Federigo Tozzi
Con gli occhi chiusi

[XI]

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XI]

     Il cuoco era andato su l'uscio di cucina a fumare una cicca, appoggiandosi al muro con le spalle e con la testa; la cantiniera portava i piatti; e lo sguattero, saltando come un ragazzo, corse a dire allo stalliere che attaccasse il cavallo.
     Domenico bevve un altro bicchiere di vino; poi tolsesi la dentiera per pulirla con la salvietta, di nascosto, tenendo le mani sotto la tavola.
     Anna, per cucire, prese una camicia.
     Finalmente, Domenico con un colpo del suo tovagliolo si levò le briciole da sopra i calzoni; si fece spolverare da Rebecca e untare le scarpe da Tiburzi, dando nel frattempo qualche ordine. In punta di piedi andò dietro il figliolo che tamburellava con le dita sopra un vetro, accompagnando il mugolìo della sua voce a bocca chiusa; gli dette una manata sul collo, e disse:
     «Vieni in campagna con me».
     Pietro, senza rispondere niente, saltò sul legno già attaccato; e furono a Poggio a' Meli poco prima del tramonto.
     Ghìsola, sbucando da una cantonata della capanna, lo vide solo e fermo, con le mani in tasca, nel mezzo dell'aia; e lo rimproverò, seria:
     «Che cosa fa qui? Perché non è venuto prima? Una volta non le pareva vero. Ma non m'importa!».
     E aggiunse:
     «So quel che vuol dirmi».
     Egli pensò: "Sì, lo sa. Gli altri sanno tutto di me. Io no".
     Quella sua vita interiore che si sovrapponeva sempre! Come si disperava di poter gustare soltanto dopo, e nel silenzio di se stesso, quel che aveva provato e non detto! E si giudicava perciò inferiore agli altri. Parlava bene con Ghìsola soltanto quando se lo imaginava, specie appena desto.
     E divenne più vergognoso. Il colletto gli dava fastidio al mento.
     Ghìsola lo guardò come se proprio ci ridesse anche lei; e allora egli si mise a picchiare calci a un ulivo, che era , perché ella smettesse. Ma quando risollevò gli occhi, Ghìsola lo guardava ancora più fisso, con la bocca ridente, per burla: non c'era più dubbio!
     Il sole tramontò tutto; e un brivido passò sopra Pietro, che non poté più sopportare quel sorriso; volendo perfino dimenticare d'averlo visto. Si rimise a testa bassa, pensando che avrebbe dovuto capire perché non gli .
     Ghìsola si riavviava i capelli, tenendo in mano le forcelle per fargli vedere che erano nuove; e, prima di rimettersele, con una alla volta gli bucò le mani. Ma egli non si mosse. Si vedevano, fitti, piegarsi i fili d'erba in cima ai quali saltavano gli insetti.
     Mentre Ghìsola lo bucava, Pietro pensò: "Certo sa quello che voglio. Ma bisognerebbe che glielo potessi dire: è necessario".
     Le sue calze rosse gli facevano coraggio; ma, non potendo pronunziare nessuna parola, si avvicinò di più a lei quasi tremando.
     Tra gli olivi ci si vedeva appena; e la terra era già bruna.
     «Che vuole? Me lo dica di costì. Non venga in qua troppo».
     Ghisola s'accorse che non distoglieva gli occhi dalle sue calze; ma con la sottana troppo corta non poteva nasconderle.
     «Lo sai?».
     Il volto di lei divenne dolce e pudico.
     «Lo sai? Dimmelo».
     Ella si coperse di un rossore, che le cambiò la fisonomia.
     «Lo so».
     E siccome si faceva sempre più vicino, lo allontanò con le mani magre e dure.
     Pietro era così ebbro che quasi vacillava. Gli occhi di Ghìsola lo fissavano sempre: vedeva soltanto quegli occhi; e credette che tutta l'ombra dietro di lei e il campo insieme si muovessero secondo i suoi gesti.
     «Mi lasci, ora! Ci parleremo un'altra volta... Un'altra volta, ho detto!».
     Gli parve che la sera gli togliesse la carne, lo facesse sparire.
     Ghìsola sussurrò:
     «Le voglio bene».
     E scappò dalla parte opposta della capanna: il padrone s'incamminava verso l'aia, con le sue scarpe enormi, respirando forte e alzando e abbassando un poco il capo. Pietro continuò a starsene , sbocconcellando, con un sasso che s'era ritrovato in tasca, la cantonata della capanna. Si sbucciava le nocche, ma non sentiva niente.
     Domenico lo guardò; e si mise a ridere con Enrico, l'assalariato che lo seguiva.
     «Sei matto oppure no? Che ci fai costì, a sciupare il muro?».
     E, poi, all'assalariato:
     «Quell'altra cialtrona, al meno, è scappata a tempo!».
     «Oh, ma per ora son tutti e due ragazzi! Io credo che ruzzino sempre».
     Li difendeva supponendo che il padrone ci avesse piacere per Giacco e Masa. Ma Domenico, contento di poterlo contraddire con la sua autorità, rispose:
     «Io me ne intendo più di te. Stai zitto».
     Enrico convenne, allora:
     «Comincerebbero presto!».
     E inghiottì, come faceva sempre dopo aver parlato.
     Pietro s'era impaurito del rimprovero; e già aveva dimenticato Ghìsola; sebbene gliene rimanesse un fascino troppo forte per lui. S'incamminò verso il padre, che voltava il cavallo alla strada, menandolo per la briglia.
     «Sali su».
     Egli obbedì, cercando di pulirsi le mani terrose; e non guardando in volto nessuno.
     Il cavallo non voleva star fermo dinanzi al cancello aperto; e allora Domenico cominciò a sferzarlo sopra i ginocchi. La bestia si trasse in dietro, alzando le gambe anteriori; il calesse urtò contro il muro.
     «Sta' fermo. Devi imparare. E se non impari...».
     E gli dette una sferzata.
     «Se anche tu non impari a fare il tuo dovere...».
     E gli dette un'altra sferzata.
     «Te lo insegno io. Devi star fermo».
     Voltò la frusta e gli batté il manico sulle frogie; il cavallo scosse la testa, e Pietro fece l'atto di scendere.
     «Tu stai al tuo posto. Se scendi, frusto anche te».
     Tutti gli assalariati guardavano inquieti; ed erano impazienti che il padrone se ne andasse perché temevano che se la prendesse anche con loro, trattandoli male, pensando magari di poterli bastonare.
     Il cavallo si fermò.
     Domenico dette la sferza a Pietro, e si riabbottonò la giubba dinanzi alla bestia:
     «Bada che io voglio essere obbedito! Non vedi che stai fermo? Ora farò tutto il mio comodo, e poi salirò».
     E, per farne la prova, si sbottonava e si riabbottonava la giubba, interrompendosi quando la bestia smuoveva la testa. Affibbiò meglio una delle redini, e salì; fermandosi con un piede sul montatoio; poi, prendendo lo slancio, con le mani attaccate al calesse, si buttò accanto a Pietro, a cui gridò:
     «Vai più costà».
     Pietro era così imbarazzato che non si mosse.
     «Ma vai in costà, imbecille!».
     E, subito, agli assalariati:
     «Fate il vostro dovere, altrimenti vi mando via tutti. Domani quelle prese devono essere vangate».
     «Sissignore».
     «Non dubiti».
     «Se non fossimo capaci a vangarle in quanti siamo e in tutto il giorno!».
     «Almeno che non piova!».
     Il padrone guardò quello che aveva detto così, con l'aria di avventarglisi addosso; e disse con voce che pareva uno scalpello percosso sopra una pietra:
     «Se piove, tramuterete il vino. Tu, Giacco, consegnerai le chiavi del tinaio; le hai a posta».
     «Sissignore. Come vuole».
     Finalmente, si ricordò della trattoria; guardò l'orologio e vide che non poteva più indugiarsi. E allora li lasciò.
     Il tramonto era stato rapido e pieno di quelle nuvole che portano la pioggia. Pietro teneva le mani in tasca, pensando che avrebbe fischiato se fosse stato solo. Pareva, nell'oscurità, che le gambe del cavallo battessero insieme. Domenico guidava, irritandosi perché non aveva imposto ai contadini di aprire le buche per gli olivi. Temendo che i suoi ordini non fossero eseguiti con precisione, con l'animo ansioso, gli pareva di seguire quel che facevano; e si struggeva di non essere sempre accanto a loro. Talvolta, per la voglia di sorprenderli, diveniva smanioso e anche più violento.
     Pensò di tornare a dietro per assicurarsi che nessuno era rimasto a perder tempo nel mezzo del piazzale, magari a parlare di lui. Guardò le nuvole, e gli venne voglia di frustarle, per rimandarle giù.
     Intanto un sogno cupo aveva invaso Pietro: il cavallo era trascinato, all'inverso, con il calesse, dentro una spalancatura interminabile della sua anima.
     Ad un tratto, con un moto improvviso e involontario, dopo aver sentito il sapore della propria bocca, sospirò; e mosse la testa innanzi, quasi fosse per cadere.
     Domenico gridò: «Che hai?».
     Credette che avesse sonno e gli voleva dare un pugno.
     I cipressi di Vico Alto tagliavano l'aria. La Porta Camollia era rossiccia e si vedeva di lontano il primo dei lampioni accesi dentro la città.
     Gli alberi del viale, su la balza della ferrovia, si movevano silenziosamente con tutte le fronde dinanzi ai monti di un violetto limpidissimo: l'Osservanza era dolce.
     Di dai tetti della Via Camollia, la cima del Mangia era bianca, quasi splendente, su nel cielo; ma la sua campana, con l'armatura di ferro, più nera.


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