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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Pietro era riuscito a
iscriversi all'istituto tecnico di Firenze, dopo aver fatto privatamente, quasi
da sé, il primo corso a Siena. Ma fu la completa sparizione d'ogni legame tra
padre e figliolo. Sempre di più si trattarono come due estranei costretti a
vivere insieme; e Domenico aveva smesso addirittura di voler su di lui
qualunque autorità; credendo che, comportandosi a quel modo, gli facesse
rimorso. Ma, ormai, non l'avrebbe perdonato mai più. Durante magari un mese,
Domenico era stato capace di prendere tutto in scherzo; e ambedue si dicevano
facezie, che qualche volta doventavano litigi.
Pietro era sempre socialista, ma andava meno con
gli operai. Si vergognava d'aver già vent'anni, e d'essere così a dietro degli
studii: questa cosa l'avviliva.
Presa a Firenze una camera in Via Cimabue,
mangiava a una trattoria, lì vicina.
Stava lunghe ore con la testa tra le mani,
imaginandosi di studiare; con un ansia attraversata e tagliata in tutti i sensi
da malumore e da malinconia, come da linee tirate con una squadra.
Si sforzava d'essere soddisfatto e di
affezionarsi alla scuola; ma gli pareva che i giorni fossero così staccati e
separati l'uno dall'altro che sentiva prendersi dallo scoraggiamento. Il giorno
dopo non era capace più a ricordarsi e a raccapezzarsi del giorno avanti; e
provava difficoltà a pensare ai giorni successivi.
E non riuscendo quanto avrebbe voluto, né meno
ora che ci metteva tutto il suo impegno, studiava sempre meno!
Sotto la sua finestra di camera c'era la cinta di
un convento di suore; nel cui giardino, quasi subito dopo mezzogiorno, andavano
a cantare e a ruzzare un centinaio di bambine. Quanta tristezza quel baccano! E
poi egli odiava le suore!
Quando le bambine arrivavano all'angolo più
vicino, sorrideva amaramente, sperando che lo avrebbero scorto. Ma non se ne
accorgevano né meno; e, allora, s'infastidiva anche di loro.
Della città, invece, non sentiva né meno il
rumore; perché la cinta, perpendicolare al muro della casa, era lunga e andava
a finire a un fabbricato così grande che gli tappava quasi tutta la Piazza
Beccaria; e, di qua e di là, altre case, quantunque più basse, quasi in
semicerchio, chiudevano ogni cosa.
Si trovava sempre a disagio: ed era come una cosa
che non riesciva a spiegarsi. Non si affidava agli amici, e ne sentiva la
mancanza. Si annoiava di tutto; e la cupola di Santa Maria del Fiore, velata
quasi sempre di nebbia in fondo a Via dei Servi, che egli vedeva prima di
rientrare a scuola, quando andava a prendere cinque minuti di sole in Piazza
dell'Annunziata, gli dava uno scoraggiamento languido, che ingrandiva se qualche
campana suonava.
E tra tutti i rumori, verso il tramonto, flebili
e lontani, gli veniva voglia di fuggire; come se l'aria ascoltasse; quell'aria
trasparente, della quale aveva quasi timidezza e paura.
Quando andava a cenare, cominciava a farsi buio;
e, sotto gli alberi della Piazza Beccaria, le baracche di un circo equestre
abbagliavano con i loro lumi ad acetilene, mentre un carosello non smetteva più
di girare con la musica del suo organo.
Egli vedeva la Via Ghibellina e la Via
dell'Agnolo così strette che le loro case si chiudono insieme; mentre le altre,
dalla parte della Barriera Aretina, terminano dritte dinanzi agli alberi e alla
campagna.
Entrando in casa, trovava la padrona a cucire
insieme con altre donne; alle quali non parlava mai.
Ma, intanto, cominciarono ad affittirsi i giorni,
in cui sentiva stanchezza della scuola; una stanchezza che gli faceva lo stesso
effetto di una colpa inspiegabile.
Pensava anche che non tutti avevano i mezzi per
studiare!
Tra i compagni, si sentiva un giovine che aveva
già troppo vissuto più di loro. Ecco perché, con simpatia e volentieri, li
chiamava ragazzi. Il loro modo di comportarsi verso gli insegnanti gli dava un
senso di compatimento. Ma non riesciva a ridere di quel che li divertiva; e,
molte volte, se ne mostrava seccato e li rimproverava.
Stava bene sul letto, con gli occhi chiusi.
Si avvide di aver tentato invano di affezionarsi
ai compagni: le indifferenze con alcuni si mutarono in ostilità e inimicizie;
per gli altri provava avversione, specie per quelli più ricchi, che lo
stimavano da poco perché era socialista. I più lo credevano pazzo; ma gli
volevano quasi tutti bene.
Finalmente, convinto che doveva cedere alla sua
stanchezza, non andò più a scuola; e ai compagni, che ne ridevano, disse che
suo padre non aveva più denaro per tenerlo a Firenze.
Gli ultimi giorni si era sentito, con angoscia,
ma anche con piacere, sempre più differente a tutti; e non seppe spiegarsi come
gli altri studiassero senza essere costretti a fare come lui. Ed ebbe più
fretta d'allontanarsene.
Dopo quattro mesi soli di scuola, invece di
pagare alla padrona di casa la nuova mesata anticipata con il denaro ricevuto
dal padre, tornò a Siena senza né meno avvertirlo.
Fu ricevuto come se avesse messo giudizio,
sebbene un poco tardi. Ed egli non osava dire che voleva studiare da sé per
fare gli esami lo stesso. Ma saputo, per caso, da una lettera ricevuta da
Rebecca, che Ghìsola era a Firenze da molto tempo e non più a Radda, prese
senz'altro la decisione.
Domenico, che invece aveva subito sperato troppo,
avendo apprezzato il suo ritorno spontaneo a Siena, spiegandolo come un
ravvedimento mandato da Dio, cercava d'avere piuttosto buone maniere; e gli
chiedeva:
«Perché preferisci stare lontano da me, che sono
tuo padre? Dio ti deve toccare il cuore. Non te ne accorgi?».
Ma, visto che né meno ora poteva farsi obbedire,
lo lasciò di più; sicuro che il tempo l'avrebbe aiutato.
E Pietro, per scrupolo di coscienza e per
sentirsi in diritto di fare il contrario di quello che il padre voleva, si
dette a studiare con una soddisfazione prima a lui ignota.
Al seminario si erano sovrapposti i tre anni
della scuola tecnica, cambiando tutto: si sentiva proprio un altro, e sul punto
di cambiare ancora.
Il suo socialismo doventava, come diceva lui, e
com'era di moda, intellettuale. Egli non aveva più la fede con la quale una volta
voleva convertire gli altri; ma adoprava la moralità socialista per i suoi
sentimenti.
Ora quei tre anni gli parevano rapidi come un
giorno solo, perdevano ogni consistenza, anche mentale; come se appena gli
avessero dato tempo di respirare.
Gli esami, anche contro la volontà che voleva
avere, doventavano sempre più un pretesto; e non gli pareva né lecito né leale.
Ma la sua impazienza di rivedere Ghìsola aumentava perché metteva in Ghìsola
tutta la fiducia della sua vita.
Stava a giornate intere, solo, in casa;
guardando, con la faccia su i vetri, il sottile rettangolo di azzurro tra i
tetti. Quell'azzurro sciocco, così lontano, gli metteva quasi collera; ma non
ne distaccava gli occhi. Le rondini, che di lì parevano nere, passavano come
attraventate. Soltanto là su, all'ultime finestre, qualcuno affacciato che non
conosceva né meno! E allora sentiva il vuoto di quella solitudine rinchiusa in
uno dei più antichi palazzi di Siena, tutto disabitato, con la torre mozza
sopra il teatro Arco dei Rossi; in mezzo alle case oscure e deserte, l'una
stretta all'altra; con stemmi scolpiti che nessuno conosce più, di famiglie
scomparse; case a muri con due metri di spessore, a voltoni, le stanze quasi
senz'aria. I ragnateli larghi come stracci e la polvere su le finestre sempre
chiuse e i davanzali sporgenti dalle facciate.
Talvolta, all'improvviso, pensava a Firenze e a
Ghìsola che forse, aspettandolo, gli avrebbe fatto un rimprovero che lo
esaltava; all'Arno scrosciante; a tutte le colline sempre belle; a quelle
nebbie che lasciano i muri bagnati, annerendo le pietre delle strade che
sembrano rappezzature.
Il padre, parlando, gli produceva una malinconia
invidiosa: e si allontanava per non udirlo, per non vederlo; con un brivido.
Perché nessuna parola era proprio per lui? Perché lo trattavano come se lo
tollerassero, anche ora? Perché tentare invano di essere come gli altri? Come
erano fatti gli altri?
Ripensava ai compagni di Firenze, ad uno per
volta. E perché loro, forse, non lo ricordavano né meno?
Da quanto tempo era morta la mamma? Gli parevano
cento anni. E tutte le cose s'erano svolte senza bisogno di lui; a sua
insaputa.
I suoi occhi, che avevano una mansuetudine
mistica, contrastavano con le linee magre e sfuggenti del volto; sì che subito
se ne notava la differenza.
Aveva quelle indefinitezze profonde e persistenti,
senza nome e senza mèta; che lasciano una traccia anche quando sono passate,
come si vede se è passata l'acqua su la rena.
Credutosi inferiore ai suoi amici di Siena, ora
conosceva lo sbaglio acre; che poteva aver conseguenze anche nell'avvenire
simile ad un'espiazione arida.
Ma perché aveva sperato di poter doventare un
pittore? Che significava quel tentativo inutile, dinanzi al suo amor proprio?
Poteva non tenerne conto, per credere ancora a se stesso?
Si confortava, sognando un'esistenza nuova e
insolita. Ma quando? Talvolta, essa si riperdeva; ed egli non riesciva né meno
a capire come l'avesse sognata.
Per quanto di una sincerità fanatica, nessuno avrebbe
potuto rendersene conto. Sentiva di non essere più come una volta per quelli
ch'erano stati suoi amici prima che fosse andato a Firenze. Avrebbe voluto
farsi perdonare di non avere più amicizia per loro; ma si vergognava e si
pentiva di essere stato troppo sincero ed espansivo tanto facilmente. Rivedeva
quelle sue sottomissioni morali, di cui gli altri s'erano approfittati. A Siena
aveva voluto essere amico anche dei più cretini e dei più farabutti, credendoli
degni di se stesso; come un dovere, fino a stimarsi cattivo ad andare a spasso
solo, senza qualcuno di loro. Ma, tornato da Firenze, era riuscito a non
parlare più a nessuno, con una smania amara di non vederli più!
Egli era il giovine che, sebbene debole, porta
impeti di energie; anche se sbaglia.
Molte volte, in sogno, provava come avrebbero
dovuto svolgersi i suoi sentimenti; svegliandosi quasi soddisfatto, come se
un'esistenza superiore e indefinibile gli avesse dato ragione.
E con quale gioia stravolta aspettava il giorno
dell'incontro con quella, che già metteva sottosopra tutto il suo essere!
Non sapeva le parole che le avrebbe detto,
quantunque se le imaginasse luminose di bontà; accorgendosi talvolta di aver
pensato parole senza significato, che gli portavano via la bocca e l'anima!
Parole avventate che non si ritolgono più, come coltelli infilati troppo forte,
con rabbia. Parole che vuotano l'essere con piacere frenetico: alle quali
succedono paure folli, giorni temporaleschi, pioggie calde e asciutte più della
stessa aridità che dovrebbero bagnare.
Talvolta, aveva voglia di farsi uccidere; forse
da Ghìsola, che già sentiva sua; tornata come una tentazione deliziosa dal
tempo scorso.