Federigo Tozzi
Con gli occhi chiusi

[XLII]

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[
XLII]

     A settembre egli tornò a Firenze con il pretesto degli esami di riparazione; quantunque si dolesse di perdere il tempo inevitabilmente, trovando giusto, come un castigo, di star lontano dai suoi libri, dai suoi compagni che non lo salutavano né meno più. Gli faceva l'effetto di nascondersi, e di compromettersi verso tutti. Ma quella volontà d'inabissarsi, che nasceva da un'angoscia, gli faceva gonfiare il cuore: il cuore gli batteva in un altro modo!
     Dalla sua casa di Via Cimabue, non esciva ormai che per mangiare. Ma non gli era possibile altrimenti, sebbene gliene rincrescesse e fosse tentato di vincersi.
     Ghìsola, già a Firenze prima di lui, stava in una di quelle case che si chiamano private; dove guadagnava molto bene. E, informata da una lettera di Pietro, respinta da Radda, andò subito da lui: anche per allontanare qualunque sospetto.
     Quando la padrona, che l'aveva fatta passare, si mosse per chiamarlo, ella fece cenno di no; e, camminando senza farsi udire, batté con la punta delle dita alla porta della camera. Egli, indovinando ch'era lei, balzò in piedi ed aprì.
     Ghìsola finse di non voler entrare. Egli la portò dentro; e la baciò, tremando tutto. Ella disse, sorridendo e schermendosi:
     «Non voglio più!».
     Poi si sedé; dopo essersi tolto il cappello, che mise su le ginocchia. Ma egli ebbe un tuffo caldo al cuore, e sentì arrossarsi la faccia perché non poté fare a meno di chiederle:
     «Perché eri già venuta via da Radda senza avermelo scritto?».
     Ed ella, con il suo bel viso che talvolta pigliava una purezza assoluta, rispose senza badare a quel che diceva:
     «Sono arrivata ora. Ha voluto, per forza, che tornassi la mia padrona di Badia a Ripoli. E a Radda non ho potuto a nessuno dettare la lettera per te, perché non volevo far sapere che ci vediamo. Non ho agito bene
     «Tanto. Ti riprende lei, dunque?»
     «Sì».
     «Allora sono contento. Ma non puoi almeno per oggi restare con me?»
     «Ho già pensato a chiederle il permesso».
     Egli, credendole, l'abbracciò in un impeto di riconoscenza.
     Escirono subito insieme; e andarono a spasso per Firenze. Mangiarono; e, poi, si trattennero a parlarsi in uno di quei sedili del giardinetto di Piazza Marco, dove vendono i brigidini e i semi di zucca ai soldati e agli oziosi.
     La sera ella gli disse, ridendo:
     «Devo andarmene, perché, se faccio troppo tardi, un'altra volta non mi lascerebbero libera».
     E si lasciarono: egli non pensò né meno di curarsi dove andava.
     L'attese tre giorni sempre chiuso in casa; imaginandosi di confidarle tutto degli esami; e non sapeva se a Ghìsola gliene importasse o no. E questo proposito gli dava un godimento quasi voluttuoso.
     Gli erano insopportabili i rumori, anche lievi; trovando rimedio nel lasciarsi assopire sul letto. E allora gli pareva che le tempie battessero con meno fatica; e che il cuore gli si gonfiasse senza ch'egli ne sentisse la gonfiezza. Ma le sue mani fredde gli facevano un senso di pena e di paura; ricordandogli la sua vita a Siena.
     Se non avesse temuto di far dispiacere a Ghìsola, l'avrebbe pregata, con tutta la dolcezza che ne provava, ad uccidersi con lui.
     Ma quando Ghìsola tornò a trovarlo, tutto cambiò. L'avrebbe trattato da pazzo, ridendogli in faccia, con quel suo riso di cui egli aveva spavento, benché la facesse più bella!
     Stettero insieme un altro giorno intero, come l'altra volta; e, poi, non si videro più.


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