Federigo Tozzi
Con gli occhi chiusi

[XLIV]

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XLIV]

     Domenico non manifestò subito l'impazienza che aveva di veder Pietro occuparsi degli affari. Ma come le conversazioni doventavano di quell'affabilità affettata, che cela in sé gli scoppi della collera, così anche evitarono di parlarsi. Tutti tenevano dalla parte del Rosi, e si aspettavano una leticata. Pietro lo capì, fingendo di non accorgersi di quello che pensasse suo padre quando lo guardava quasi di sfuggita.
     Domenico talvolta si stimava un uomo semplice e rozzo dinanzi a un raffinato ed un cattivo. E allora temeva d'averne la peggio.
     Che cosa erano valsi i lunghi sforzi, di cui aveva riempito tutta la vita? Morendo, non avrebbe consegnato al figliolo ciò che aveva potuto strappare con il lavoro e l'astuzia? E proprio il figliolo non l'apprezzava? Proprio il figliolo voleva mandare in rovina il patrimonio?
     Allora si accorse dell'errore che aveva fatto, accordandogli troppo anche a riguardo di Ghìsola. Egli stesso l'aveva accolta in casa! Ed ora, la disonesta, glielo metteva contro, insegnandogli ad odiarlo!
     Gli parve un tradimento cercato: il seminario, l'accademia di belle arti, la scuola tecnica, l'istituto tecnico, i maestri privati, tutto.
     Questi pensieri li aveva avuti tante volte, che stimava essere il momento di non lasciarsi sopraffare.
     Seduto su la sedia che gli serviva da più di venti anni, lo seguiva con lo sguardo, tenendo le mani in tasca dei calzoni e appoggiando al muro il capo già calvo. Ma non diceva niente, procurando di distrarsi con i servi e con qualche cliente che andava a salutarlo.
     Pietro pensava a tutte le cose famigliari che avrebbe voluto possedere per sé e per Ghìsola.
     Pensava al lume così quieto e sempre eguale, con la campana di latta. Pensava alla poltrona della mamma, sotto il cui guanciale era una specie di cassetto di legno, dov'ella aveva tenuto i gomitoli delle lane e i suoi due soli libri, due romanzi a dispense illustrate. Pensava ai quattro guanciali a cui ella s'appoggiava; i quali si erano deformati ciascuno in modo riconoscibile. Pensava all'odore dell'acqua di Colonia, alle boccette antisteriche, ad una crocettina d'oro consunto.
     Prima d'addormentarsi nel suo letto duro, ricordava tutte le cose più note; alle quali portava un' intensa per quanto incosciente. Gli pareva di dover dare un'altra impronta e un altro significato a tali cose. Ghìsola sarebbe stata la rinnovatrice. Ed egli provava la stessa dolcezza che aveva provato stando insieme con lei.
     Spenta la candela, si voltava dalla parte del muro e dormiva.
     Domenico, verso la mezzanotte, attraversava la camera, con in mano la lucerna d'ottone. E allora Pietro si destava e gli veniva voglia d'alzare il capo. Ma l'altra porta si richiudeva; ed egli rimaneva con quello scontento di quando è interrotta una disposizione d'animo.
     La mattina, Domenico esciva prestissimo senza dir niente a lui, che si provava a dare un'altra intonazione a quei sogni che si hanno durante il dormiveglia quando pare che siamo in grado di smettere o di continuare il sonno.
     Si sedeva al suo tavolino, senza far niente, con i ginocchi appuntati sotto il cassetto. Gli pareva impossibile che tutte le cose si disinteressassero di lui; mentre la sua memoria sensuale gli produceva una sovreccitazione inebriante.
     Si commoveva, dunque, d'esser destinato soltanto a soffrire: "Perché io non posso vedere Ghìsola? Nessuno è costretto come me a rinunciare a tutto. E nessuno se ne immischia. Non so spiegarmi come agli altri sia possibile avere qualche occupazione ch'io non avrò mai: il vetturino frusta il cavallo per far più presto; gli spazzini annaffiano".
     Ma evitava d'entrare nella bottega, fino all'ora del pranzo. E doveva aspettare il momento opportuno, perché anche il cuoco non gli rispondesse male; accontentandosi di quello che gli davano, e prendendo da se stesso il pane e le posate nella dispensa.
     Egli che aveva amato idealmente gli altri, provava ora uno struggimento amaro. Ma c'era caso che suo padre gli dicesse:
     «Non stare nel mezzo, mentre passano i camerieri. Tu non lavori!».
     Poi esciva di bottega, perché non volesse obbligarlo a lavorare. "È possibile ch'io sia costretto a correre dal pizzicagnolo, a comprare il formaggio? Oppure a prendere una sporta e farla riempire di pane? Oppure discutere con qualcuno che vuole scemare il conto? Ghìsola, del resto, non acconsentirebbe più a sposarmi".
     Un giorno, ricevette una lettera. La calligrafia della busta gli dette subito il senso di un avvenimento inevitabile. Non voleva aprirla. E lesse: «Ghìsola lo tradisce. Se vuole averne la prova, vada in via della Pergola...».
     Vi era il numero della casa, e un nome di donna; forse, falso.
     Gli parve che queste parole risolvessero una cosa inspiegabile. Egli pensò: "Vi deve essere un vero motivo".
     E tutte le avversità dolorose gli comparvero l'una dopo l'altra, provando meraviglia della compassione che una persona ignota aveva avuto di lui.
     Poi rifletté al modo di trovarsi i denari per andare a sorprendere Ghìsola. Rebecca non glieli voleva prestare, rimproverandolo che non le avesse restituiti né meno gli altri. Ma Pietro insisté:
     «Come vuoi che possa chiederli a mio padre
     «Se li faccia dare da qualche suo amico».
     Intanto si mosse verso il canterano, determinata di prestarglieli perché appurasse l'innocenza della nipote. Ma innanzi prese una pezza pulita per il suo bambino, che teneva in collo. La distese sopra il letto, buttò quella sporca sotto l'armadio; e pareva che il bambino, piangendo, le facesse dimenticare il denaro.
     Tenne ancora il capo giù, come per riflettere: se fosse valso, sarebbe andata invece di lui da Domenico; ma per quello scopo non c'era da immischiarsene! Gli disse:
     «Non può fare a meno d'andare subito domattina?».
     Egli rispose:
     «È possibile dopo che ho ricevuto questa lettera?».
     Ella comprese e sospirò. Egli, aspettato un poco, disse:
     «Dammeli».
     «Quanti gliene occorrono
     «Più dell'altra volta».
     «Dio mio, come faccio a trovarli! Perché non pensa a metterli da parte un pochi per settimana?».
     Egli si rammaricò di non averci mai pensato; e gli parve inspiegabile.
     «Farò così da qui innanzi. Questa volta... dammeli tu».
     Se avesse dovuto attendere ancora, non avrebbe avuto l'animo d'insistere; ma Rebecca, credendo alla sua promessa, cedette.
     Pietro contò da sé i denari; mentre ella, appoggiandosi al cassetto aperto, lo guardava in viso. Le sorrise e la ringraziò.
     Rebecca, accompagnandolo in cima alle scale, gli raccomandò ancora:
     «Pensi che me li deve restituire».
     Era vero che Ghìsola si faceva spedire le lettere a Badia a Ripoli; ma non poteva darsi che avesse cambiato dimora soltanto da pochi giorni? Di che cosa poteva trattarsi?
     Si sforzò di definire tutte le specie di dubbii; ma poiché non ne teneva nessun conto, gli fu impossibile rispondersi. Per la prima volta, tutto il cumulo delle cose tristi gli parve lontano da sé e che gli fosse possibile distruggerlo. Tutte le sofferenze gli parvero esteriori, provando una piccola felicità che non somigliava a nessun'altra. Pensò: "Perché ho creduto subito alla lettera?".
     Durante il viaggio, gli sembrò d'essere in uno stato d'incoscienza e con la febbre. Ma aveva fretta di giungere.
     Il treno correva vicino all'Arno, la cui acqua luccicava come se migliaia di specchi vi si rompessero insieme; oltrepassava le pinete a picco, acuminate, ancora sparse d'ombre violacee, tra i pioppi bianchi e tremuli, dietro i pali telegrafici, i cipressi a fasci, cipressi come rinchiusi dagli altri cipressi. Andava verso la città sovra la quale si raccoglieva una dolcezza d'azzurro, tra le colline l'una più soave dell'altra. Quella bellezza meravigliosa l'umiliava. Mentre l'amore, che fino allora aveva portato a Ghìsola, gli pareva un'indegnità abominevole senza saper perché: "E possibile che io non la debba amare?"


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