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Non faresti cosa ridicola se tu scrivessi in un foglio ogni pensiero di me che t’avviene. Potresti farne due gruppi: l’uno di quelli riguardanti la nostra vita, l’altro di ciò che dubiti di me. Ho notato molte volte una diffidenza mal celata contro me. Tu hai messo sopra me molto delle chiacchiere, e mi hai giudicato come gli altri (alcuna volta, s’intende). Domanda tutto, ogni minuzia oscura, e se tu non domanderai, dirò io spontaneamente. E ciò per chiudere definitivamente ogni cosa brutta. Vorrei che tu comprendessi tutto il rimorso che ho di non averti adorata come ora. E questo intensifica di più la mia adorazione. Ma sul passato ho posto i piedi. È vero però ch’io t’amo anche per il passato. Tutti i miei ricordi sono come una brace che tiemmi calda l’anima. Forse, ti amavo fin dalla prima lettera. Sentivo da te una luce sopra tutta la volgarità. È vero così. Il primo che adulò le mie speranze, predisse che io avrei scritto dopo averti sposata.
Come io volli perdere te, non sono stato più buono di scrivere una parola. A Firenze (e fui maligno di non dirtene alcuna cosa) scrissi una prosa esaltante la tua anima. Ma non volevo manifestarti il mio affetto perché ti chiudevo con tutto l’altro del mio passato, del quale ora sono vincitore.
Dalla signora R. sentii il desiderio di cadere come fulminato; non so che voglia ebbi di divenire niente: ti adorai come penso che alcuni adorino gli dèi. Divenisti una cosa della mia anima, inseparabilmente.
Ma la mia pazzia e la mia malvagità, forse necessarie per uscire dal pelago (e allora credevo che fosse necessaria) m’impedì di manifestare il mio amore. Sentivo mordermi tutte le membra dal dolore, ma dovevo essere impassibile. E alcuna volta ne piangevo. Sentivami legato dalla pietra della mia sciocca pazzia, invasato dall’idea fissa di essere una potenza, e non ti dovevo scrivere.
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Ma di quando in quando il tuo ricordo sfondava la mia anima, ed io mi dolevo anche fisicamente. Pensavo il mio dolore anche dentro le ossa. E credevo di aver perduto per sempre l’intelligenza. Credevo di aver sulle labbra il riso degli idioti, e che tu mi disprezzassi. E ti davo ragione. Ti domandavo tante cose che non ricordavo più la sera, stando un’ora fermo a guardare lontano.
Oh, s’io potessi ridirti bene ogni cosa!
Pensavo di essere pazzo e che tu mi tenessi come un bambino, poi mi facevi cadere, ed io piangevo. Ciò è un momento di quello che ho sofferto!
La signora R. mi parlò di te, ed io decisi ciò che prima parevami come un buco alla luce fatto in una grotta. Tornai quasi in me, e non mi vergognai di chiederti il denaro per venire a Roma. Sentivo di fare una cosa dignitosa. Già vedevo il tuo volto e i tuoi atti. Pensavo che avremmo pianto insieme.
Tu vedi ora quanto la mia anima ha camminato, senza che tu la vedessi.
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Così si gonfia l’anima di sogni, come di succo. Penso agli alberi che colano di linfa. Quando la solidità del mio passato sarà divenuta polvere e non sarà più come una corteccia sopra la mia anima, lavorerò. Ma senza il tuo amore non farei niente, però che esso è la sola acqua che bagna la mia anima.