IntraText Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
La morte di Anna era stato un
vero danno per Domenico. I sottoposti non lavoravano più quanto prima; ed egli,
preso da uno sconforto che lo rendeva furioso, doventava più irascibile; e non
era infrequente che se la pigliasse con qualcuno senza nessuna ragione. Si fece
anche più economo, e dovette rinunciare a molti progetti per la trattoria e per
il podere. Doveva lavorare di più, e non poteva sopportare la stanchezza. E fu
addirittura incapace di pensare per il figliolo come avrebbe dovuto. Lo lasciò
quasi libero; ma non di rado, quando se ne pentiva, lo trattava senza riguardi
e con una violenza così sproporzionata che anche Rebecca lo difendeva. E,
allora, smetteva; ma, alla prima occasione, faceva peggio come se avesse dovuto
vendicarsi.
Anna era morta la seconda settimana di gennaio;
e, tutte le domeniche, prima di giorno, il trattore andava con due mazzi di
fiori alla sua tomba. Avrebbe voluto portarne uno lui e darne uno a Pietro; ma
Pietro non l'ubbidiva. Piegando i ginocchi dalle percosse, mortificato, diceva:
«Ma perché? Non mi devi dare i calci».
E se lo avessero riconosciuto?
Nel cielo cominciavano quegli immensi chiarori,
che vengono dall'alba ancora lontana; le strade erano tetre ed umide.
Di solito, soltanto poche persone passavano,
camminando in fretta; e si udiva bene quel che dicevano: le voci risuonavano
come le scarpe con i chiodi su le pietre. E qualcuno, per lo più facchini che
si recavano all'arrivo dei treni, accendeva la pipa, coprendo con ambedue le
mani il fiammifero.
Domenico, quasi a metà della strada, entrava in
un bar dov'era una ragazza con una veste così scollacciata che Pietro aveva paura
si aprisse tutta.
Ella rideva agli avventori; e allora le sue gote
incipriate, sode e rotonde, si gonfiavano fino a farle socchiudere gli occhi.
Dava quel sorriso come le tazzine di porcellana filettare d'oro.
Pietro non voleva entrare. Domenico tornava
fuori, strascinandocelo.
La ragazza faceva la sguaiata con Domenico: ma
Pietro se ne stava a capo chino, impacciato di lei, del suo vezzo, e degli
specchi grandi come le pareti; non sapendo né meno come prendere il caffè. E si
bruciava le dita e la bocca.
Esciva prima che il padre avesse avuto il tempo
di bevere; e, dai vetri velati di vapore, che si scioglieva in sgocciolature
lunghe e torte, lo vedeva ridere con la ragazza.
Su la Torre del Palazzo Pubblico, a sereno,
batteva una luce più limpida, e il cielo era pieno di rondoni, che stridevano
con stridi lunghi come i loro voli. La Piazza del Campo era tutta rosea, con
alcune strisciate verdi di erba e con i colonnini di pietra bianca.
"Quest'altra domenica, io entrerò senza che
egli mi ci forzi".
Ma pareva che quella specie di timidezza
crescesse da una settimana all'altra; divenisse come una malattia; e,
sovvenendosene, sentiva la fronte coperta di sudore diaccio. Dopo, le mani gli
si irrigidivano in tasca, con la fodera presa tra le dita; e i piedi si
rifiutavano di muoversi.
Anche Domenico, del resto, camminava lentamente;
e quando era infreddato, per cavare il fazzoletto e soffiarsi il naso, si
fermava.
Salendo la Via di Città e poi quella di
Stalloreggi, Pietro era sempre più triste.
Giunti al cimitero, Domenico chiacchierava con
Braciola, il becchino del colore della sua terra, grasso come fosse stato pieno
di vermi, con i baffi bianchicci; e, infilati i mazzi dentro due lunghi vasi di
porcellana, dov'era restata un poco d'acqua quasi nera, sempre la stessa,
guardandosi attorno esclamava:
«Come si allarga in fretta! Quando morì la tua
mamma, le tombe arrivavano soltanto qui».
Restava fermo, e poi chiedeva:
«La vedova non è venuta stamani?»
«Prima di noi, forse. Andiamocene, è inutile
aspettarla».
«È presto. Perché non la vuoi aspettare? Tutte le
mattine porta i fiori».
Pensava male del figliolo, che non si curava
punto di lei, la sola persona che a quell'ora si trovasse sempre come loro
dentro il cimitero!
Ma la vedova aveva sentito diminuire l'importanza
della sua fedeltà devota. Perché proprio il Rosi doveva pigliare quella stessa
abitudine quando era noto per tutta la città che non aveva adorato la moglie,
come ora voleva far credere?
Gli dava un'occhiata diffidente, rispondendo
imbarazzata al suo saluto. E quale effetto le faceva quel ragazzo che non
guardava né meno le tombe, con le mani in tasca, e un'aria assonnata o
impertinente!
Pietro esclamava:
«Io vado via».
E questo battibecco doventava sempre peggio.
Domenico, una volta, ormai alla fine dell'inverno, gl'impose:
«Vattene».
Pietro arrossì, ma disse:
«Che me ne importa di lei?».
La guazza aveva come appastata la terra delle
fosse nuove. Qualche uccello volava di traverso, tutto inclinato da una parte.
Tra i cipressi si vedevano le montagne, che sembravano soltanto lunghe striscie
di colore ancora umido.
Le lapidi erano coperte di chioccioline grigie.
La Cattedrale si faceva sempre più bianca; e Pietro si accorse, guardandola,
d'esser pieno d'ira.
Incontrarono la vedova al cancello; e Domenico la
salutò. Ella rispose senza né meno voltarsi; ma badando Pietro con la coda
dell'occhio. Domenico si fermò, e disse come tutte le altre volte:
«Ora va alla tomba del marito».
Tutti la conoscevano soltanto di vista, e
Domenico non ne sapeva più degli altri. Tornando dal cimitero, dove pregava
almeno una mezz'ora, faceva la spesa; e nessuno, fino alla mattina dopo, la
rivedeva più.
Era bassa e grassa; e, camminando, le rimbalzava
il seno quasi sorretto dalla sporgenza del ventre. Il suo cappello, troppo
piccolo, era tenuto fermo con un elastico nero che le girava dietro gli orecchi
e sotto la gola. Ad ogni passo, una sua vecchia piuma verdognola si scuoteva
come se ricevesse un colpo. Tra i capelli, radi e tirati con forza, con una
forcellina, si vedeva la nuca untuosa e rossiccia come pelle d'oca. Era
vestita, chi sa da quando, allo stesso modo; forse non per miseria.
Domenico, dopo averla seguita con gli occhi,
chiese al figliolo:
«A che pensi?»
Pietro sorrise, e disse:
«Io? A niente».
«Perché, dunque, stai con la testa bassa?»
«Non me ne accorgo, lo sai!».
«Così tu sei brutto, mentre io ti avrei messo al
mondo simpatico. E a scuola perché ci vuoi tornare? Non ti sei fatto mandar
via?».
Domenico gli parlava della scuola con
risentimento e in quei momenti creduti da lui più opportuni a influire sul suo
animo.
Il giovinetto tacque, sentendosi come svenire: il
padre non si sarebbe mai dimenticato di fargli questo rinfaccio, per valersene!
E, vedutolo confuso e mortificato, riprese:
«Potresti aiutar me, e tra qualche anno prender
moglie».
Domenico trovava conveniente ammogliarlo presto,
ora che non c'era una padrona nella trattoria; e più di una volta gli aveva
misurato con un'occhiata l'aspetto e la statura; per convincersi che non era
presto; per quanto avesse soltanto sedici anni.
«Io... non mi sposerò».
«E, allora, pensaci bene: sarò costretto a
riprenderla io. Ti dispiacerebbe?».
Pietro esitò; ma, per non esser distolto dalla
voglia di tornare a scuola, chiese:
«E chi sarebbe?».
Il padre, per provare il suo vero sentimento,
rispose:
«Te lo farò sapere presto».
E lo guardò. Ma Pietro ne aveva parlato come di
cose altrui; e aggiunse:
«Mi hanno detto quella signora... che ha due
figlie. La signora... che venne a mangiare anche ieri l'altro».
Si trattava di una ciarla, e basta. Domenico
riprese:
«Sarebbe meglio che sposassi tu una di quelle».
«Io?».
Arrossì un'altra volta, perché gli parve una cosa
troppo sopra a se stesso; quantunque lo agitasse un poco.
«T'insegnerò quella che mi piacerebbe per te».
Egli rise: «Ho capito: la minore».
Ma Domenico non rispose più, già pensando che la
sera avanti si era dimenticato di mandare a dire ai suoi assalariati che
portassero alla monta le vacche.
«Se non rispondi, perché ne abbiamo parlato?».
Si arrischiò a chiedere Pietro. Ma Domenico gridò
con collera:
«Tu non sei in grado d'immischiarti in quello che
faccio io. Darei da mangiare anche alla tua moglie? Se non la finisci! Vedi:
dovresti andare a Poggio a' Meli!».
E, come faceva ad ogni occasione, trasse dal
taschino del panciotto una piccola corona nera, che teneva lì con alcune
sterline d'oro; e disse la solita frase, dopo avergli quasi toccato la fronte
con la croce:
«Vedi? Questo è il ricordo della mia povera mamma
Gigella. Io la porto sempre con me. Non mi dette altro, quando la lasciai per
venire a Siena. E tu che cos'hai che ti ricordi la tua mamma?».
Ma, accortosi che ora, a sua volta, Pietro non lo
ascoltava né meno, s'inquietò: gli pareva impossibile che un figliolo facesse
così! E dire che aveva avuto intenzione perfino di mettergli il suo nome, tanto
doveva assomigliargli, appartenergli!
Quasi l'avrebbe preso con le mani, per stroncarlo
come un fascello! Proprio il figlio sfuggiva alla sua volontà? Non doveva
obbedire più degli altri, invece?
Ad un tratto, come un'insinuazione a tradimento,
capì che anche egli era come un'altra persona qualunque.
E, allora, sarebbe stato meglio che non gli fosse
nato. Perché gli era nato? Meglio non parlargli più, sopportando che camminasse
accanto, in silenzio, magari a testa bassa, fino a batterla sul lastrico.
Pietro portò le chiavi della bottega ai camerieri
che lo attendevano nella strada; ed entrò con loro anche lui; ma, senza la
voglia di restarci, come avrebbe dovuto, salì in casa. Domenico gli aveva dato
le chiavi evitando che i loro occhi s'incontrassero; e, fatta tutta la spesa,
lo mandò a chiamare perché aveva lasciato i sottoposti soli.
«Tu non saprai mai essere un padrone. Come farai
a comandare se tu stesso non impari?».
Ora parlava con il figliolo per sfogarsi; e il
suo rimprovero era pieno di bontà. Poi, presi in mano tutti i mazzi degli
uccelli da cuocere allo spiedo, gli disse:
«Questo è un tordo, e questa un'allodola: aiutami
a pelare».
E si sedé dinanzi a un gran paniere, dove
andavano le penne. Ma Pietro era così distratto che canticchiò un poco,
sottovoce; e poi rispose:
«Se tu sei contento, vado a leggere un libro».
Domenico finì d'infilare in uno spiedo gli
uccelli già spennati, pose in ordine il girarrosto; poi gli chiese: «Che libro
è?»
«Quando te l'ho detto, non capirai lo stesso».
Domenico, tenendo una mano alzata, sentenziò con
la sua aria di padrone:
«Io me ne intendo più di tutti gli scienziati,
perché sono tuo padre. Nessuno meglio di me sa quello che ci vuole per te».
E si mise la mano al petto, come per confermare
che diceva la verità; sul grembiule tutto insanguinato e impennato. Poi andò al
fornello, spezzò con la paletta la brace grossa; prese per le spalle Tiburzi, e
lo piegò alla buca del carbone, gridando:
«Non vedi da te che c'è più fuoco?».
Domenico, ormai, non pensava più a Pietro; ma,
quando lo rivide lì, gli s'avventò con il pugno chiuso:
«Vattene!».
Pietro stette fermo, e abbassò la testa;
guardando da sotto in su.
Il movimento trafelato dei cuochi, continuamente
stimolati e ripresi anche con male parole e con spinte da Domenico, che in
un'ora voleva sempre preparare tutte le pietanze, non riusciva a toglierlo da
quelle distrazioni.
Già la violenza del trattore aveva fatto tacere
tutti; e nessuno poteva fare a meno d'obbedire, magari sbagliando anche di più.
Ma quando egli entrò in un bugigattolo buio per attaccare da sé agli uncini i
pezzi di carne che voleva lasciare cruda, Guerrino si volse subito a Pietro,
mettendo la lingua tra i denti, perché si ricordasse di una sua barzelletta
raccontata la sera innanzi. Tutti sorrisero, senza smettere di lavorare. E
Pietro disse sottovoce:
«Raccontamene un'altra».
Il cuoco, sdrucciolando in una fetta di codenna,
gli fece un altro gesto per fargli capire d'aspettare. Tiburzi, con la giacca
turchina, che sopra la legatura del grembiule gli si gonfiava in tante pieghe,
vigilava girando gli occhi, senza smuovere la testa; ilare e pestando i piedi
dalla contentezza, con le braccia nell'acqua tiepida delle zangole untuose e
piene di piatti da lavare. Egli aveva un gozzo duro e giallastro, come gli ci
fosse rimasta una pietra; uno di quei gozzi da galline satolle.
Ma Domenico, che parecchie volte fingeva appunto
di non udire e di non vedere per conoscere meglio i suoi sottoposti, rientrò
dicendo:
«Ghìsola ha avvezzato male anche te!».
Pietro, impaurito e sorpreso, domandò:
«Perché?».
Tutti gli si volsero, con allegra curiosità.
Come la incolpava? Qualcuno certo gli aveva fatto
bevere cose non vere! Ecco perché l'aveva rimandata a Radda! Ma egli n'ebbe
invece simpatia; contro l'ingiustizia con la quale la dileggiavano; e desiderò
di rivederla. Ma perché tutti lo guardavano con malizia, ridendo e
divertendocisi? E perché suo padre era così convinto di quel che aveva detto?
Rimase con i diti appuntellati sul tavolino, afflitto.
Ora era un giovinetto magro e pallido, con il
vizio di tenere una spalla più su dell'altra. Vestiva male, con un cordoncino
rosso al colletto sempre sgualcito e sporco; i capelli biondi, gli orecchi
troppo larghi e discosti dalla testa; gli occhi di un celeste chiaro chiaro e
come se egli avesse qualche cosa da difendere. Il volto con un'animosità
ingenua e malinconica, ma sicura e risoluta; quasi imbarazzante e spiacevole.
Talvolta, a giornate intere, sembrava
malcontento; ma, se gli parlavano, doventava subito tranquillo e affabile.
Tartagliava meno.
Quel che provava dinanzi alle cose rimaneva
troppo indefinibile, ed egli ne soffriva. La primavera era come una violenza.
Leggere, allora, un libro sotto qualche albero! Interrompeva la lettura a mezze
pagine, a caso, per alzarsi in piedi e tirare fino alla faccia un ramo, quasi
per farsi accarezzare. Ma avrebbe voluto chiedergli il permesso; guardando
dinanzi le colline ricoperte di chiome candide e spioventi, mandorli e peschi,
che pendevano da qualche parte, come se dovessero spargersi a terra. E,
assicuratosi che nessuno lo avesse scorto, sospirava ricominciando a leggere.
Non aveva trovato ancora il libro per la sua anima. Talvolta non leggeva più,
perché gli pareva di vedere di là dalle pagine che doventavano come trasparenti
e sfondate.
Se un insetto, salitogli su per i calzoni,
giungeva sopra il libro, smetteva anche allora.
Qualche uccello entrava tra le rame in fiore, con
il movimento e la forza di un ago infilato; come se le fronde si fossero aperte
e poi richiuse per lui.
Anche prima che Anna morisse, non voleva andare
in chiesa; ed ella non riusciva quasi mai a farlo pregare. Ormai si sentiva
ateo. Bestemmiava, perché non voleva avere i pregiudizii dei preti. E Domenico
ne dava tutta la colpa a quei maledetti libri della scuola.