fosco, in fondo alla via Flaminia, stava per venire un temporale.
Tuttavia, essi non andarono subito verso il Corso; e presero dalla parte dei Prati; perchè il Carraresi voleva vedere la Piazza San Pietro. Ma non fecero in tempo: i baleni sempre più fitti, apparivano dietro le fronde dei platani come se avessero dovuto cadere su la terra. Una lampada elettrica dava tutta la sua luce al principio del Ponte Margherita; ed il fiume, oscuro, scorreva nell’ombra degli archi.
Una ragazza balzò verso le tenebre della Passeggiata di Ripetta; e un brigadiere dei Carabinieri, tenendo la sciabola che gli scintillava sotto il braccio, la inseguì.
E siccome cominciava a piovere, i due amici presero il primo tranvai che giunse alla fermata. La stanchezza impediva loro di udire qualsiasi rumore; e credevano che il tranvai fosse addirittura silenzioso.
Scesero a Piazza di Spagna. Su per la scalinata tutta grigia, c’era parecchia gente sdraiata o seduta, benchè piovesse ancora. In cima, qualche coppia d’innamorati; che s’intravedevano meglio quando veniva un lampo. Ma ora, ogni lampo era sempre meno forte.
Dario pensava di dare fuoco alla sua camera; e, invece, aveva gli occhi pieni di lagrime. Egli voleva amare Roma, e non gli era possibile. Attese che il Carraresi parlasse ancora; ma quegli s’era così distratto, a pensare dentro di sè, che si ricordò di Dario soltanto quando se lo vide accanto, un poco indietro. Gli domandò:
— Mi pareva di camminare solo. Dove andiamo?
— Dove vuoi.
Il Carraresi ridomandò, con impazienza:
Dario era imbarazzato; e rispose, come tra sè:
— Io non lo so.
Ormai, non avrebbero potuto più parlarsi con quella confidenza, che avevano sentito fuori di Porta del Popolo. Dario si sentiva come ferito e non sapeva di che; il Carraresi credeva di essersi sfogato inutilmente, e desiderava trovarsi solo; all’albergo. Quando s’era sfogato a quel modo, ricordava il suo paese, ficcato giù tra due montagne; dove entrava appena, insieme con un fiumiciattolo sporco come una chiavica. Sospettò che non potesse esserci più una vera amicizia tra lui e Dario, e ne dette la colpa a Roma. Ma non lo scusò. Avrebbe voluto chiedergli perchè avesse sciupato i pochi soldi lasciatigli dal padre, e che cosa si aspettava restando a Roma. Ne provava contro di lui un risentimento ostinato; e avrebbe voluto lasciarlo; perchè, a stare con uno così sciocco, gli pareva di far male. Credeva di averlo scosso, ma non si sarebbe degnato a dirgli altro.
Invece, Dario si sentiva sempre più vicino a lui, forse eguale; e aveva voglia di dirgli qualche parola affettuosa, benchè temesse di passare da debole. Eppure non si era mai sentito così giovane e forte, come quel giorno! Si sentiva tanto forte, che la musica scritta una settimana prima gli pareva un’inezia e basta!
— Perchè non mi credi come te?
— Perchè non sei.
Non si sentì scoraggiato; ma, dentro di sè, lo approvò.
E si dettero la mano, come se avessero un rancore intimo; che li separava l’uno dall’altro.