Federigo Tozzi
Con gli occhi chiusi

[VI]

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VI]

     Pietro, con gratitudine, sentiva vicino a Ghìsola le sue prime emozioni delicate. Ammirò un fiore quando gli venne voglia di coglierlo per lei; e, non arrischiandosi, lo buttava via; quando era ancora per non crederci, provando una diminuzione di se stesso. E come tutta la natura gli apparve a un tratto misteriosa, con violenza! Qualche cosa da disperarsene!
     Era stato bocconi in terra, chiudendo tra le braccia un pulcino per tenerlo con sé! Aveva aiutato le formiche, togliendo dal loro cammino un bastone che dovevano valicare esitando e poi disperate: tremolando con un chicco troppo grosso, che le faceva cadere capovolte! Teneva con tenerezza un indovinello in mano, e lo rimproverava quando volava via!
     Cercava di superare le sue malinconie; ma non poteva dimenticarle quanto avrebbe voluto. Talvolta ne era distaccato di soprassalto; e allora gli veniva uno stato mentale confuso e torbido che pareva sempre per andarsene. E aveva l'illusione che il suo spirito assumesse così enormi proporzioni che i suoi pensieri vi si smarrivano dentro, insieme con i loro echi improvvisi, come in una stanza troppo grande. Quante volte non s'era considerato perduto, mentre le imagini esteriori lo invadevano senza tregua! Ora gli pareva di avere la propria anima; ora diminuiva; mentre questi movimenti gli davano un malessere come quello delle vertigini.
     Talvolta gli pareva di trovarsi a scuola dove tutto a un tratto entrava una grancassa; e allora si sentiva tanta voglia di ridere che si spaventava, soffocando il grido dell'incubo. Anna credeva che avesse male; e gli metteva una mano su la fronte, dicendogli:
     «Ti viene la febbre?».
     Egli gridava, allora:
     «No! No! Lasciami stare!».
     Era un anno dalla notte degli usignoli, un anno come tutti gli altri: la trattoria e gli avventori, Poggio a' Meli e gli assalariati.
     Alla nuova primavera, Domenico aveva voluto fare grandi preparativi per le raccolte che aspettava migliori di prima. E andava di più al podere, quasi per compensarsi dello strapazzo alla trattoria. E siccome la stagione era buona, portava sempre con sé Pietro. Gli faceva bene, e forse non si sarebbe più riammalato!
     Voleva che andasse nel campo, per occuparsi anche lui delle viti da potare e di tutte le altre faccende. Ma era come se Pietro non vedesse e non udisse niente. Domenico, allora, lo faceva riaccompagnare fino all'aia da qualcuna delle donne, che saliva dal campo con un fascio d'erba fresca o con la gramigna tolta al vangato.
     Una volta Pietro s'era seduto ad attendere il padre su lo scalone di Giacco, dove stava sempre Ghìsola, perché senza avvedersene faceva come lei. Masa finiva di spazzare con una granata infilata a un vecchio manico d'ombrello; alzando una polvere così fitta che ne sentiva il sapore in bocca. Ella si raccomandò:
     «Si alzi».
     Ma egli non si mosse né meno. E la vecchia si fermò.
     Tra quegli stracci d'ogni colore, le matassine di capelli, le scatolette sfondate, c'era una bambola fatta d'un pezzo di stoffa bianca intorno a un mestolo. Pietro ebbe voglia di raccattarla, e s'alzò. Ma la vecchia, preso tempo, gettò la spazzatura fuori dell'uscio. E allora quella bambola, rimasta supina, parve a Pietro che fosse viva. E non la toccò. Ghìsola, sopraggiunta dal campo, vistala tra la spazzatura, stette zitta perché la nonna da tanto tempo le aveva detto di buttarla via, ma fece viso da piangere. Masa le gridò:
     «Pensi sempre a queste cose?».
     Pietro, per burlarla, affondò la bambola a calcagnate, nella melma; e poi ci si mise con furore, con il cuore palpitante, impaurito di vederla uscir fuori, pallido.
     Ghìsola, guardandolo dall'uscio, borbottò:
     «Stupido!».
     Pietro sentì rimorso, e tentò tutti i mezzi di riconciliarsi; ma lei gli volse le spalle, mangiando un pezzo di pane trovato nella madia. Allora egli aperse un temperino che aveva in tasca e le ferì una coscia. La giovinetta, impallidita, si sforzò di contenersi. Egli, credendo di non averle fatto male, con il temperino in mano, offeso e indispettito, fece l'atto di slanciarsi un'altra volta; ma ella, allora, gli tirò un calcio, e corse in camera buttando via il pane. La vecchia, al rumore delle sedie urtate, smise di spazzare e tornò in casa; andando a trovare Ghìsola che si sentiva frignare con quel frigno tutto unito e senza stacchi, che smette subito.
     Pietro, solo in cucina, ridendo sommessamente di spavento, s'avvicinò pian piano per vedere. Ma in quel mentre Masa uscì e gridò con collera:
     «Perché le ha fatto far sangue? Non deve esser così cattivo. Non voglio. Lo dirò al padrone».
     «Io non ci ho colpa».
     Masa, fuori di sé, mancò poco che non gli battesse qualche cosa su la testa.
     Pietro, convinto di quel che diceva, giurò perfino con certi giuramenti che gli avevano fatto un grande effetto a impararli; tutto contento di aver trovato l'occasione di ripeterli.
     Ma Domenico ed Anna lo picchiarono su le mani, in presenza di Masa e di Ghìsola; e gli fecero chiedere perdono. Allora Pietro, quantunque il castigo gli avesse fatto quasi piacere, si sentì lungo tempo mortificato, quasi che tutti i suoi scherzi lo portassero a qualche terrore. Gliene venne una superstizione tale che non giocò più, credendo anche che una volta o l'altra gli potesse succedere molto male. E ne aveva avuto la prova due anni prima: scaraventando un sasso, aveva ferito un altro ragazzo che si trovava, senza ch'egli lo sapesse, dietro una siepe. Perciò i suoi discorsi con Ghìsola presero un tono di gravità, quasi avessero dovuto nascondere un significato nuovo.
     Dopo qualche mese, trovatala per caso sola nel campo, prima s'allontanò e poi tornò indietro, arrischiandosi a chiederle:
     «Ti feci male parecchio?».
     I suoi piedi, che affondavano nella terra lavorata, gli davano un senso di sgomento. Ma ella lo guardò sorridendo:
     «Quando?»
     «Quando ti ficcai, senza volere, il temperino nella carne».
     Già quel sorriso, contrariandolo, gli aveva fatto perdere il filo.
     «Ci pensa sempre?».
     Egli si meravigliò di trovare in lei un sentimento che non somigliava né meno a quello supposto; e le chiese:
     «Te n'eri scordata, forse?»
     «Subito dopo».
     Parve a lui che volesse dire: "queste son cose cattive e non ci si pensa".
     «Ma devi aver sofferto da vero. Se tu vuoi fare ora lo stesso a me...»
     «Io?»
     «Ti giuro... Tu sai che quando giuro io è la verità. Non feci male a te?».
     E le spiegò che avrebbe dovuto, con quel temperino, fargli la stessa ferita; ed ella, per dargli a intendere che lo prendeva sul serio, rispose:
     «Quando vuole...».
     Ma l'acconsentimento diminuì la sua voglia.
     «Bisognerebbe che nessuno lo risapesse».
     «Dirò che sono stato io».
     Egli le prese la mano, perché tenesse il temperino; ma ella si divincolò subito, e fece una smorfia d'incredulità.
     «Ho mai detto bugie io? Non sono Agostino!».
     Ma gli parve così scontenta di quell'insistenza ch'egli se n'andò, battendo le mani su le spighe dell'avena alta; tutto confuso e deciso di non comparirle più dinanzi. E provò uno spiacere disgustoso a stare con lei. "Forse", pensava egli, "ha ricusato per la nonna e per la zia".
     Ghìsola, invece, si convinse che non parlasse sinceramente: e astiò il figlio del padrone, con quell'astio istintivo e cattivo, che hanno quelli costretti a ubbidire.
     Del resto, credette volentieri che non fosse sincero: era una ragione di più per volergli male! Quando lo vedeva da lontano, ed egli per timore non la guardava né meno, si metteva a cantare.


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