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(A8) Io passavo le serate d’inverno sul focolare dei contadini del podere. Non v’erano molte legna, ma mi potevo scaldare. Stavo fino alle undici in campagna e poi venivo a dormire in città, piacendomi di camminare così solo di notte. Io non so se pensassi.
Per due mesi furono in villeggio un professore di violoncello e la moglie; e mi sarebbe piaciuto di udire di suonare. Ma una sera mi accontentò. Non erano intelligenti. Mi negavano l’ambizione e dicevano che non avrei mai fatto nulla. E che fra quattro o cinque anni mi avrebbero ritrovato lì al podere con gli stessi desiderii. Io odiavo in tal modo tutti, piacendomi di stare in tale stato d’animo. Una volta d’estate mi sentii meglio dopo esser stato circa un’ora sdraiato su l’aia in pieno sole, tra gli stocchi imputriditi del granoturco. Stavo bocconi posando il capo sopra le mani, e dinanzi avevo un mucchio di alberi tagliati. Guardavo le foglioline che avevano ributtato, mentre i tronchi, dentro, erano quasi secchi e scortecciati in molti luoghi. Mi ricordo bene di tal giorno. Un contadino scaricava le pietre, e lì sull’aia passeggiava una di quelle donne che aveva in casa mio padre. I contadini non mi dicevano niente. Pochi momenti innanzi avevo accarezzato un piccolo gatto a cui volevo portare un certo affetto, ma credo che non mi fosse possibile. Questo gattino mi saliva su per i calzoni, le mani, e mi stava sul collo anche se io camminavo per i campi. Una volta lo posi dentro la giubba e lo portai a casa. Non mi riuscì a farlo mangiare, perché era impaurito. La mattina lo ripresi e lo riportai in campagna. Passai per i campi ancora umidi di pioggia, e feci alle scarpe zoccoli di fango. Il gattino mi sfuggì dalle mani e corse per un altro campo. Dovetti correre anche io tra le erbe fradicie, passare tra i filari, e lo ripresi. Poi tornai lesto a Siena, perché volevo che nessuno s’accorgesse che l’avevo preso.
Passavo il più del tempo con il capo appoggiato al mio tavolino. Non so che pensassi e se fossi in grado. Studiavo molto, ma con un atto di volontà esterna, senza che sentissi niente. Era un impulso che m’ero proposto.
Passavo anche una settimana senza parlare. Le poche parole erano scambiate, per necessità, con la matrigna quando veniva a rifare il letto: «È possibile ch’io possa stare in questa camera? Siete vigliacchi! Vi ucciderei!». Ella arrossiva e mi diceva: «Sta’ zitto, sta’ zitto. Ci penseremo». «Ma io che faccio qui? Io voglio andar via. Voglio anche andar via da Siena. È possibile che io viva tra voi? Chi siete voi per me? Io vi odio. Vi sputerei addosso.» La matrigna taceva e rifaceva lesta il letto. Ricordo il coltrone rosso e il comodino verniciato di scuro. Nella camera uno specchio verdognolo con un ornato vecchio d’oro. Il marmo del canterano sporco e segnato da me di lapis. Nella camera era l’uscietto dello stanzino dove stavo a lavorare. Una volta vi bruciai molto incenso, che si sparse per tutta la casa. Non so che significato gli dessi. Mi noiava e n’ero umiliato, il puzzo di quella stanza. Puzza di latrine, di altre camere, e di rinchiuso. Sotto alla mia finestra era quella della... donna, e fino alle undici, la mattina, dovevo udire i suoi rumori.
Talvolta non volevo che l’uomo passasse in camera con il pranzo. Me lo facevo posare dietro l’uscio. E quando egli saliva su nella mia camera, io mi chiudevo nello stanzino e procuravo di non farmi sentire. Se mi chiamava non rispondevo. Tutte le mattine dovevo chiedere alla matrigna i quindici centesimi per le sigarette. «Mi dà, per piacere, i soliti tre soldi?» «Non te li detti ieri?» «Si, si: li ebbi ieri. Sono troppi?» E dovevo pregarla che me li mandasse per mezzo di una cuginetta che era in casa, e credo, sia ancora. Era una bambina che mi avrebbe fatto del bene. Ma quando s’accorsero che la trattavo differente, le imposero di non obbedirmi. Ella mi rifaceva inconsciamente tutti i modi di loro. Dallo stanzino, perché stavo attento, udivo cadere i tre soldi dentro la cassetta da lettere dell’uscio (A9). Perché, senza aprirlo, me li davano così. E lo chiesi io per non vedere alcuno.
Poi cominciai a mangiare in cucina (A10). Una stanza che ha tutto il necessario ma non è adoperata. Vi avevo portato uno sgabello, che era ritolto regolarmente, perché dava noia alle donne la mattina per le faccende. Chiudevo l’uscio della cucina, perché non fossi veduto. Quando saliva il professere Citernesi, tenevo una mano dinanzi al lume, perché, vedendo la luce, egli non cercasse qualcuno lì dentro.
Meno che d’inverno, perché andavo in campagna, non uscivo più la sera. Imaginavo di non essere a Siena. E le voci degli uomini erano interessanti come i rumori delle cose. Quando udivo chiudere l’uscio di casa, fuggivo in camera mia. Una volta udii due signore dire che ero pazzo (A11). Non mi dispiaceva. Aumentava il mio odio e camminavo per la strada d’aridità che m’ero tracciato. Nessun affetto: motto del mio spirito.
Ma un affetto c’era. A me non sembrava, perché chissà come ero divenuto. C’eri tu, e ricordo bene le improvvise mie disperazioni. Sentivo ad un tratto gli occhi bagnati, mi si torceva la bocca e mi mettevo le mani nei capelli. Poi sedevo sul canapé, con la testa quasi in giù. Ma il deserto della mia anima era più potente. Tale affetto mi pareva da scordare. Dovevo scordarlo. Altrimenti non avrei camminato più verso i diademi che il mio ingegno mi metteva dinanzi. E credevo che tu non mi amassi sufficientemente. Pensavo che tu non mi avessi compreso più. «Perché devo ricadere? Ella non può tener dietro a te. Che ti scriva... ti scriva... ti prenda. Ma ella, al contrario, vivrà di ricordi. Ella non avrà saputo foggiare un’altra spada. Si; tutto il tuo animo è una spada: fredda e senza pietà. Ed Emma, Emma non seppe entrare in queste recenti sinuosità del tuo animo. Ella non sa quello che pensi. Ma devi tu pensare ad Emma? Non ti riesce di lasciarla? Non ti riesce di ucciderla? Odiala». E talvolta sono andato a letto, spogliandomi subito dopo queste crisi, nervosissimo; coprendomi tutto il capo, con i lenzuoli stretti tra i pugni chiusi. Una volta scrissi qualche cosa: e fu pensata con te. Era lo spirito tuo nel mio.
Io m’ero messo moralmente dinanzi agli uomini così. Li paragonavo ad una processione svolgentesi dinanzi a me, e dovevo vederla senza prendervi parte.
Non imaginavo mai che vita tu facessi. Ricordavo semplicemente te.
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In una camera senza finestre, a metà della scala per venire in camera mia, dormiva un giovinetto compaesano a mio padre. Era venuto a Siena per lavare i piatti, ed era tenuto, invece, in campagna per ramare le viti. Ricordo il suo viso rosso con la scottatura del sole, la sua giubba bianca di ramato e il cappello, sfondato, di paglia.
Prima di andare a letto andavo in camera sua. Gli puzzavano i piedi, e tutti i cassetti del canterano avevano un odore di cicca e di sudore. Talvolta mi divertivo a fargli dispetti. Lo bagnavo. Egli batteva i pugni sul muro che divideva le nostre camere; io gli rispondevo battendo i piedi.
Quando ero malato (A12), mi ha aiutato anche un cugino, che è minatore in Austria. I ricordi di allora hanno un significato quasi simbolico.
Una volta questionai con il padre, e andai la sera a bussare all’Osservanza. Più che bisogno di mangiare e del dormire, mi piaceva il significato che aveva per me un convento. Io pensavo al suo giardino rude, alle mura gialle, a studiare. Sarei divenuto (avevo quest’ambizione) un uomo dotto e celebre per tutto. Mi davano una tenerezza infinita i cipressi e le valli. Io scorgevo da per tutto un significato.
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Intellettualmente ero molto variabile. Un giorno ero inondato dall’acque del misticismo cristiano; un’altra volta l’imaginazione pagana mi travolgeva lo spirito. Ma era un giuoco puro dell’intelletto. Una ricerca sua.
Ero giunto a sopprimere qualsiasi contatto morale. Gli uomini erano sensazioni. Gli ultimi giorni che stetti a Siena, ero riuscito, pensando, a trasformare tutto un paesaggio d’intorno. Lo sentivo dentro di me... Anche gli affetti degli uomini divenivano in me spiritualità intellettuale. Io non li provavo. Li analizzavo nel mio spirito, e li credevo mia proprietà. Quando mi fosse passato per il capo che non era così, si scancellava il mio sogno intellettuale. Gli uomini mi sembravano affini alle bestie. In loro non trovavo se non un pezzo di carnaccia con le budella sudicie dentro. Io amavo le cose e, principalmente, le piante. Le trovavo uguali a me. E ho desiderato spesso di divenire uno stocco di granoturco...
(Anche di ciò, ora non ho maggiore chiarezza).
Capisci come tu stessa sia stata l’origine di questa forma di spiritualità. Capisci come tu stessa generasti l’ascetismo di questa ambizione. E come, in ogni abbiezione, io conservassi sempre una quantità di tua energia. E l’errore fatale era che tu non mi scrivessi secondo le nuove ambizioni. (Pensavo allora così).
Potrei darti un dolore ora? Ieri sera ero per piangere.
Ma io ho voluto che tu suggessi tutta la mia forza. Io non t’amerei se non ti sentissi uguale a me.
E sei tale.
E provo anche un’altra cosa.
Hai mai pensato la morte tu? Io molte volte. A Roma per colpa tua; e qui a Siena ho sentito che moriremmo insieme prima che ci accadesse qualche cosa.
...ti sento come una ineffabilità; e, forse, anche per l’effetto del tuo amore. Potrei pensare un tempo indefinito qualche cosa per esprimere come ci adoriamo, senza che trovassi una parola. Non parliamo, dunque. L’affetto è inesprimibile. Quando scrivo, penso invece. L’affetto non dice una parola. Il che ti spiega che quando siamo stati insieme io abbia provato ciò che è possibile provare, cambiandomi nell’anima; e senza riferirtene niente.
Sono lieto di sentire la differenza del mondo che ho lasciato e la gioia reale che tu mi dài. Potrò mai dirti meglio come tutto il mio essere ti venera? Come io mi senta in un abisso dinanzi a te?
E quando penso che da parte tua mi ami altrettanto, arrossisco. Non ne sono degno. Ma sento tutta la tua anima.
Arrossisco anche di non avere mai saputo parlare di te.
Io penso alla nostra unione come ad un simbolo. Non può avere altro scopo a noi.
Molte volte, anche ora, tu, non sei una persona. Il che dipende dal non vederci. Tu sei la mia anima. Tu sei qui dentro. «Se tutto il mondo perisse, Emma non morirebbe».
Ma ieri sera, passando sotto le tue finestre, sentii come questa spiritualità è congiunta alla realtà. Io adoravo la mia sposa.
Domenica, 15 settembre 1907. Dalle 19 alle 21.