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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
[XI]
Il cuoco era andato su l'uscio
di cucina a fumare una cicca, appoggiandosi al muro con le spalle e con la
testa; la cantiniera portava i piatti; e lo sguattero, saltando come un
ragazzo, corse a dire allo stalliere che attaccasse il cavallo.
Domenico bevve un altro bicchiere di vino; poi
tolsesi la dentiera per pulirla con la salvietta, di nascosto, tenendo le mani
sotto la tavola.
Anna, per cucire, prese una camicia.
Finalmente, Domenico con un colpo del suo
tovagliolo si levò le briciole da sopra i calzoni; si fece spolverare da
Rebecca e untare le scarpe da Tiburzi, dando nel frattempo qualche ordine. In
punta di piedi andò dietro il figliolo che tamburellava con le dita sopra un
vetro, accompagnando il mugolìo della sua voce a bocca chiusa; gli dette una
manata sul collo, e disse:
«Vieni in campagna con me».
Pietro, senza rispondere niente, saltò sul legno
già attaccato; e furono a Poggio a' Meli poco prima del tramonto.
Ghìsola, sbucando da una cantonata della capanna,
lo vide solo e fermo, con le mani in tasca, nel mezzo dell'aia; e lo
rimproverò, seria:
«Che cosa fa qui? Perché non è venuto prima? Una
volta non le pareva vero. Ma non m'importa!».
E aggiunse:
«So quel che vuol dirmi».
Egli pensò: "Sì, lo sa. Gli altri sanno
tutto di me. Io no".
Quella sua vita interiore che si sovrapponeva
sempre! Come si disperava di poter gustare soltanto dopo, e nel silenzio di se
stesso, quel che aveva provato e non detto! E si giudicava perciò inferiore
agli altri. Parlava bene con Ghìsola soltanto quando se lo imaginava, specie
appena desto.
E divenne più vergognoso. Il colletto gli dava
fastidio al mento.
Ghìsola lo guardò come se proprio ci ridesse
anche lei; e allora egli si mise a picchiare calci a un ulivo, che era lì,
perché ella smettesse. Ma quando risollevò gli occhi, Ghìsola lo guardava
ancora più fisso, con la bocca ridente, per burla: non c'era più dubbio!
Il sole tramontò tutto; e un brivido passò sopra
Pietro, che non poté più sopportare quel sorriso; volendo perfino dimenticare
d'averlo visto. Si rimise a testa bassa, pensando che avrebbe dovuto capire
perché non gli piaceva.
Ghìsola si riavviava i capelli, tenendo in mano
le forcelle per fargli vedere che erano nuove; e, prima di rimettersele, con
una alla volta gli bucò le mani. Ma egli non si mosse. Si vedevano, fitti,
piegarsi i fili d'erba in cima ai quali saltavano gli insetti.
Mentre Ghìsola lo bucava, Pietro pensò:
"Certo sa quello che voglio. Ma bisognerebbe che glielo potessi dire: è
necessario".
Le sue calze rosse gli facevano coraggio; ma, non
potendo pronunziare nessuna parola, si avvicinò di più a lei quasi tremando.
Tra gli olivi ci si vedeva appena; e la terra era
già bruna.
«Che vuole? Me lo dica di costì. Non venga in qua
troppo».
Ghisola s'accorse che non distoglieva gli occhi
dalle sue calze; ma con la sottana troppo corta non poteva nasconderle.
«Lo sai?».
Il volto di lei divenne dolce e pudico.
«Lo sai? Dimmelo».
Ella si coperse di un rossore, che le cambiò la
fisonomia.
«Lo so».
E siccome si faceva sempre più vicino, lo
allontanò con le mani magre e dure.
Pietro era così ebbro che quasi vacillava. Gli
occhi di Ghìsola lo fissavano sempre: vedeva soltanto quegli occhi; e credette
che tutta l'ombra dietro di lei e il campo insieme si muovessero secondo i suoi
gesti.
«Mi lasci, ora! Ci parleremo un'altra volta...
Un'altra volta, ho detto!».
Gli parve che la sera gli togliesse la carne, lo
facesse sparire.
Ghìsola sussurrò:
«Le voglio bene».
E scappò dalla parte opposta della capanna: il
padrone s'incamminava verso l'aia, con le sue scarpe enormi, respirando forte e
alzando e abbassando un poco il capo. Pietro continuò a starsene lì,
sbocconcellando, con un sasso che s'era ritrovato in tasca, la cantonata della
capanna. Si sbucciava le nocche, ma non sentiva niente.
Domenico lo guardò; e si mise a ridere con
Enrico, l'assalariato che lo seguiva.
«Sei matto oppure no? Che ci fai costì, a
sciupare il muro?».
E, poi, all'assalariato:
«Quell'altra cialtrona, al meno, è scappata a
tempo!».
«Oh, ma per ora son tutti e due ragazzi! Io credo
che ruzzino sempre».
Li difendeva supponendo che il padrone ci avesse
piacere per Giacco e Masa. Ma Domenico, contento di poterlo contraddire con la
sua autorità, rispose:
«Io me ne intendo più di te. Stai zitto».
Enrico convenne, allora:
«Comincerebbero presto!».
E inghiottì, come faceva sempre dopo aver
parlato.
Pietro s'era impaurito del rimprovero; e già
aveva dimenticato Ghìsola; sebbene gliene rimanesse un fascino troppo forte per
lui. S'incamminò verso il padre, che voltava il cavallo alla strada, menandolo
per la briglia.
«Sali su».
Egli obbedì, cercando di pulirsi le mani terrose;
e non guardando in volto nessuno.
Il cavallo non voleva star fermo dinanzi al
cancello aperto; e allora Domenico cominciò a sferzarlo sopra i ginocchi. La
bestia si trasse in dietro, alzando le gambe anteriori; il calesse urtò contro
il muro.
«Sta' fermo. Devi imparare. E se non impari...».
E gli dette una sferzata.
«Se anche tu non impari a fare il tuo dovere...».
E gli dette un'altra sferzata.
«Te lo insegno io. Devi star fermo».
Voltò la frusta e gli batté il manico sulle
frogie; il cavallo scosse la testa, e Pietro fece l'atto di scendere.
«Tu stai al tuo posto. Se scendi, frusto anche
te».
Tutti gli assalariati guardavano inquieti; ed
erano impazienti che il padrone se ne andasse perché temevano che se la
prendesse anche con loro, trattandoli male, pensando magari di poterli
bastonare.
Il cavallo si fermò.
Domenico dette la sferza a Pietro, e si
riabbottonò la giubba dinanzi alla bestia:
«Bada che io voglio essere obbedito! Non vedi che
stai fermo? Ora farò tutto il mio comodo, e poi salirò».
E, per farne la prova, si sbottonava e si
riabbottonava la giubba, interrompendosi quando la bestia smuoveva la testa.
Affibbiò meglio una delle redini, e salì; fermandosi con un piede sul
montatoio; poi, prendendo lo slancio, con le mani attaccate al calesse, si
buttò accanto a Pietro, a cui gridò:
«Vai più costà».
Pietro era così imbarazzato che non si mosse.
«Ma vai in costà, imbecille!».
E, subito, agli assalariati:
«Fate il vostro dovere, altrimenti vi mando via
tutti. Domani quelle prese devono essere vangate».
«Sissignore».
«Non dubiti».
«Se non fossimo capaci a vangarle in quanti siamo
e in tutto il giorno!».
«Almeno che non piova!».
Il padrone guardò quello che aveva detto così,
con l'aria di avventarglisi addosso; e disse con voce che pareva uno scalpello
percosso sopra una pietra:
«Se piove, tramuterete il vino. Tu, Giacco,
consegnerai le chiavi del tinaio; le hai a posta».
«Sissignore. Come vuole».
Finalmente, si ricordò della trattoria; guardò
l'orologio e vide che non poteva più indugiarsi. E allora li lasciò.
Il tramonto era stato rapido e pieno di quelle
nuvole che portano la pioggia. Pietro teneva le mani in tasca, pensando che
avrebbe fischiato se fosse stato solo. Pareva, nell'oscurità, che le gambe del
cavallo battessero insieme. Domenico guidava, irritandosi perché non aveva
imposto ai contadini di aprire le buche per gli olivi. Temendo che i suoi
ordini non fossero eseguiti con precisione, con l'animo ansioso, gli pareva di
seguire quel che facevano; e si struggeva di non essere sempre accanto a loro.
Talvolta, per la voglia di sorprenderli, diveniva smanioso e anche più
violento.
Pensò di tornare a dietro per assicurarsi che
nessuno era rimasto a perder tempo nel mezzo del piazzale, magari a parlare di
lui. Guardò le nuvole, e gli venne voglia di frustarle, per rimandarle giù.
Intanto un sogno cupo aveva invaso Pietro: il
cavallo era trascinato, all'inverso, con il calesse, dentro una spalancatura
interminabile della sua anima.
Ad un tratto, con un moto improvviso e
involontario, dopo aver sentito il sapore della propria bocca, sospirò; e mosse
la testa innanzi, quasi fosse per cadere.
Domenico gridò: «Che hai?».
Credette che avesse sonno e gli voleva dare un
pugno.
I cipressi di Vico Alto tagliavano l'aria. La
Porta Camollia era rossiccia e si vedeva di lontano il primo dei lampioni accesi
dentro la città.
Gli alberi del viale, su la balza della ferrovia,
si movevano silenziosamente con tutte le fronde dinanzi ai monti di un violetto
limpidissimo: l'Osservanza era dolce.
Di là dai tetti della Via Camollia, la cima del
Mangia era bianca, quasi splendente, su nel cielo; ma la sua campana, con
l'armatura di ferro, più nera.