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[IX]
Pietro era doventato così
negligente, che verso il mese di maggio il rettore non lo volle più alla
scuola. Domenico lo percosse con lo scheggiale dei calzoni, fino a far piangere
anche Anna. Ma, il giorno dopo, nessuno gli disse più niente.
Anna spiegò a Rebecca:
«Sono le imprecazioni di quelli che ci vogliono
male».
Fece tutti i giorni alcune preghiere ad un santo;
ma non trovò mai modo di parlarne sul serio al marito, che le rispondeva
sempre:
«Oggi non posso».
Se lo tratteneva per la giubba, egli la lasciava
con queste parole:
«Pensaci tu a lui. Anche tu ora...».
Ella non osava di più, temendo che se la
rifacesse con Pietro; stordendolo a forza di pugni, con il pretesto di essersi
arrabbiato anche troppo.
Né meno la notte era possibile, perché a pena
gliene discorreva, stringeva i pugni e gridava:
«Lasciami dormire. Ho sonno; è da stamani che
lavoro. Riposati anche tu...».
Oppure rispondeva:
«Hai contato bene i denari incassati oggi? Prima
di venire a letto, dovevi contarli. È necessario».
Se ella, per rendergli il cambio, stava zitta, le
alzava il capo dal guanciale:
«Rispondi!».
Aspettava un poco, tentando di questionare; ma
poi si addormentava.
Durante una loro contesa in bottega, Pietro saltò
fuori a dire:
«Imparerò il disegno».
Lo scritturale di un notaio, che aveva finito
allora di mangiare, fece una enorme risata.
Pietro lo guardò a lungo, sbigottito dei suoi
occhi dolci e contenti che lo compativano.
Era un uomo grasso; dal volto lucido e purpureo,
sparso di bitorzoli. Aveva un vestito chiaro e una catena d'oro; i capelli
biondicci, la fronte bassa. Disse a Domenico, con convinzione tranquilla:
«Non gli date retta. Fategli imparare il vostro
mestiere. Voi trattori guadagnate quanto volete».
Tutti risero, perché alludeva al conto che doveva
pagare.
Pietro, mentre una specie di formicolìo lieve
attraversava il suo volto, dal mento alla fronte, esclamò:
«Che importa a lei?».
Costui trasse da un astuccio di cuoio un bocchino
d'ambra cerchiata d'oro, e v'infilò mezzo sigaro. Poi disse:
«Vai a comprarmi una scatola di fiammiferi».
E gli gettò un soldo su la tavola.
Pietro guardò anche suo padre: tutti lo
fissavano; i volti e gli occhi bruciavano la sua anima. Il cuore gli batteva.
Domenico disse:
«Vai, dunque!».
Egli afferrò la moneta, e corse dal tabaccaio.
Allora lo scritturale rise tanto che fece il viso
congestionato; e, tra gli scoppi di tosse, aggiunse:
«Fatelo ubbidire più che potete».
Anna soffriva di queste domestichezze; ma, per
paura di perdere gli avventori, non ci si metteva a tu per tu. Invece Domenico
se n'esaltava; e gli pareva sempre più di aver ragione. E diceva a Pietro:
«Stai attento a quello che ti dico io. Non hai
più bisogno di studiare. Basta che tu sappia fare la moltiplicazione.
Dovrebbero esser abolite le scuole, e mandati tutti gli insegnanti a vangare.
La terra è la migliore cosa che Dio ci ha data».
Anna, scontenta, rispondeva:
«Codeste sono idee tue».
Domenico chiedeva, con scherno:
«Quanto tempo ci sei andata a scuola tu?».
Non ci mancava che da contrastare con la moglie! Ella
scuoteva la testa.
«Noi, senza saper né meno la nostra firma,
abbiamo fatto fortuna».
Gli avventori rimanevano pensosi; poi
esclamavano, tanto per non scontentare di più Anna:
«È ancora giovine. Non c'è da capire quel che ci
potrete ricavare».
«Ma anche quando io avrò sessant'anni, ed egli
più di venti, sarò sempre capace di rompergli la testa».
«Oh, grosso e forte come voi non verrà di certo!».