Federigo Tozzi
Con gli occhi chiusi

[XXIV]

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XXIV]

     Pietro, gracile e sovente malato, aveva sempre fatto a Domenico un senso d'avversione: ora lo considerava, magro e pallido, inutile agli interessi; come un idiota qualunque!
     Toccava il suo collo esile, con un dito sopra le venature troppo visibili e lisce; e Pietro abbassava gli occhi, credendo di dovergliene chiedere perdono come di una colpa. Ma questa docilità, che fuggiva alla sua violenza, irritava di più Domenico. E gli veniva voglia di canzonarlo.
     Quei libri! Li avrebbe schiacciati con il calcagno! Vedendoglieli in mano, talvolta non poteva trattenersi e glieli sbatteva in faccia.
     Chi scriveva un libro era un truffatore, a cui non avrebbe dato da mangiare a credito.
     E intanto Pietro gli aveva fatto spendere le tasse tre anni di seguito per la scuola tecnica!
     Dopo averlo guardato, a lungo, su un orecchio o su la nuca debole e vuota, faceva gesti belluini, mordendosi il labbro di sotto, piantando all'improvviso un coltello su la tavola e smettendo di mangiare.
     Pietro stava zitto e dimesso; ma non gli obbediva. Si tratteneva meno che gli fosse possibile in casa; e, quando per la scuola aveva bisogno di soldi, aspettava che ci fosse qualche avventore di quelli più ragguardevoli; dinanzi al quale Domenico non diceva di no. Aveva trovato modo di resistere, subendo tutto senza mai fiatare. E la scuola allora gli parve più che altro un pretesto, per star lontano dalla trattoria.
     Trovando negli occhi del padre un'ostilità ironica, non si provava né meno a chiedergli un poco d'affetto.
     Ma come avrebbe potuto sottrarsi a lui? Bastava uno sguardo meno impaurito, perché gli mettesse un pugno su la faccia, un pugno capace d'alzare un barile. E siccome alcune volte Pietro sorrideva tremando e diceva: «Ma io sarò forte quanto te!» Domenico gli gridava con una voce che nessun altro aveva:
     «Tu?».
     Pietro, piegando la testa, allontanava pian piano quel pugno, con ribrezzo ed ammirazione.
     Da ragazzo quella voce lo spaventava, gli faceva male; e allora si rincantucciava, senza piangere, per essere lasciato solo. Ora ne provava una scontentezza esasperante. E, convinto che non avrebbe dovuto soffrire a quel modo, si esaltò sempre più nelle parole di riscatto e di giustizia; come trovava scritto in certi opuscoli di prestatigli dal suo barbiere.
     Entrò nel partito socialista, e fondò perfino un circolo giovanile. Prima di nascosto, e poi vantandosene con tutti quelli che capitavano nella trattoria. La sua ambizione doventò, allora, quella di scrivere articoli in una Lotta di classe; che usciva tutte le settimane. E se la polizia lo avesse fatto arrestare, sarebbe stato contento. Sognava processi, martirii, conferenze ed anche la rivoluzione. Quando un altro lo chiamava «compagno», si sarebbe fatto a pezzi per lui; senza né meno pensarci.
     Domenico, invece, era preso sempre di più dal lavoro e dal podere; e non c'era nessuno che l'aiutasse!
     Nelle ore di caldo asfissiante, quando la trattoria restava vuota, lo sguattero e il cuoco dormivano con il capo appoggiato sopra il ceppo, coprendosi con i loro grembiuli per via delle mosche che volavano su gli strofinacci untuosi; si fermavano, tutte accosto, intorno ad una goccia di brodo rimasta sopra la tavola; camminavano in su e in giù sopra i pezzi della carne, strisciandovisi sopra. La marmittona di rame seguitava a bollire; un gatto, sotto la tavola, rosicchiava. Una cannella d'ottone, mal chiusa, sgocciolava con un sibilo incessante. Le due zangole battevano, sopra una parete, i riflessi trasparenti della loro acqua; che, di quando in quando, erano attraversati dall'ombra di una mosca.
     Se giungeva un cliente, il cameriere pigliava il primo piatto della pila, poi chiamava il cuoco.
     «Non dormire più».
     Allora il sudore adunato sotto la camicia si raffreddava ad un tratto; e il cuoco si sdrusciava un orecchio indolenzito, perché gli era rimasto ripiegato tra il braccio e la testa.
     La trattoria riprendeva il suo movimento.
     Pietro passava quest'ore di vacanza, leggendo quasi senza avvedersi del tempo. Domenico, rientrando in punta di piedi, riesciva a sorprenderlo.
     «Perché non sei attento a quello che fanno le persone di servizio?».
     E il rimprovero ricominciava.
     Una volta gli gridò, proprio dentro a un orecchio:
     «Vieni a pesare la paglia».
     «Io?»
     «Tu».
     E lo alzò da sedere, prendendolo per il colletto. Ma poi, avendo fretta, si avviò dove erano i pagliaioli. Pietro non si mosse, restando con la testa contro uno spigolo del muro; e provando una grande repugnanza del pianto che lo invadeva.
     «Ecco un altro barroccio di paglia, padrone!».
     Disse l'uno dei due uomini che avevano scaricato quella portata prima.
     «È un pagliaio!».
     Urlò quegli che con la fune aiutava a trarre innanzi il barroccio.
     «Dieci quintali!».
     Aggiunse Palloccola che reggeva le stanghe.
     Il trattore sorrise delle loro esagerazioni. Andò al nuovo fastello di paglia, lo toccò e lo annusò. Poi, senza rispondere, guardò in faccia i due uomini.
     Nella piccola piazzola, dove rispondeva la porta della cucina, erano altri due uomini sudati per la fatica; perché avevano scaricato i loro fastelli di paglia, alzandoli fino all'imboccatura della capanna. Ora, essi si riposavano; stando a coccoloni con le spalle appoggiate al muro. Il sudore della fronte sgocciolava su la punta delle scarpe polverose; il cui cuoio era gonfio di piegature.
     «Quanto volete?».
     Disse il trattore, mettendosi i pollici nelle tasche del panciotto. Aveva il dorso d'una mano sgraffiato; e perciò, spesso, vi si succhiava il sangue.
     «Quanto ci ? Vogliamo mangiare anche noi».
     Rispose Ceccaccio. E Palloccola:
     «Questi contadinacci non ci regalano più niente. Facciamo per strapazzarci».
     Essi erano andati da un podere all'altro, capitando nelle ore della trebbiatura; in modo che ogni contadino, per levarseli di torno, aveva regalato una forcatella di paglia. I contadini non rifiutavano mai, temendo ch'essi per vendetta ne rubassero molta di più.
     Infatti, vivevano più di furti che di lavoro; e non avevano mai un mestiere fisso.
     Domenico faceva, sotto prezzo, grandi provviste di paglia, che poi bastava fino all'anno dopo per la stalla addetta alla trattoria.
     «Volete fare a peso o a occhio?».
     Domenico chiese, togliendosi le mani dal panciotto.
     «Come vuole. Siamo contenti in tutte le maniere».
     Pipi e Nosse, già contrattato, interruppero:
     «Intanto mandi via noi. Ci paghi».
     Erano due giovini. Pipi con una testa enorme, gonfia, con la fronte ampia. E gli occhi ceruli erano dolci, di una dolcezza infantile. Nosse aveva i baffi neri, e i piccoli occhi vivacissimi sembrava potessero mordere.
     «Prima aiuterete ad alzare anche questa paglia».
     «Se ci bevere!».
     Disse, ridendo, Pipi; che, poi, sputò nel muro.
     «Ho la gola piena di polvere!».
     Disse Nosse. E si alzò, appoggiandosi un'altra volta al muro.
     Domenico sorrise, promettendo.
     Passava già la cinquantina. Le mani gli erano doventate pallide: si vedevano le loro vene di un rosso violaceo; con le unghie lunghe e strette, accartocciate.
     Si faceva ancora più di rado la barba, di un biondo quasi bianco. Gli occhi gli lustravano come i gusci delle ostriche; ma le estremità delle palpebre erano gonfie, con due fili purpurei. I capelli gli erano divenuti radi, per quanto se li bagnasse con un'acqua di sua invenzione, fatta con le coccole di ginepro; i baffi, attaccati alle guance, si arruffavano intorno alla bocca; che aveva un senso di bontà.
     S'era fatto alquanto curvo, con le spalle ingrossate; ma se ne teneva d'esser forte come prima e di pesare più di un quintale. Gli pareva che i suoi polsi e il suo collo fossero quasi indomabili; qualche cosa che egli doveva conservare, per servirsene al bisogno.
     Domandò Ceccaccio:
     «Dunque a peso?».
     Disse il trattore:
     «Non sarà cento chili».
     Urlò Ceccaccio:
     «Che cosa dice? Un quintale e mezzo».
     Aggiunse Palloccola:
     «Siamo onesti noi!».
     E bestemmiò. Ma corsero a sciogliere le funi, per scendere la paglia dal barroccio. Domenico s'avanzò, la prese per la legatura e la sollevò; aiutandosi con i ginocchi.
     «Vi quattro lire. È anche troppo».
     «L'abbiamo rubata, è vero, Ceccaccio?».
     Tutti risero. Poi bestemmiarono e gridarono, confusamente.
     «Dunque, paghi noi; ce ne andremo».
     «O non volevate bere?».
     Domandò lo stalliere annoiato, dall'apertura della capanna.
     «No, no. Siamo stanchi. Non possiamo aiutare a tirarla su».
     «Guarda che muscoli!».
     Disse Pipi, prendendo un braccio di Domenico; la cui camicia era rimboccata fino ai gomiti.
     Esclamò Nosse:
     «Con quelle braccia!».
     Disse Ceccaccio:
     «Fate lesti, figlioli».
     Dalla porta mezza aperta si vedeva la strada. E passò una giovine. Ceccaccio la chiamò, con un fischio.
     Disse Pipi:
     «Bada se viene qua».
     «Che cosa si fa qui?» domandò il trattore. «Si chiacchiera soltanto
     «O che cosa vuoi fare?».
     E il compagno di Ceccaccio si sedé su la paglia, mettendosi le mani sopra i ginocchi.
     «Non avevate furia, dianzi
     «È vero. Ci paghi».
     «Eccovi sei lire. Levatevi di qui!».
     Pipi e Nosse escirono, con il loro barroccio.
     «Tocca a noi ora».
     «Dunque quanto ci vuole dare
     «Pesiamola».
     I due presero una stanga, e vi misero l'uncino della stadera; a cui attaccarono il laccio della fune.
     «Pesi bene, padrone!».
     «E tu non appoggiarti con le ginocchia».
     «Io? Guardi: c'è un braccio di distanza».
     Ed avendo su la spalla la stanga, Palloccola alzò sopra il capo le mani; mentre il corpo gli tremava per lo sforzo.
     La paglia era un quintale. Fecero il conto; e la legarono, per trarla su con la carrucola.
     «Lavora anche lei, padrone
     «Più di te, perché le mie braccia sono più forti».
     E tutti si afferrarono alla fune, che pendeva dalla carrucola alta. Domenico l'avvolse ad uno dei polsi. Come il fastello cominciò a salire, il legno della carrucola scricchiolò; mentre la polvere con le festuche ricadevano su gli uomini. Lo stalliere stava con la mano tesa, sporgendosi dall'apertura. Gli alzatori si piegavano con un solo respiro; e il fastello penzolava su le loro teste; poi, afferrato dallo stalliere, imboccò nella finestra e disparve nell'ombra.
     «È fatta!».
     Disse Ceccaccio, spolverandosi intorno al collo, dove le festuche restavano attaccate. Ma le braccia gli dolevano, come se fossero state strappate.
     Il trattore, venutogli sospetto, andò verso un mucchio di mattoni rotti e di ferracci. Disse:
     «Qui manca una serratura vecchia. Chi l'ha presa?».
     I due pagliaioli si guardarono, e continuarono ad avvolgere le loro funi.
     «Giovinotti, chi ha preso una serratura?».
     Ridomandò Domenico, doventando bianco.
     «Io no di certo».
     Rispose Ceccaccio con calma.
     «Non dico a te. Dico che è stata portata via».
     «Che ne facciamo noi?».
     Chiese Palloccola con odio e risentimento.
     «L'avrà presa Pipi! Lui ci mercanta!
     Disse, ridendo, Ceccaccio.
     «Io non lo so. Ma, se lo sapessi, me la farei rendere. Non sono cose da lodare».
     I due uomini divennero inquieti, perché a vicenda l'uno temeva che l'altro fosse stato il ladro. Ma Palloccola gridò:
     «Ci fruchi
     «Io non fruco nessuno! Eccovi il denaro. Ma non ricomprerò mai più la paglia da voi!»
     «Noi non ne sappiamo niente!».
     Domenico si convinse ch'era impossibile trovare il colpevole; e li credette tutti e quattro d'accordo. E, fatto un gesto per invitarli ad andarsene, rientrò nella trattoria. Disse a Pietro, riprendendolo per il colletto:
     «Se tu stessi attento, com'io ti comando, non ti porterebbero via la roba».
     Pietro alzò le spalle, pensando: hanno rubato perché sono poveri. E si allontanò con quello stato d'ansia, che lo invadeva tutte le volte che suo padre era per percuoterlo. Infatti, Domenico fece per slanciarsi; ma Rosaura lo trattenne.
     La serratura era stata presa il giorno innanzi da un accattone forestiero.
     La sera questi uomini, storditi dalla fatica, sfamatisi a qualche convento, si addormentavano briachi in una bettola, e Pipi con la moglie.


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