Federigo Tozzi
Novale

Parte prima

3 febbraio 1903.

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3 febbraio 1903.

«La politique, hélas! Voilà notre misère.

Mes meilleurs ennemis me conseillent d’en faire...» e facendone non posso fare a meno di essere violento fino alla cattiveria. Ma Ella, spirito infinitamente buono, ha perdonato tutto quello che la bocca dell’esaltazione mi diceva di scrivere, ed io ne sono rimasto colpito fino all’umiliazione.

 A che la politica? Torniamo ai nostri sogni che sono belli, perché noi soli li conosciamo, ed apriamo con una gioia avara il nostro cuore pieno di essi. Rodolfo sente che la sua Annalena non può occuparsi di una idea politica senza guardarla con gli occhi mansueti e ingenui d’una donna che ama troppo le cose belle nella modesta considerazione di se stessa e del suo piccolo mondo, e Rodolfo non farà più della politica con la sua Annalena. È contenta così?

Stasera se non avessi uno strano malessere che serpeggia nelle mie vene come uno spirito maligno per le vie della sua dannazione, avrei l’anima aperta alle più dolci emozioni e ne direi con quella gioia pura di vaghe dubbiezze, che è la linfa deliziosa dei cuori giovani. Ma non potrò mai sentirmi tanto sano? Chi sono io? Perché quel tormento indefinito che proviene dalla presenza di tutte le cose? Tutto mi è cagione di rimpianto. Mi pare che la mia vita vada sperdendosi come un rigagnolo nelle fogne melmose del comune destino, e ne provo un malessere interiore paragonabile a quello d’un malato che vede le sue carni sfarsi lentamente senza rimedio. Io compiango me stesso, mi addoloro dei miei stessi dolori, che forse non ho, ma che sono orribili.

Ah! oggi ho pensato di ubriacarmi. Perché no? Ho imaginato la mia ebrezza, l'ebrezza di un uomo che beve per non soffrire. Soffrire? ma soffro io realmente? Sono i miei nervi malati che opprimono la mia esistenza?

Non esistere! E di quello che ho veduto e udito che ne sarà? Che è questa mano che ubbidisce al mio pensiero e traccia su la carta dei segni che mi hanno fatto imparare?

Rispondi, rispondi tu, che mi tormenti, o triste dubbio!

Ma il dubbio esiste di per se stesso o sono io che lo fabbrico e vi abito dentro? Forse.

Ah, poveri i miei vent’anni che molti invidiano, che siete voi per me? Per me, per... Non so, non so come definire il mio io. Che sono io? Il mio pensiero che è, e da che proviene? Potrà morire come muore la carne? O pure si riconfonderà nella forza infinita di tutte le cose dell’universo, sotto la forma di un altro fenomeno che poi, alla sua volta, si trasformerà in un altro e poi in un altro per non morire mai e sentire sempre? E la mia consapevolezza che ho di quel pensiero dove finirà? Si è essa prodotta nel volgere degli anni crescendo con la carne o pure è un elemento dissociato da tutti gli altri ma che nella vita si combina con altre energie, con altre forze, per dare l’esistenza agli esseri animati?

C’è una coscienza comune a tutti gli animali? Oh, com’è triste la chimica di chi si dedica alla meditazione dell’esistenza!

Mimì! non so perché io ti penso in questo momento e perché i miei occhi abbiano delle lagrime. Oh, come è grande e smisurato il sentimento dell’amore! Somiglia alla sua fragilità.

Ma tu, Mimì, capisci?

Già, che t’importa di tutto questo? Tu mi baci, e nei baci effondi tutta la tua anima; sei troppo semplice.

Io, vedi, mentre scrivo e penso a te e a tante cose di cui tu non ti curi, ho avuto paura di un rumore che il vento ha fatto attraverso il mio uscio... Tu avresti riso. A me, invece, è parso il ghigno d’un essere maligno e sconosciuto che mi perseguita. Guai, guai se il vento spegnesse la mia candela! Morrei di spavento. Più tardi, uscendo avrò paura.

Ora mi soffermo, il mio cuore è agitato, il mio respiro è breve: ho avuto paura lo stesso.

Ed è sempre così.

Oggi non sono uscito. Chi mi avesse visto mi avrebbe preso per uno di quei fantocci che non hanno il cerebro per pensare. Sono stato con gli occhi stranamente fissi al soffitto perseguendovi qualche cosa, ed aspettandovi una figura che non vi è apparsa. Poi mi sono guardato nello specchio. Le mie pupille erano enormemente dilatate e cupamente turchinicce. Chi sa! Ho pensato a certi cipressi che ho intraveduti in una poesia del Carducci, ho ripensato ad un cielo d’arancio, a un cielo che mi pare d’aver visto, poi a tante croci nere gigantesche, a una donna del d’Annunzio, che s’è fusa in una statua bianca, che è divenuta il corpo nudo della mia adorata Mimì, poi ho sentito il rumore di un sospiro. Mi sono alzato dalla sedia dov’ero seduto da sì gran tempo, sono uscito di camera guardandomi indietro come fossi inseguito.

Ed ora ho come una vertigine. Mi sembra d’esser travolto per il baratro d’un precipizio, insieme con della neve che mi ha tutto avvolto e precipitato; precipito senza toccare mai il fondo.

La neve? Se ne avessi, ne mangerei.

Certo io sono un anormale e la mia anima è come un turbine che passa devastando e uccidendo: ella devasta e uccide la mia giovinezza.

Ora io penso a una novella che volevo scrivere, a una novella strana, pazza.

Mi alzo e vado in cerca di amici.

Il mio nome è F...

Mi dica il suo.


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