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CAPITOLO XV.
A novembre, Albertina era già tornata. Fu per lei una gioia indimenticabile, lasciare un’altra volta la famiglia. Ma, a Roma, trovò subito una specie di delusione; e si sentì spersa; come non le era mai avvenuto.
Tuttavia, credeva in quella gaiezza; e si sforzava di sorridere; quasi con un desiderio cupo. Le pareva che Roma la evitasse, e decise di non farsi vedere da Dario; benchè sempre di più le paresse difficile.
Era piena d’impazienza; e pensava perchè non escisse subito dalla Pensione. Con i gomiti su la specchiera, in piedi, senza essersi tolta nè guanti nè cappello, sfregava con la punta di un dito sul marmo la cipria uscita fuori da una scatola. Ma era già buio. La mattina si destò prestissimo; si vestì in fretta, con le mani tremanti; scegliendo un vestito nuovo che non s’era mai messo. Voleva essere lei la prima a mostrargli che si amavano! Ma quando si chiese perchè non gli aveva mai scritto, si mise a piangere. L’avrebbe rimproverata; forse, l’avrebbe accolta male. E se amava già un’altra, non doveva dirgli niente; era una ragione di più perchè ella non lo cercasse. Si tolse il cappello, buttandolo sul letto. Sentiva un malessere, con tutti i puntigli della gelosia; fin quasi al dolore. Se amava già un’altra, non doveva dirgli niente; doveva fargli sapere come ne soffriva e ritirarsi in un convento; perchè egli pensasse lo stesso sempre a lei e la rimpiangesse. Intanto, riprese il cappello; piegò la curva alla tesa; riaggiustò un nastro che si era sollevato; si guardò allo specchio: gli occhi erano gonfi; e tutti avrebbero capito che aveva pianto. Fece qualche passo nella stanza, per assicurarsi che camminava bene e che era sempre bella.
Si mise un’altra volta il cappello, ma non le riesciva più ad accomodarselo; ritta dinanzi allo specchio; tenendo le braccia alzate; nervosa e scontenta. Alla fine, escì in istrada; ma non sapeva se andare verso il Corso o verso Via Veneto. Perchè era escita?
Le nuvole grigie, un poco violacee, coprivano tutto il cielo; e i fili elettrici erano così fitti che le parvero quelli della pioggia; restati tesi in aria. Camminava a testa bassa; e, per non stare in strada, prese una carrozza e fece portarsi al palazzo di una sua amica; non potendo sentirsi troppo sola. L’amica la tenne a pranzo; e la convinse di andare insieme con lei al concerto dell’Augusteo. La domenica c’era troppa gente nelle pasticcerie, per andare invece a prendere il tè; e a convincerla meglio, l’assicurò che avrebbero preso un palco.
Anche Dario era al concerto. Per caso, la poltrona alla sua destra restava vuota; ed egli, quando l’orchestra attaccò, vi dette una occhiata quasi di sgomento: non poteva convincersi che accanto a lui non ci fosse Albertina, per quanto fosse quasi contrariato di pensare a lei.
Non poteva fare a meno di voltarsi a quella poltrona; e, qualche volta, invece, non osava nè meno.
Perciò escì innanzi che la prima suonata fosse finita.
Ma Albertina l’aveva visto; e si era sentita come cadere dentro il teatro.
Guardandolo uscire, si mise a piangere; e si fece accompagnare alla pensione dall’amica; senza essere riescita ad ascoltare nè meno una nota. Le pareva d’essere ancora completamente sorda; benchè non avesse mai più mosso gli occhi dall’orchestra, e non capiva quel che le dicesse la cameriera quando, nella sala da pranzo, stava accanto a lei, con i vassoi in mano.
Soltanto quando fu un’altra volta in camera sua, le parve di cominciare a ricordarsi che era stata all’Augusteo; e non poteva sopportare il fracasso enorme della musica e della gente. Le parve anche che la cameriera le avesse parlato gridando.
Come amava! Come avrebbe chiesto subito perdono a Dario; magari in ginocchio! Ma dovette mettersi a letto; perchè sentiva un poco di febbre. Si ridestava ogni mezz’ora e accendeva la lampadina elettrica; aspettando battere le ore a un orologio nel corridoio, tendeva gli orecchi a tutti i rumori; e ascoltando la città che non riposava mai, le pareva che facesse più presto a tornare il giorno. Si riaddormentava soltanto quando era convinta di questa illusione.
Dario era escito dall’Augusteo con una tristezza che lo avviliva. Non sapeva quel che fare; e le note della suonata, che aveva ascoltato con un’attenzione involontaria, gli tornarono a mente con una precisione incisiva. Gli dispiaceva di sentirsi solo, e avrebbe voluto incontrare qualche amico; benchè fosse come geloso della sua tristezza, e gli dispiacesse confidarla ad altri.
Allora, essendosi trovato in Trastevere, dove era andato come se ce l’avessero condotto i piedi, entrò nella Chiesa di San Crisogono. Si avvicinò a un’altare, perchè vi aveva visto la gente inginocchiata; ma non pensò a pregare come quella volta ad Ara Coeli.
L’ombra di un arco scendeva fin quasi a metà dell’altare; dove era un Cristo più alto di un uomo; vestito di rosso e le mani legate; dietro un vetro chiuso da una cornice dorata. Dario guardò senza nessuna curiosità.
Quando escì fuori, nel viale del Re, l’aria era umida e nebbiosa. Un carro funebre s’avvicinava al ponte Garibaldi, andando rasente la fila sinistra dei platani, e qualche foglia secca vi cadeva sopra.
Vedeva soltanto la tuba nera del cocchiere, nascosto dalle ghirlande, quasi affondato dentro; e, dietro c’erano cinque carrozze piene di altre ghirlande. Era una cosa bella e dolce; che gli fece piacere. Si sentì attratto a camminare accanto al funerale; e guardava tutti quelli che si toglievano il cappello.
Nè meno gli alberi del Gianicolo schiarivano; e l’isola di San Bartolomeo, giù nell’acqua del fiume, era grigia.
Egli stava attento a tutto; come avesse sotto gli occhi la vita degli altri, e gli fosse possibile conoscere chiunque soltanto a guardarlo.
Ma, allora, all’improvviso, una gelosia violenta lo prese; e ricordò con un piacere triste, che aveva pensato di uccidere Albertina.